ANZIANI. UNA PRESSIONE SISTOLICA PIÙ ELEVATA DI NOTTE AUMENTA IL RISCHIO DI DEMENZA

Gli anziani con una pressione sistolica più elevata di notte che di giorno presentano un rischio aumentato di sviluppare demenza e in particolare malattia di Alzheimer. È quanto emerge da uno studio svedese che ha esaminato i dati relativi a 1608 anziani seguiti per 24 anni a partire da quando avevano circa 70 anni. I partecipanti allo studio non presentavano demenza, ictus o deterioramento cognitivo al basale. Dopo un monitoraggio ambulatoriale per 24 ore della pressione arteriosa sono stati categorizzati in due gruppi: sistolica notturna ridotta (SNR, quando il rapporto tra sistolica notturna e diurna è ≤1) o sistolica notturna elevata (SNE, quando il rapporto tra sistolica notturna e diurna è >1).
Durante il follow-up sono stati diagnosticati 286 casi di demenza, definita in base a un esame delle cartelle cliniche e a una conferma da parte di almeno due geriatri. Gli anziani con SNE  presentano un rischio significativamente maggiore di sviluppare una qualsiasi forma di demenza (HR=1.64; 95%CI 1.14–2.34) e in particolare di malattia di Alzheimer (HR=1.67; 95% 1.01–2.76) rispetto agli anziani con SNR; anche il rischio di demenza vascolare è più elevato (HR=1.29; 95%CI 0.33-3.06), ma la differenza non è risultata statisticamente significativa.
Una SNE potrebbe essere conseguenza di disturbi del sonno non diagnosticati, come l’apnea notturna. I soggetti con apnea non trattata soffrono di ipossia e ripetuti risvegli durante il sonno, condizioni note per essere associate allo sviluppo di demenza. Ad esempio, la veglia interrompe il normale funzionamento del sistema glinfatico, una rete che rimuove le scorie metaboliche dal cervello, e l’accumulo di scorie metaboliche, come la beta amiloide, nel cervello è stato associato all’insorgenza di malattia di Alzheimer.

Hypertension (IF=10.190) 77:1383,2021. doi:10.1161/HYPERTENSIONAHA.120.16711.

VARIABILITÀ DELLA PRESSIONE ARTERIOSA E SVILUPPO DI MALATTIA RENALE CRONICA NEL PAZIENTE IPERTESO

I dati sull’associazione tra variabilità da visita a visita ambulatoriale della pressione arteriosa (BPV) e rischio di malattie renali croniche (CKD) nei pazienti ipertesi trattati sono limitati. L’obiettivo di questo studio era di valutare la relazione tra BPV e sviluppo di CKD nei pazienti ipertesi. Si tratta di un’analisi post-hoc del sotto-studio renale del China Stroke Primary Prevention Trial (CSPPT). Sono stati inclusi un totale di 10.051pazienti ipertesi senza CVD e CKD con almeno sei visite ambulatoriali di misurazione della BP in un arco di 24 mesi. La BPV è stata calcolata come deviazione standard (SD) delle 6 misurazioni. L’end-point primario è stato lo sviluppo di CKD, definita come una diminuzione della velocità di filtrazione glomerulare stimata ≥30% e <60 mL/min/1,73 m2, o malattia renale allo stadio finale (ESRD). La durata mediana del follow-up è stata di 4,4 anni.
Dopo un aggiustamento per alcune variabili, che includevano la pressione sistolica di base (SBP) e la SBP media durante i primi 2 anni, si è osservata una relazione significativamente positiva tra BPV e rischio di CKD (per incremento di 1 SD, OR=1,27; 95%CI 1,10-1,46). I risultati in vari sottogruppi, in cui i pazienti erano suddivisi per età, sesso, SBP al basale, compliance al trattamento e farmaci antipertensivi concomitanti sono stati coerenti.
La variabilità dell’SBP, indipendentemente dal livello medio di BP, è associata in modo significativo allo sviluppo di CKD nei pazienti ipertesi trattati.

Nephrol Dial Transplant (IF=4.531) 35:1739,2020

ALIMENTI E NUTRIENTI CON EFFETTI SULLA PRESSIONE ARTERIOSA

A seguito dell’articolo di lunedì riportiamo oggi qualche dato in relazione agli effetti pressori di alcuni alimenti e nutrienti.

 

Barbabietola rossa
Fra gli alimenti ad azione antipertensiva grande attenzione è rivolta alle fonti naturali di nitrati (NO3−) quali precursori del monossido di azoto (NO), importante sostanza ad azione vasodilatatoria e quindi ipotensiva. Una volta ingeriti, i nitrati inorganici vengono metabolizzati alla forma bioattiva e successivamente immessi in circolo. Fra gli alimenti con elevate concentrazioni di nitrati inorganici vi è la barbabietola rossa, il cui consumo, già in acuto, è associato a riduzione dei livelli di pressione arteriosa in soggetti normotesi o affetti da ipertensione di primo grado. Dati derivati da una meta-analisi di 13 studi clinici controllati contro placebo, che hanno coinvolto 324 partecipanti, hanno mostrato come la supplementazione di barbabietola rossa fosse associata a una riduzione significativa di pressione arteriosa sistolica [−4.1 mmHg (95%CI −6.1 a −2.2)] e diastolica [-2 mmHg (95%CI -3.0 a -0.9)].

