ATTIVITÀ FISICA. 10 MINUTI IN PIÙ AL GIORNO RIDUCONO LA MORTALITÀ DEL 7%

L’attività fisica è un toccasana per il benessere psicofisico. Un’ulteriore conferma viene da uno studio retrospettivo statunitense, che ha analizzato i dati del National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES), un programma che registra periodicamente informazioni su stile di vita e salute di un campione rappresentativo della popolazione americana.
I ricercatori hanno raccolto i dati relativi a 4.840 individui (53% donne) di età compresa tra i 40 e gli 85 anni, che hanno indossato per una settimana un contapassi per il monitoraggio oggettivo dell’attività fisica. I volontari sono stati raggruppati sulla base dei minuti trascorsi svolgendo un’attività fisica moderata-intensa (moderate-to-vigorous physical activity, MVPA): 8 intervalli di 19 minuti, da 0 a ≥140 minuti al giorno. I dati di mortalità sono stati ricavati dal registro nazionale dei decessi.
Durante il follow-up di 10.1 anni si sono verificati 1165 decessi. Aggiustando i dati per una serie di variabili, incluse età, BMI e attitudine al fumo, i ricercatori hanno calcolato che un aumento della MVPA di dieci minuti al giorno per tutti gli americani si tradurrebbe in una riduzione di 111.174 decessi all’anno (-7%). All’aumentare del tempo dedicato all’attività fisica corrisponde un aumento della stima dei decessi evitabili (con 20 minuti si arriva a -13%, con 30 minuti a -17%) (Figura).
Questo studio fornisce un’ulteriore conferma dell’importanza dell’attività fisica per mantenersi in buona salute. È bene ricordare che tempi e intensità dell’attività devono essere correttamente adattati all’età dell’individuo e alle sue eventuali patologie. Non va dimenticata poi l’importanza dell’allenamento della forza e dell’elasticità muscolare, che va abbinato agli esercizi aerobici, come la camminata, per contrastare la perdita di massa muscolare che si registra col passare degli anni.
JAMA Intern Med (IF=21.873) 182:349,2022. doi: 10.1001/jamainternmed.2021.7755

POLIPILLOLA CON O SENZA ASPIRINA IN PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE?

La cosiddetta polipillola, dall’inglese “polypill”, combinazione a dose fissa di diversi principi attivi ad azione ipolipidemizzante e antiipertensiva, va affermandosi come strategia di successo in prevenzione cardiovascolare, grazie alla possibilità di migliorare la compliance alla terapia. Non è ben chiaro però se la polipillola debba o meno includere l’antiaggregante aspirina.
Per risolvere il dubbio, ricercatori di 13 Paesi hanno condotto una meta-analisi di tre grandi studi randomizzati (TIPS-3, HOPE-3, and PolyIran), che hanno reclutato 18162 soggetti (età 63.0±7.1 anni; 49.8% donne) in prevenzione primaria (rischio stimato a 10 anni 17.7±8.7%), trattati con polipillola (statina e 2 antiipertensivi, con o senza aspirina) o terapia standard.
Durante il follow-up di 5 anni, 276 (3.0%) soggetti che assumevano la polipillola e 445 (4.9%) soggetti controllo hanno manifestato un evento cardiovascolare maggiore (decesso cardiovascolare, infarto miocardico, ictus o rivascolarizzazione). La riduzione degli eventi è maggiore nei soggetti che hanno assunto polipillola (FDC) con aspirina (HR=0.53; 95%CI 0.41-0.67) rispetto a quelli che hanno assunto polipillola senza aspirina (HR=0.68; 95%CI 0.57-0.81) (figura).
Lancet (IF=79.323) 398:1133,2021.

