ACIDI GRASSI OMEGA-3 PER COMBATTERE L’EMICRANIA?

L’emicrania è tra le maggiori cause di disabilità nel mondo per il suo impatto elevato sulle attività sociali, lavorative e familiari: ne soffre il 12 per cento degli italiani ed è tre volte più prevalente nelle donne rispetto agli uomini.
Ricercatori americani dimostrano che un’alimentazione ricca in acidi grassi omega-3 può aiutare a ridurre gli attacchi di emicrania. Hanno randomizzato 182 pazienti (88% donne, età media 38 anni) con emicrania alla frequenza di 5-20 giorni al mese in tre gruppi di regime dietetico: controllo (EPA+DHA <150 mg/die e acido linoleico ~7% delle calorie totali), ricco di omega-3 (EPA+DHA 1.5 g/die e acido linoleico ~7% delle calorie), ricco di omega-3 e povero di omega-6 (EPA+DHA 1.5 g/die e acido linoleico ≤1.8% delle calorie).
Dopo 16 settimane, i regimi alimentari ricchi di omega-3 hanno prodotto una riduzione della durata degli attacchi di emicrania rispetto alla dieta di controllo, con benefici maggiori per chi ha seguito la dieta povera di omega-6: -1.7 ore/die vs. -1.3 ore/die. Sono diminuiti anche gli episodi mensili di emicrania: -4 giorni/mese con la dieta ricca di omega-3 e povera di omega-6 vs -2 giorni/mese con la dieta ricca di omega-3.
Restano da chiarire i meccanismi alla base di questi risultati, come resta da capire se quanto emerso da questo studio possa essere di supporto alla terapia farmacologica, che nella maggior parte dei pazienti deve essere personalizzata, sia in fase acuta che nella profilassi.

Brit Med J (IF=17.215) 374:n1448,2021. doi: 10.1136/bmj.n1448

COMPLICANZE A LUNGO TERMINE DEL DIABETE MELLITO DI TIPO 2 A INSORGENZA GIOVANILE

L’incidenza del diabete mellito di tipo 2 a esordio giovanile è aumentata parallelamente all’aumento del numero di bambini con obesità; negli Stati Uniti del 4,8% all’anno nel periodo dal 2002 al 2012. I processi patologici associati al diabete, compreso lo sviluppo di insulino-resistenza e il deterioramento della funzione delle cellule beta pancreatiche, progrediscono più rapidamente nel diabete di tipo 2 a esordio giovanile rispetto a quello dell’età adulta, aumentando il rischio di complicanze precoci.
I ricercatori dello studio TODAY hanno recentemente pubblicato i risultati del follow-up (dal 2011 al 2020) su 500 partecipanti (età 26,4±2,8 anni; tempo medio dalla diagnosi di diabete 13,3±1,8 anni).
L’incidenza cumulativa di ipertensione e dislipidemia è stata del 67,5% e del 51,6%. L’incidenza di malattia renale diabetica e neuropatia è stata del 54,8% e del 32,4%. La prevalenza di malattia retinica, comprese le fasi più avanzate, è stata del 13,7% nel periodo 2010-2011 e del 51,0% nel periodo 2017-2018. Il 60,1% dei partecipanti ha presentato almeno una complicanza, il 28,4% almeno due complicanze.
New Engl J Med (IF=91.253) 385:416,2021. DOI: 10.1056/NEJMoa2100165

COLCHICINA E CUORE: QUALI SONO I BENEFICI?

Questa rassegna raccoglie una trattazione completa sulla colchicina, spaziando dalla storia, al meccanismo d’azione, alle indicazioni e i possibili effetti collaterali. La colchicina è uno dei più antichi rimedi utilizzati per curare le malattie. Deriva dal bulbo della pianta Colchicum autumnale (figura). Già nell’antico Egitto un estratto utilizzato per il dolore alle articolazioni veniva menzionato nel papiro di Ebers, un manoscritto medico scritto intorno al 1500 ac. L’ingrediente attivo, la colchicina, è stata isolata nel 1800 da due chimici francesi, Pierre-Joseph Pelletier e Joseph Caventou.
Nonostante il suo diffuso utilizzo, l’esatto meccanismo d’azione della colchicina è ancora poco chiaro. Il target cellulare primario è stato identificato negli anni 50-60 nei microtubuli, struttura chiave del citoscheletro cellulare, essenziali per svariate funzioni, come il mantenimento della forma cellulare, in traffico intracellulare, la secrezione di citochine, la migrazione cellulare, la regolazione di canali ionici e la divisione cellulare. La colchicina lega gli eterodimeri di tubulina e ne altera la conformazione, prevenendo la crescita dei microtubuli a basse dosi, e promuovendo la depolimerizzazione ad alte dosi. L’effetto antinfiammatorio della colchicina deriva dalla combinazione di varie azioni: viene inibita la formazione dell’inflammosoma e l’espressione dell’interleuchina 1-b e di altre interleuchine proinfiammatorie; viene ostacolata la chemiotassi dei neutrofili, la loro l’adesione e mobilizzazione. Inoltre può interferire nell’interazione neutrofili-piastrine, che gioca un ruolo importante nell’aterotrombosi.
Storicamente indicata nel trattamento acuto della gotta, la colchicina viene utilizzata in cardiologia nel trattamento della pericardite acuta e cronica e nella prevenzione della sindrome post pericardiectomia. Più recentemente sono state introdotte nuove indicazioni, nella prevenzione secondaria della cardiopatia ischemica, nella prevenzione della ristenosi coronarica in soggetti sottoposti ad angioplastica o a rivascolarizzazione chirurgica, nella riduzione della fibrillazione atriale dopo interventi di cardiochirurgia e in generale delle recidive in pazienti con fibrillazione atriale parossistica.
Nonostante casi clinici isolati di miotossicità dopo uso concomitante con statina, una recente revisione dell’ American Heart Association ha mostrato che non ci sono rischi nella co-somministrazione di colchicina e statina in pazienti senza malattia renale avanzata.
Eur Heart J (IF=29.983) 42:2745,2021 doi: 10.1093/eurheartj/ehab221