Ibisco
L’Hibiscus sabdarrifa, o Karkadé, è una pianta utilizzata ampiamente in Medioriente per la preparazione di tisane. È una fonte importante di flavonoidi e vitamina C ed è stata ampiamente studiata per il suo effetto antipertensivo e blandamente ipoglicemizzante. L’ibisco avrebbe anche un leggero effetto ipocolesterolemizzante, ma solo nei pazienti affetti da sindrome metabolica/insulino-resistenza. Una metanalisi di trials clinici controllati conclude che la somministrazione costante di Ibisco è associata a una riduzione di pressione arteriosa sistolica di 7.6 mmHg e diastolica di 3.5 mmHg.

Sali di Magnesio
Fra i nutrienti, il magnesio è uno di quelli che influenza maggiormente la pressione arteriosa, stimolando direttamente la sintesi di prostaciclina e NO, riducendo il tono e la reattività vascolare. Una metanalisi di 34 studi clinici controllati, che hanno coinvolto 2.028 soggetti, ha confermato l’effetto antipertensivo della supplementazione di magnesio con una riduzione significativa della pressione sistolica (2-3 mmHg) e diastolica (3-4 mmHg). Il problema principale del magnesio in quanto tale è la scarsa biodisponibilità, per cui sono stati sviluppati sali che ne migliorano l’assorbimento intestinale, limitando anche gli effetti osmotico-lassativi.

PRESSIONE NORMALE-ALTA: UN TARGET IDEALE PER L’APPROCCIO NUTRACEUTICO

Negli ultimi due decenni gli epidemiologi si sono concentrati sull’effetto di livelli pressori subottimali, non francamente patologici. Nelle Linee Guida della Società Europea di Cardiologia (ESC) e della Società Europea dell’Ipertensione (ESH) una pressione “Normale-Alta” è definita dal riscontro ripetuto di valori di pressione sistolica compresi fra 130 e 139 mmHg e/o di pressione diastolica compresi fra 85 e 89 mmHg. Questa condizione clinica interessa circa il 30% della popolazione generale ed è caratterizzata da un rischio cardiovascolare che sembra crescere in modo proporzionale rispetto ai valori ottimali di 120/80 mmHg.
Le Linee Guida dell’ESH definiscono i suggerimenti per gli interventi non farmacologici  sulla pressione normale-alta: ridurre l’assunzione di sale a <5 grammi/die; ridurre l’assunzione di alcool (specie nelle donne); aumentare il consumo di verdure, frutta fresca e secca, olio d’oliva, latticini a basso contenuto in grasso, riducendo l’apporto di carne; ottimizzare il peso corporeo e la circonferenza vita; aumentare l’esercizio aerobico regolare; annullare l’esposizione attiva o passiva al fumo di sigaretta.
La Società Italiana Ipertensione Arteriosa (SIIA) ha prodotto un ampio documento di consensus evidence-based sul razionale di impiego e l’evidenza clinica per l’utilizzo di numero elevato di nutrienti, nutraceutici e fitoterapici. Fra gli alimenti, l’evidenza più convincente si ha per barbabietola rossa, ibisco, succo di melograno, semi di sesamo e catechine (specie infuso di tè). Fra i nutrienti, i livelli pressori possono essere ridotti da magnesio, potassio (da usarsi con cautela nei pazienti con insufficienza renale avanzata e/o assumenti diuretici risparmiatori di potassio/antialdosteronici), e vitamina C. Fra i nutraceutici non-nutrienti, sono di interesse gli estratti di aglio invecchiato, la frazione flavonoica del biancospino, isoflavoni della soia, il resveratrolo, e la melatonina.
In ogni caso, i documenti promossi da SIIA ed ESH stressano l’importanza di non considerare mai l’approccio nutraceutico in sostituzione di quello farmacologico, quando questo sia indicato.

PRESSIONE SANGUIGNA. L’IPERTENSIONE NOTTURNA AUMENTA IL RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Le persone che soffrono di innalzamenti della pressione sanguigna durante la notte sono a maggior rischio di eventi cardiovascolari e insufficienza cardiaca. A questa conclusione è giunto uno studio della Jichi Medical University di Tochigi, in Giappone.
I ricercatori hanno esaminato i dati di 6.359 pazienti (68.6±11.7 anni, 48% maschi) con almeno un fattore di rischio per eventi cardiovascolari, ma nessun sintomo di malattia cardiovascolare, sottoposti a monitoraggio della pressione per 24 ore. Dopo un follow-up medio di 4,5 anni si sono verificati 309 eventi cardiovascolari, tra cui 119 ictus, 99 episodi di malattia coronarica e 88 casi di insufficienza cardiaca.
Ogni aumento di 20mmHg di pressione sistolica durante la notte era associato a un rischio maggiore di malattia cardiovascolare aterosclerotica e di insufficienza cardiaca. Una pressione notturna più elevata di quella diurna era associata a un aumento del rischio di malattie cardiovascolari (HR 1.48; 95%CI 1.05-2.08) e in particolare di insufficienza cardiaca (HR 2.45; 95%CI 1.34-4.48).
Durante il sonno, la posizione supina aumenta il ritorno venoso, con conseguente aumento del precarico cardiaco. Inoltre, l’innalzamento della pressione sistolica notturna agisce notevolmente sulla tensione della parete cardiaca, aumentando sia il precarico che il postcarico.