LO STUDIO ITALIANO “SAVE YOUR HEART”

Il forte impatto della pandemia sui pazienti con malattie cardiovascolari ha creato una situazione delicata e richiede interventi urgenti e coordinati tra i vari attori del SSN. Questo è lo scenario emerso da “Save Your Heart”, campagna di screening promossa dal Gruppo Servier in Italia, in collaborazione con la Società Italiana di Farmacia Clinica (SIFAC) e con il patrocinio della Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa (SIIA), della Società Italiana per lo studio dell’Aterosclerosi (SISA) e Conacuore Onlus.
Save Your Heart è uno studio osservazionale condotto nel periodo maggio-luglio 2021 in 21 farmacie di comunità presenti in 15 regioni italiane, con l’obiettivo di indagare i fattori di rischio cardiovascolare non diagnosticati e/o non controllati in soggetti ipertesi in trattamento antipertensivo e intercettare i pazienti che sottovalutano o ignorano le possibili conseguenze a cui sono esposti. Lo screening ha coinvolto oltre 500 pazienti di età superiore o uguale a 50 anni, di entrambi i sessi, disponibili a effettuare in autoanalisi la misurazione di pressione arteriosa, profilo lipidico (colesterolo totale, colesterolo HDL e colesterolo LDL) e glicemia, nonché la compilazione di un questionario sull’aderenza alle terapie in corso.
I risultati dello screening sono allarmanti. Il 68% dei partecipanti non raggiunge valori pressori accettabili. Il 59% dei partecipanti trattati per ipercolesterolemia non raggiunge i valori-target di colesterolo-LDL, mentre il 72% di chi ha dichiarato di non essere ipercolesterolemico presenta valori di colesterolo-LDL superiori a quelli raccomandati dalle linee guida. Il 69% degli ipertesi diabetici non ha un buon controllo della glicemia e nel 31% di coloro che hanno dichiarato di non essere diabetici (~85% del campione), sono stati riscontrati valori di glicemia tipici degli stati prediabete-diabete. Un’ulteriore criticità viene dal fatto che quasi la metà dei partecipanti (49%) ha un rischio alto o molto alto di andare incontro a un evento cardiovascolare fatale a 10 anni. Infine, oltre il 40% dei pazienti è risultato solo parzialmente aderente alle terapie antipertensive, condizionando l’efficacia dei trattamenti stessi e contribuendo così al mancato controllo dei valori pressori.
Questi numeri confermano la necessità di individuare un nuovo approccio clinico per identificare e trattare in maniera efficace i soggetti ipertesi, al fine di evitare possibili conseguenze cardiovascolari a medio e lungo termine, quali ictus cerebrale e infarto del miocardio.

DIABETE. ANDARE IN BICICLETTA RIDUCE LA MORTALITÀ

I pazienti diabetici che vanno in bicicletta hanno una mortalità per tutte le cause e per cause cardiovascolari più bassa rispetto a coloro che non praticano il ciclismo.
Ricercatori dell’Università di Copenhagen hanno esaminato i dati relativi a 7.459 adulti diabetici (età 55.9±7.7 anni, 52.6% donne) inclusi nell’European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition (EPIC). Nel corso del follow-up di 14.9 anni, 1.673 individui sono deceduti, 811 per cause cardiovascolari.
La mortalità per tutte le cause diminuiva all’aumentare del tempo trascorso in bicicletta, fino a 4-5 ore a settimana, per poi risalire: -22% (95%CI 0.61-0.99) in chi andava in bicicletta per 1-59 minuti/settimana rispetto a chi non andava in bicicletta, -24% (95%CI 0.65-0.88) per 60-149 min, -32% (95%CI 0.57-0.82) per 150-299 min, -24% (95%CI 0.63-0.91) per ≥300 min. Un andamento simile si riscontrava per la mortalità cardiovascolare (Figura).
I risultati di questo studio ribadiscono ancora una volta l’importanza di sviluppare interventi che incoraggino i pazienti diabetici (e gli individui in generale) a svolgere qualsiasi attività fisica.
 
JAMA Intern Med (IF=21.873) 181:1196,2021. doi: 10.1001/jamainternmed.2021.3836

LA TECNOLOGIA AL SERVIZIO DELLA PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE: L’UTILITÀ DEI DISPOSITIVI INDOSSABILI

