Archivi categoria: Fattori di Rischio Cardiovascolare
COMPLICANZE A LUNGO TERMINE DEL DIABETE MELLITO DI TIPO 2 A INSORGENZA GIOVANILE
APNEA OSTRUTTIVA DEL SONNO. RIDOTTA SATURAZIONE DI OSSIGENO ED ELEVATA FREQUENZA CARDIACA AUMENTANO IL RISCHIO CARDIOVASCOLARE
Un’alimentazione ricca di fibre riduce il rischio di demenza
Le fibre alimentari sono carboidrati di origine vegetale che gli enzimi dell’apparato digerente umano non sono in grado di digerire e assorbire. Vengono classificate come solubili o insolubili in base alla loro capacità di sciogliersi in acqua. Per citarne alcune: le pectine, le gomme e le mucillagini sono fibre solubili di cui sono ricchi i legumi; la cellulosa e la lignina dei cereali integrali e delle verdure sono fibre insolubili.
Diversi studi hanno ipotizzato un ruolo protettivo delle fibre alimentare sul decadimento cognitivo e quindi sullo sviluppo di demenza, e un recente studio giapponese ha contribuito a supportare questa ipotesi.
A partire dagli anni ’80, i ricercatori dell’Università di Tsukuba hanno invitato 3700 soggetti sani, di età compresa tra i 40 e i 64 anni, a rispondere ad una survey sulle abitudini alimentari. I soggetti sono stati seguiti per circa vent’anni, durante i quali si sono registrati 670 casi di demenza invalidante. I ricercatori hanno scoperto che coloro che consumavano quantità maggiori di fibre, specialmente quelle solubili, avevano un rischio di demenza del 25% più basso rispetto a coloro che ne consumavano quantità ridotte.
Difficile stabilire al momento se esista una relazione di causalità e i possibili meccanismi che legano l’alimentazione alla neuroprotezione. Una delle ipotesi è che le fibre siano in grado di ridurre la neuroinfiammazione, alla base dello sviluppo delle patologie neurodegenerative, tramite la regolazione del microbiota intestinale. In aggiunta, l’utilizzo di fibre alimentari contribuisce a ridurre altri fattori di rischio alla base delle demenze, quali il peso corporeo e la pressione sanguigna.
Ulteriori studi sono necessari, ma di certo i risultati promettenti di questo studio suggeriscono un intervento sulla dieta come possibile strategia preventiva per le demenze.
Yamagishi K, Maruyama K Ikeda A et al. “Dietary fiber intake and risk of incident disabling dementia: the Circulatory Risk in Communities Study”. Nutritional Neuroscience 2022. Doi: 10.1080/1028415X.2022.2027592 (Impact Factor=5.000)
L’INFEZIONE DA SARS-CoV-2 AUMENTA IL RISCHIO DI SVILUPPARE UN DIABETE?
ADDORMENTARSI TARDI, MA ANCHE TROPPO PRESTO, AUMENTA IL RISCHIO CARDIOVASCOLARE, SOPRATTUTTO NELLE DONNE
L’EMBOLIA POLMONARE NEI PAZIENTI CON COVID-19
ANSIA E INSTABILITÀ EMOTIVA AUMENTANO IL RISCHIO CARDIOMETABOLICO
I maschi adulti che tendono ad essere ansiosi rischiano di sviluppare malattie cardiometaboliche. È quanto emerge da uno studio del Veterans Affairs Boston Healthcare System (USA).
La ricerca ha analizzato i dati relativi a 1.561 uomini (età 53.0±8.4 anni), che tra il 1975 e il 2015 hanno completato la scala Eysenck Personality Inventory-Short Form (per l’instabilità emotiva) e la Worries Scale (per l’ansia), e che si sono sottoposti alla misurazione ogni 3-5 anni di 7 biomarkers di rischio cardiometabolico (CMR): pressione arteriosa sistolica e diastolica, colesterolo totale, trigliceridi, BMI, glicemia e VES. Per ciascun individuo è stato calcolato un punteggio CMR (da 1 a 7) in base al numero di marcatori che superavano i valori-soglia indicati dalle linee guida americane.
Il punteggio CMR medio aumenta di 0.8 unità per decade tra i 33 e i 65 anni, quando raggiunge un valore di 3.8, per poi aumentare di 0.5 unità per decade. Instabilità emotiva e ansia peggiorano l’andamento, aumentando rispettivamente del 13% (95%CI, 1.03-1.23) e del 10% (95%CI, 1.01-1.20) la probabilità di raggiungere un punteggio CMR ≥6 nel tempo.
Ansia e instabilità emotiva rovinano la vita anche compromettendo la condizione cardiometabolica; di questo si deve tener conto nello sviluppare interventi per migliorare la salute della popolazione.
J Am Heart Assoc (IF=5.501) 11:e022006. doi:10.1161/JAHA.121.022006.
L’IMPORTANZA DEI TRIGLICERIDI NEL RISCHIO CARDIOVASCOLARE NELLA POPOLAZIONE ITALIANA
La storia dei rapporti tra ipertrigliceridemia (HTG) e rischio cardiovascolare (CV) è sicuramente controversa. Se diversi studi epidemiologici hanno associato l’HTG a un aumentato rischio CV, da più parti è stato sollevato qualche dubbio sul contributo causale e indipendente dell’HTG al rischio. Inoltre, gli studi interventistici volti a ridurre la TG hanno mostrato effetti incoerenti sulle complicanze ischemiche. Negli ultimi 10 anni gli studi genetici basati sulla tecnica della randomizzazione mendeliana hanno portato nuova attenzione sull’associazione causale diretta tra TG e rischio CV, e si è instaurata nella comunità medico-scientifica una crescente consapevolezza che l’HTG può aumentare il profilo di rischio di un paziente. Di conseguenza, le Linee Guida di prevenzione cardiovascolare consigliano di affrontare l’HTG come parte della strategia per il controllo del rischio CV, specie nei pazienti a rischio elevato adeguatamente trattati con statine. Al contrario, il ruolo dell’HTG nell’influenzare gli esiti cardiovascolari negli individui a rischio basso-moderato è meno consolidato.