EVOLOCUMAB NEI PAZIENTI PEDIATRICI CON IPERCOLESTEROLEMIA FAMILIARE ETEROZIGOTE

Prove crescenti suggeriscono che le alterazioni aterosclerotiche iniziano presto nella vita dei pazienti con ipercolesterolemia familiare e che la riduzione dei livelli di colesterolo LDL (LDL-C) anche nell’infanzia è importante per prevenire lo sviluppo di una malattia cardiovascolare aterosclerotica. Le statine sono il fondamento della terapia farmacologica dell’ipercolesterolemia familiare nei pazienti pediatrici, come negli adulti. Ezetimibe può essere aggiunto nel caso di un effetto insufficiente della sola statina, e le attuali linee guida raccomandano l’inizio del trattamento all’età di 8 o 10 anni. Nonostante un trattamento appropriato, spesso in questi pazienti non si raggiungono i livelli di LDL-C raccomandati dalle linee guida. Evolocumab, un anticorpo monoclonale diretto contro la proproteina convertasi subtilisina-kexina di tipo 9 (PCSK9), è ampiamente utilizzato nei pazienti ipercolesterolemici adulti.
Uno studio internazionale, che ha coinvolto anche ricercatori italiani, ha esaminato efficacia e sicurezza di evolocumab in 157 pazienti pediatrici (età 13,7±2,4 anni) con ipercolesterolemia familiare eterozigote, che avevano ricevuto un trattamento ipolipemizzante stabile per almeno 4 settimane prima dello screening e che avevano un livello di LDL-C ≥130 mg/dl. I pazienti sono stati assegnati in modo casuale in un rapporto 2:1 a ricevere iniezioni sottocutanee mensili di evolocumab (420 mg) o placebo. L’endpoint primario era la variazione percentuale del livello di LDL-C dal basale alla settimana 24.
Alla settimana 24, il valore medio di LDL-C era diminuito del 44,5% nel gruppo evolocumab e del 6,2% nel gruppo placebo. La variazione assoluta del livello di LDL-C è stata di -77,5 mg/dl nel gruppo evolocumab e -9,0 mg/dl nel gruppo placebo. L’incidenza di eventi avversi che si sono verificati durante il periodo di trattamento è stata simile nei gruppi evolocumab e placebo.
Evolocumab è quindi efficace nel ridurre il livello di LDL-C anche nei pazienti pediatrici con ipercolesterolemia familiare, senza causare rilevanti effetti collaterali.
New Engl J Med (IF=91.253) 383:1317,2021. doi: 10.1056/NEJMoa2019910.

TORNA LA CAMPAGNA PER IL TUO CUORE 2022

CARDIOLOGIE APERTE 2022

Le malattie cardiovascolari rappresentano ancora oggi la prima causa di morte nel mondo, con 18,5 milioni di vite perse ogni anno. In Italia sono responsabili del 34,8% di tutti i decessi, sia per gli uomini (31,7%) che per le donne (37,7%), con 230mila morti ogni anno certificate dall’ISTAT. Diventa quindi prioritario ridurre il rischio cardiovascolare attraverso comportamenti modificabili e attività di prevenzione cardiovascolare.

Dal 14 febbraio fino al 20 febbraio torna l’appuntamento di Cardiologie Aperte, promosso dalla Fondazione per il Tuo cuore e da Cardiologi ANMCO. 660 cardiologi rispondono gratuitamente ai cittadini che possono porre domande sui problemi legati alle malattie del cuore. Si possono contattare i cardiologi al numero verde dedicato 800 05 22 33 (dalle 10 alle 12 e dalle 14 alle 16).

Per maggiori informazioni: www.periltuocuore.it

 

PRESTIGIOSO PREMIO A UNA RICERCATRICE DEL CENTRO

L’assegnista del Centro Alice Ossoli vince il premio SIF-Farmindustria 2020 per ricerche farmacologiche con il lavoro:
“Recombinant LCAT (Lecithin:Cholesterol Acyltransferase) Rescues Defective HDL (High-Density Lipoprotein)-Mediated Endothelial Protection in Acute Coronary Syndrome” Pubblicato su Arteriosclerosis, Thrombosis, and Vascular Biology nel 2019

GIOVANI RICERCATRICI CRESCONO!