L’ottimizzazione dei fattori di rischio e dello stile di vita ha notevole rilevanza nella prevenzione della fibrillazione atriale (FA), malattia ad alta morbilità e mortalità, che colpisce un elevato numero di individui. In questo contesto, la relazione tra attività fisica e FA è di enorme interesse: mentre un’attività fisica estrema aumenta il rischio di FA (p.es. negli atleti di resistenza), un’attività fisica moderata è associata a un minor rischio di FA ed è raccomandata nella prevenzione. Comprendere la relazione a forma di U tra attività fisica e rischio di FA è da sempre una sfida. Un ostacolo è stato rappresentato, fino a tempi recenti, dalle difficoltà nella corretta quantificazione dell’attività fisica nelle popolazioni esaminate. È noto che le stime dell’attività autodichiarate non sono sempre affidabili. Come quantificare in modo obiettivo l’attività fisica?
Ricercatori americani hanno superato questa difficoltà utilizzando i dati raccolti dagli accelerometri da polso (smarth watch) indossati per 1 settimana da >90 000 individui (età 62±8 anni, 57% donne). L’analisi dei dati conferma che un attività fisica tra moderata e vigorosa, come raccomandata dalle società cardiache e dall’OMS, è associata a un ridotto rischio di FA (HR 0.82; 95%CI 0.75-0.89) e di ictus (HR 0.76; 95%CI 0.64-0.90). Non inaspettatamente, l’attività fisica quantificata oggettivamente differiva dall’attività fisica auto-riferita raccolta utilizzando il questionario internazionale (r=0.16).
Questo studio fa avanzare la ricerca sull’attività fisica (e sulla FA) dall’ordinale al numerico: quantificare l’attività, anche se solo nell’arco di una settimana, con un dispositivo elettronico fornisce chiaramente informazioni più affidabili rispetto ai questionari compilati dai partecipanti. La comprensione della dose ottimale e del modello di attività fisica da attuare trarrà grande giovamento dall’utilizzo di dispositivi indossabili. L’uso a livello di popolazione di tali dispositivi offre una notevole opportunità per stimare e alterare il lo stile di vita al fine di migliorare la salute. Con oltre 100.000 app sanitarie e oltre 400 monitor di attività indossabili attualmente disponibili, la tecnologia offre possibilità nuove e convenienti nella prevenzione cardiovascolare. Chiaramente, c’è un’urgente necessità di valutare anche l’eventuale danno (es. sovra diagnosi, ansia basata su un’errata interpretazione dei risultati) causato da queste tecnologie.
Eur Heart J (IF=29.983) 42:2472,2021. doi: 10.1093/eurheartj/ehab250

LA DIETA DASH RALLENTA LA PROGRESSIONE DELL’ATEROSCLEROSI CORONARICA NON OSTRUTTIVA?

Un studio pilota condotto in Polonia ha messo in evidenza come un intervento sullo stile di vita focalizzato sulla dieta DASH possa rallentare la progressione dell’aterosclerosi e ridurre il volume delle placche non calcificate in pazienti con aterosclerosi coronarica non ostruttiva.
Lo studio monocentrico randomizzato ha incluso 89 pazienti (41% donne) con sintomi di angina lieve e sospetta coronaropatia; l’età media era 60 anni e l’indice di massa corporea medio era 29. La maggior parte dei soggetti presentava ipertensione e/o dislipidemia, sono stati esclusi i pazienti diabetici e quelli che avevano subito bypass coronarici.
I pazienti sono stati randomizzati in due gruppi: il gruppo “intervento” ha ricevuto consulenze alimentari e incoraggiamento ad aumentare l’attività fisica, oltre alla terapia medica ottimale; il gruppo “controllo” ha ricevuto solo la terapia medica. Dopo un esame della composizione corporea, ogni paziente incluso nel braccio intervento ha ricevuto un piano nutrizionale personalizzato DASH (Dietary Approaches to Stop Hypertension). La dieta DASH aumenta il consumo di frutta, verdura, cereali e latticini poveri di grassi, e limita i grassi saturi, il colesterolo, i cereali a basso contenuto di fibre con un elevato indice glicemico e i dolci. I partecipanti sono stati incoraggiati a fare cinque pasti al giorno, con meno di tre ore tra un pasto e l’altro. L’adesione alla dieta è stata valutata tramite un diario alimentare autocompilato.
Il volume degli ateromi, misurato tramite angioTAC (CTA), è aumentato significativamente nel gruppo di controllo (+1,1%), meno nel gruppo intervento (+1,0%); la differenza tra i gruppi, tuttavia, non è risultata significativa. Entrambi i gruppi hanno mostrato significative riduzioni delle placche non calcificate, con una riduzione maggiore nel gruppo intervento (-1.7% vs -0.7%, P=0.044). Non è stata riscontrata differenza tra i gruppi nelle placche calcificate.