È in questo quadro che si inseriscono i risultati dello studio TG REAL, condotto allo scopo di valutare se la presenza di elevati livelli di TG influenzano il rischio di eventi CV o di mortalità per tutte le cause in una popolazione a basso rischio CV seguita in un contesto di pratica clinica convenzionale. Si tratta di uno studio italiano, osservazionale di tipo retrospettivo-prospettivo, che ha reclutato circa 158.000 soggetti privi di malattia vascolare, non in terapia con farmaci in grado di influire sui lipidi plasmatici e per i quali erano disponibili più misurazioni della TG. Sono stati definiti normotrigliceridemici coloro che mostrano ripetutamente valori di TG inferiori a 150 mg/dl. Sono stati poi individuati due gruppi di soggetti con HTG, quelli con HTG moderata (TG di 150-500 mg/dl) e quelli con HTG severa (TG >500 mg/dl). Circa il 10% dei soggetti arruolati è risultato affetto da HTG e, di questi, circa l’1% mostrava un’HTG severa. Volendo proiettare questi dati alla popolazione generale italiana adulta (>18 anni), si può stimare che circa 4.9 milioni soffrono di HTG di una qualche gravità. Nei soggetti con HTG tendevano a prevalere i maschi rispetto alle donne e soggetti che assumevano farmaci antidiabetici o antiipertensivi. I livelli medi della TG nei diversi gruppi sono riportati nella Figura.
Durante la fase prospettica dello studio, che ha avuto una durata massima di circa 5 anni (valore mediano circa 2 anni), nuovi eventi CV sono stati registrati nell’1.6% dei soggetti arruolati; il 3.9% di loro è deceduto per qualsiasi causa. L’incidenza di nuovi eventi CV è stata del 7.2 ogni 1.000 persone-anno, quella di morte per tutte le cause del 17.1 ogni 1.000 persone-anno. I soggetti con HTG moderata avevano un rischio di eventi CV circa doppio rispetto ai normotrigliceridemici, e tale rischio cresceva a 3.8 volte nei soggetti con HTG severa. Allo stesso modo, quando è stato considerato il rischio di morte, questo è risultato superiore di 1.49 volte nei soggetti con HTG moderata e di 3.08 volte in quelli con HTG severa. Lo studio TG REAL, condotto in un numero molto ampio di soggetti, dimostra pertanto che l’HTG, anche nell’ambito di valori moderati (150–500 mg/dl), è un potente predittore di rischio di malattie CV e di mortalità. La principale implicazione clinica dei risultati è che essi supportano ulteriormente il concetto che la misura della TG deve essere considerata una parte importante della valutazione clinica di routine per tutti i pazienti (compresi quelli stimati essere a basso rischio) per gestire in modo efficace la prevenzione cardiovascolare.
COLESTEROLO ALTO. A RISCHIARE INFARTO E ICTUS SONO SOPRATTUTTO GLI UNDER 45
Lo stretto legame tra colesterolo alto e rischio di infarto e ictus è ben noto a voi lettori di questa pagina. Un recente studio di grandi dimensioni conferma il nesso, evidenziando che a rischiare di più sono i giovani adulti sotto i 45 anni. La ricerca, condotta dal Multinational Cardiovascular Risk Consortium, ha esaminato i dati di 19 Paesi in Europa, Nordamerica e Australia, per un totale di 398.846 individui, con un follow-up massimo di 43.6 anni. L’età media dei partecipanti (48.4% donne) era di 51 anni.
Durante questo periodo, 54.542 individui hanno sviluppato un evento cardio- o cerebro-vascolare. Come atteso, all’aumentare della concentrazione plasmatica di colesterolo non-HDL (in pratica il colesterolo-LDL), aumenta il rischio di sviluppare un evento. L’aspetto più interessante (a parte l’elevato numero di individui analizzati e la loro eterogeneità genetica/geografica) è l’osservazione che la relazione tra colesterolo non-HDL ed eventi è particolarmente ripida nei soggetti più giovani (<45 anni) (Figura). In essi, una concentrazione plasmatica di colesterolo non-HDL di 145-185 mg/dl raddoppia il rischio (HR=2.0; 95%CI 1.4-2.8 nei maschi e HR=1.8; 95%CI 1.3-2.4 nelle femmine) rispetto ai soggetti con colesterolo non-HDL <100 mg/dl. Negli over-60 gli stessi valori di colesterolo non-HDL aumentano il rischio “solo” del 20% e del 30%, rispettivamente nelle donne e negli uomini.
Non si deve attendere un’età avanzata per identificare individui con aumentati livelli di colesterolo “cattivo” nei quali eseguire approfondimenti per determinare il livello di aterosclerosi a livello delle arterie. Attualmente questo può essere valutato in maniera non invasiva a livello carotideo, mediante ecoDoppler vascolare, o a livello coronarico, mediante TAC coronarica. In base all’esito di tali esami andrà poi identificato il trattamento più appropriato: dalle modificazioni dello stile di vita, incrementando l’attività fisica aerobica e correggendo abitudini alimentari sbagliate, fino alla prescrizione, se necessario, di nutraceutici e farmaci ipocolesterolemizzanti.
Lancet (IF=60.392) 394:2173,2019. doi: 10.1016/S0140-6736(19)32519-X