La nostra Marta Turri, con una brillante discussione del suo progetto di ricerca “Role of lecithin:cholesterol acyltransferase (LCAT) in brain cholesterol metabolism”, vince una Borsa di Studio del Dottorato in Scienze Farmacologiche Biomolecolari, Sperimentali e Cliniche dell’Università degli Studi di Milano. Che sia l’inizio di una brillante carriera… Buon lavoro!

LA TERAPIA ANTIPERTENSIVA? MEGLIO ALLA SERA

Il trial Hygia Chronotherapy, condotto nell’ambito delle cure primarie, ha confrontato gli effetti della terapia anti-ipertensiva somministrata in due diversi momenti della giornata, prima di coricarsi e al risveglio, al fine di valutare se il timing della somministrazione influenza la riduzione del rischio cardiovascolare prodotta dal trattamento dell’ipertensione. Lo studio multicentrico prospettico e controllato ha arruolato 19084 pazienti ipertesi (10614 uomini e 8470 donne con età media d 60.5 ± 13.7 anni), randomizzati (1:1) a ricevere l’intera dose giornaliera della terapia antipertensiva (≥1 farmaci) al momento di coricarsi (n=9552) o al risveglio (n=9532). All’arruolamento e durante il follow-up (comprensivo di almeno una visita all’anno), il controllo pressorio è stato valutato mediante monitoraggio ambulatoriale della pressione arteriosa condotto per 48 ore. Durante il follow-up (di durata mediana pari a 6.3 anni) l’outcome primario – costituito dal composito di mortalità cardiovascolare, infarto miocardico, rivascolarizzazione coronarica, scompenso cardiaco o ictus – è stato osservato in 1752 partecipanti. Dopo aggiustamento per fattori confondenti (età, sesso, comorbilità quali diabete di tipo 2 e malattia renale cronica, fumo, colesterolo, pressione sistolica media notturna e precedenti eventi cardiovascolari), il rischio di andare incontro all’outcome primario è risultato significativamente più basso nei soggetti in cui la terapia era stata somministrata al momento di coricarsi, sia per quanto riguarda l’outcome composito (HR 0.55, 95%CI 0.50-0.61) (Figura), sia per i suoi singoli componenti, ovvero mortalità cardiovascolare (HR 0.44, 95%CI 0.34-0.56), infarto del miocardio (HR 0.66, 95%CI 0.52-0.84), rivascolarizzazione coronarica (HR 0.60, 95%CI 0.47-0.75), scompenso cardiaco (HR 0.58, 95%CI 0.49-0.70) e ictus (HR 0.51, 95%CI 0.41-0.63).

Pertanto, possiamo concludere che l’assunzione serale della terapia anti-ipertensiva determina una maggiore riduzione del rischio cardiovascolare rispetto alla stessa terapia somministrata la mattina al risveglio.

Eur Heart J (IF=24.889) 2019 Oct 22. doi: 10.1093/eurheartj/ehz754.

INFEZIONI. UN FATTORE DI RISCHIO DI ICTUS ISCHEMICO

I ricercatori dell’Icahn School of Medicine del Mount Sinai, New York City, hanno analizzato i dati provenienti dall’Emergency Department Database e dallo State Inpatient Database dello Stato di New York dal 2006 al 2013 per valutare eventuali correlazioni tra infezioni e rischio di ictus ischemico, emorragia subaracnoidea (SAH) ed emorragia intracerebrale (ICH). I risultati rivelano che tutti i tipi d’infezione – della pelle, del tratto urinario, addominale, del sistema respiratorio e la setticemia – si associano a una probabilità significativamente più elevata di ictus ischemico acuto. In particolare un’infezione del tratto urinario aumenta di 5 volte la probabilità di sviluppare un ictus entro 7 giorni dall’infezione. Gli scienziati hanno anche osservato associazioni significative tra infezioni della cute, del tratto urinario, respiratorie, setticemia e ICH, anche se con una probabilità inferiore rispetto a quella di subire un ictus. In seguito alle infezioni si sono verificati invece pochi casi di SAH: la probabilità di emorragia subaracnoidea aumenta solo con le infezioni respiratorie.
Va precisato che lo studio si basa su dati provenienti da grandi database amministrativi, che raccolgono i dati dei dipartimenti di emergenza e dei ricoveri ospedalieri, il che potrebbe indicare che solo le infezioni così gravi da richiedere le cure del dipartimento di emergenza o quelle che si sviluppano durante un precedente ricovero in ospedale, sono associate ad un aumentato rischio di ictus. Esistono prove significative del fatto che più grave è l’infezione, maggiore è il rischio di ictus. Bisognerà valutare se le associazioni evidenziate in questo studio persistono anche in popolazioni con infezioni che non nascono a seguito di un ricovero ospedaliero e che non richiedono una visita d’urgenza.

Stroke (IF=6.046) 50:2216,2019