La dieta DASH rimane uno dei modelli nutrizionali più ampiamente studiati, di cui è stato dimostrato il beneficio per l’ipertensione arteriosa e la riduzione del rischio cardiovascolare. Si basa su cibi comuni, non è restrittiva ed è relativamente facile da seguire. I risultati di questo studio, pur limitati a un numero ridotto di soggetti, dimostrano che la dieta DASH potrebbe essere efficace anche nel rallentare la progressione dell’aterosclerosi e ridurre la vulnerabilità delle placche in pazienti con aterosclerosi coronarica non ostruttiva.

JACC Cardiovasc Imaging (IF=12.740) 14:1192,2020.  doi: 10.1016/j.jcmg.2020.10.019

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE PER PREDIRE GLI EVENTI CARDIOVASCOLARI?

I ricercatori della Cardiologia Universitaria dell’Ospedale Molinette di Torino, del Dipartimento di Informatica dell’Università di Torino e del Dipartimento di Meccanica e Aerospaziale del Politecnico di Torino hanno applicato il Machine Learning, secondo il quale i computer imparano progressivamente dai dati che vengono loro forniti, migliorando sempre più le loro capacità predittive, per predire il rischio di eventi futuri (morte per ogni causa, infarto miocardico, emorragia grave) nei pazienti sopravissuti a un infarto. I dati clinici relativi a 25 variabili di rischio registrate in 19826 pazienti infartuati provenienti da diversi Paesi sono stati analizzati con algoritmi di Machine Learning, che usano metodi matematico-computazionali per apprendere informazioni direttamente dai dati, senza conoscere nulla a priori sulle possibili relazioni tra i dati stessi. Il modello fornito dagli algoritmi di Machine Learning è stato poi utilizzato per predire i futuri eventi in una coorte di 3444 pazienti neoinfartuati.
Durante il follow-up di un anno dei neoinfartuati sono stati riscontrati 58 decessi (1.7%), 58  infarti del miocardio (1.7%) e 27 emorragie gravi (0.8%). Il modello di Machine Learning ha predetto correttamente il 92% dei decessi (95%CI 0.90-0.93), l’81% degli infarti (95%CI 0.76-0.85) e l’86% delle emorragie gravi (95%CI 0.82-0.89).
Lo studio fornisce un’importante, benché ancora preliminare, dimostrazione delle possibilità dell’Intelligenza Artificiale in medicina e in cardiologia, suggerendo che in un prossimo futuro cura e prevenzione nel paziente cardiovascolare possano trarre grande giovamento dalla combinazione di esperienza clinica e stime sempre più precise del rischio individuale futuro.

Lancet (IF=60.390) 397:199,2021.  doi: 10.1016/S0140-6736(20)32519-8.

COLCHICINA E INFIAMMAZIONE NEL PAZIENTE CORONARICO

Nei pazienti con cardiopatia ischemica cronica ed elevati livelli di proteina c-reattiva ad alta sensibilità (hs-CRP) l’infiammazione gioca un ruolo fondamentale nel promuovere il processo aterotrombotico. Gli effetti protettivi cardiovascolari dei farmaci antinfiammatori sembrano però limitati e riscontrabili solo nei pazienti con una risposta biochimica alla terapia. Ricercatori olandesi hanno verificato se l’esposizione a breve termine alla colchicina, un potente farmaco antinfiammatorio, sia in grado di modificare i livelli dei marcatori di infiammazione in pazienti con malattia coronarica cronica.
138 pazienti con malattia coronarica cronica e livelli serici di hs-CRP ≥ 2 mg/L, sono stati valutati prima e dopo 30 giorni di esposizione a colchicina (0,5 mg/die). Hs-CRP è diminuita del 16% rispetto ai valori basali (da 4.40 mg/L a 2.33 mg/L, differenza mediana -1.66 mg/L, 95%CI -2.17;-1.22 mg/L).