Circulation (IF=23.603) 142:1810,2020. doi: 10.1161/CIRCULATIONAHA.120.049730

IPERTENSIONE ARTERIOSA E CONTROLLO PRESSORIO: NEGLI USA UNA PERICOLOSA INVERSIONE DI TENDENZA

Una preoccupante inversione di tendenza nella capacità di controllare l’ipertensione emerge da uno studio sull’andamento temporale del controllo pressorio negli Stati Uniti d’America, che descrive i risultati di un’analisi dei dati dell’US National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES), un progetto coordinato dal Centro Nazionale per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (Centers for Disease Control and Prevention) che, con scadenza biennale, si propone di rappresentare incidenza, prevalenza e andamento temporale delle principali patologie. Il caso in questione tratta della prevalenza di ipertensione arteriosa e i risultati sono desunti dall’analisi di una popolazione di 51.761 individui, di cui 18.262 ipertesi.
Il dato più eclatante emerso dallo studio è che la proporzione di ipertesi controllati, rispetto al totale degli ipertesi, che era aumentata in modo costante nel periodo compreso tra gli anni 2000 e 2014, passando dal 32% al 54%, ha segnato una significativa flessione negli ultimi 5 anni, fino a ridursi al 44% nel 2018. Gli ipertesi controllati sono coloro che raggiungono l’obiettivo pressorio prefissato (<140/90 mmHg) con trattamenti non farmacologici e farmacologici.

Le stime derivate dal NHANES dicono che essi rappresentano poco meno della metà di tutti gli ipertesi, essendo ampia la percentuale di ipertesi che non sono a conoscenza di tale condizione (circa il 20%) oppure che assume trattamenti che, per vari motivi, risultano inefficaci (circa il 30%). Vi è poi un altro risultato sul quale gli autori hanno soffermato la loro attenzione: la percentuale di ipertesi non noti e non controllati risulta essere molto ampia nella fascia di età tra i 18 ed i 44 anni, cioè tra i giovani adulti. E’ probabile che la ragione di ciò sia da ricondurre a una scarsa percezione del rischio cardiovascolare futuro, spesso alla base di comportamenti errati quale quello di interrompere arbitrariamente il trattamento anti-ipertensivo.
In Italia la situazione sembra migliore. Un’analisi, condotta nel 2016 a partire dai dati contenuti nei database elettronici gestiti dai medici di famiglia su una popolazione di 940.800 pazienti, dimostra che la prevalenza di ipertensione arteriosa è del 26%, e che il 61% degli ipertesi è “controllato”, percentuale in deciso incremento rispetto a quanto registrato nel 2005, quando la percentuale di ipertesi controllati raggiungeva solamente il 43%.

JAMA (IF=45.540) 324:1190,2020. doi:10.1001/jama.2020.14545.

LA VARIABILITÀ DELLA PRESSIONE ARTERIOSA È ASSOCIATA AD ALTERAZIONI SFAVOREVOLI DELLA STRUTTURA E DELLA FUNZIONE CARDIACA

Queste sono le conclusioni a cui sono giunti i ricercatori della John Hopkins University di Baltimora, Maryland, che hanno utilizzato i dati dello studio CARDIA, studio di coorte basato su una  comunità di 5.115 partecipanti dai 18 ai 30 anni all’arruolamento (dal 25 marzo 1985 al 7 giugno 1986) e seguito per un intervallo di 30 anni. A 2.400 partecipanti dello studio CARDIA è stata misurata la PA in 8 visite in un intervallo di 25 anni; al 25° anno (dal 1 giugno 2010 al 31 agosto 2011) è stato eseguito un ecocardiogramma . Le misure di variabilità della PA sistolica e diastolica da visita a visita includevano deviazione standard (DS), variabilità reale media e variabilità indipendente dalla media. Dei 2.400 partecipanti, 1.024 erano uomini (42,7%) e 976 erano afroamericani (40,7%); l’età media (DS) al 25° anno era di 50,4 (3,6) anni. L’aumento della variabilità della PA sistolica o diastolica (1 DS) era associato a un aumento della massa del ventricolo sinistro (LV), a un peggioramento della funzione diastolica e a pressioni di riempimento LV più elevate.
È quindi opportuno mantenere valori pressori normali nel lungo termine, al fine di prevenire alterazioni della struttura e funzione miocardica compatibili con uno stato di insufficienza cardiaca.
JAMA Cardiol (IF=12.794) 5:795,2020. doi: 10.1001/jamacardio.2020.0799.