La concentrazione di Interleuchina-6 (IL-6) è diminuita anch’essa del 16%, da 2.51 ng/L to 2.22 ng/L (differenza mediana -0.36 ng/L, 95%CI -0.70; -0.01 ng/L). Sia il conteggio dei leucociti che quello dei trombociti è diminuito (differenza mediana rispetto al basale, -7% e -4% rispettivamente). Non sono state osservate variazioni clinicamente rilevanti nelle frazioni lipidiche.
Nei pazienti con malattia coronarica cronica e con elevata hs-CRP l’esposizione di un mese a colchicina ha prodotto una riduzione dei marcatori infiammatori, potenzialmente efficace per ridurre il rischio cardiovascolare.

PLoS One (IF=) 5:e0237665,2020 doi: 10.1371/journal.pone.0237665

PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE CON TERAPIA IPOCOLESTEROLEMIZZANTE NEI SOGGETTI PIÙ ANZIANI

Una meta-analisi ha valutato gli effetti della terapia ipocolesterolemizzante sulla prevenzione cardiovascolare in soggetti anziani. Sono stati analizzati 29 studi clinici randomizzati con follow-up di almeno 2 anni (2.2-6.0 anni), per un totale di 244090 soggetti. Di questi, 21492 soggetti avevano un’età >75 anni: 11750 (54.7%) in trattamento con una statina, 6209 (28.9%) con ezetimibe e 3533 (16.4%) con un inibitore di PCSK9.
Durante il follow-up si sono verificati 3519 eventi vascolari (morte cardiovascolare, infarto miocardico, ictus, rivascolarizzazione coronarica). Per ogni riduzione di 1 mmol/l  (38.6 mg/dl) di colesterolo-LDL (LDL-C) si è osservata una riduzione del 26% degli eventi vascolari (RR 0.74; 95%CI 0.61-0.89), addirittura maggiore di quella osservata nei soggetti più giovani (<75 anni) (RR 0.85; 95%CI 0.78-0.92). Nei soggetti più anziani, la riduzione degli eventi non era significativamente diversa nei pazienti trattati con statina (RR 0.82; 95%CI 0.73-0.91) o con altri farmaci (RR 0.67; 95%CI 0.47-0.95). Il beneficio della riduzione dell’LDL-C nei soggetti più anziani era simile su mortalità cardiovascolare (RR 0.85; 95%CI 0.74-0.98), infarto miocardico (RR 0.80; 95%CI 0.71-0.90), ictus (RR 0.73; 95%CI 0.61-0.87) e rivascolarizzazione coronarica (RR 0.80; 95%CI 0.66-0.96).

Si conferma quindi la necessità di intervenire con un’adeguata terapia ipocolesterolemizzante anche nei soggetti più anziani.

Lancet (IF=60.390) 396:1637,2020. doi: 10.1016/S0140-6736(20)32332-1

QUANTO DEVE SCENDERE IL COLESTEROLO-LDL DOPO UN ICTUS?

Ricercatori francesi e sudcoreani hanno valutato il beneficio in termini di prevenzione cardiovascolare del ridurre il livello di colesterolo-LDL (LDL-C) a due diversi valori-target in pazienti cha hanno subito un ictus. Hanno reclutato 2860 pazienti (età media di 67 anni; 68% maschi), di cui l’86% con ictus ischemico entro i 3 mesi precedenti e il 14% con un attacco ischemico transitorio (TIA) nei 15 giorni precedenti l’arruolamento. Li hanno indirizzati a una terapia con statina±ezetimibe per raggiungere due diversi valori-target di LDL-C (1430 per gruppo): <70 mg/dl o 90-110 mg/dl.
Il valore basale medio di LDL-C era di 135 mg/dl ed è sceso a 65 mg/dl e 96 mg/dl nei gruppi a target basso e alto. Durante il follow-up di 3.5 anni si sono verificati 277 eventi cardiovascolari (morte cardiovascolare, infarto miocardico, ictus, rivascolarizzazione coronarica o carotidea): 121 nei pazienti a target basso, 156 nei pazienti a target più alto. Il rischio di sviluppare un evento è quindi diminuito del 22% (HR 0.78; 95%CI 0.61-0.98) nei pazienti a target più basso.
Anche nei pazienti che hanno subito un ictus la prevenzione cardiovascolare è più efficace quando il trattamento ipocolesterolemizzante è più aggressivo.

N Engl J Med (IF=74.699) 382:9,2020. doi: 10.1056/NEJMoa1910355.