CANE E PADRONE SI ASSOMIGLIANO, ANCHE NEL DIABETE MELLITO DI TIPO 2

Una ricerca dell’Università di Uppsala (Svezia) indica che avere un cane con diabete mellito di tipo 2 (DM2) aumenta la possibilità di contrarre la malattia.
I ricercatori svedesi hanno identificato 208.980 proprietari di cani e 123.566 proprietari di gatti nel periodo 2004-2006 e li hanno seguiti per altri 5 anni. La presenza di diabete nei proprietari è stata accertata ricorrendo a registri pubblici; per gli animali sono stati utilizzati i dati di una compagna assicurativa che copre le spese sanitarie degli animali domestici.
L’incidenza di DM2 durante il follow-up è stata di 7.7 casi per 1000 anni-persona nei proprietari di cani e di 7.9 casi nei proprietari di gatti. Negli animali, l’incidenza è stata di 1.3 casi per 1000 anni-cane e 2.2 casi per 1000 anni-gatto. Nei proprietari di un cane diabetico il rischio di sviluppare un DM2 era più alto del 38% rispetto ai proprietari di un cane sano (HR 1.38; 95%CI 1.10-1.74). Avere un proprietario diabetico aumenta il rischio per il cane di diventare anch’esso diabetico (HR 1.28; 95%CI 1.01-1.63). Al contrario, possedere un gatto diabetico non aumenta il rischio di sviluppare la malattia (HR 0.99; 95%CI 0.74-1.34).
Gli autori suggeriscono che i cani diabetici possano fungere da “sentinelle” per l’identificazione di pazienti diabetici, in cui la malattia non sia stata ancora diagnosticata.

Brit Med J (IF=30.313) 371:m4337,2020

LA COLCHICINA NEL TRATTAMENTO DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA CRONICA?

Trial recenti, tra cui il COLCOT, hanno dimostrato che la colchicina, un antinfiammatorio utilizzato prevalentemente nel trattamento della gotta, riduce il rischio di eventi cardiovascolari in pazienti con recente infarto del miocardio. Ora lo studio “Low Dose Colchicine for secondary prevention of cardiovascular disease” (LoDoCo2) estende l’evidenza ai pazienti con cardiopatia ischemica cronica.
Il LoDoCo2 è uno studio randomizzato, controllato, in doppio cieco in cui 5522 pazienti con cardiopatia cronica sono stati assegnati a ricevere colchicina 0.5 mg /die (n=2762) o placebo (n=2760). L’endpoint primario è stato un composito di morte cardiovascolare, infarto miocardico, stroke ischemico, rivascolarizzazione coronarica. L’endpoint secondario un composito di morte cardiovascolare, infarto del miocardio o stroke ischemico. Il follow-up mediano è stato di 28.6 mesi.
L’endpoint primario si è verificato in 187 pazienti (6.8%) del gruppo colchicina e in 264 pazienti (9.6%) del gruppo placebo (HR=0.69; 95%CI, 0.57-0.83). L’endpoint secondario si è verificato in 115 pazienti (4.2%) del gruppo colchicina e 157 (57%) del gruppo placebo (HR=0.72; 95%CI, 0.57-0.92). L’incidenza di infarto miocardico, rivascolarizzazione coronarica, morte cardiovascolare erano significativamente inferiori nel gruppo colchicina rispetto al placebo. La mortalità da cause non cardiache era maggiore nel gruppo colchicina rispetto al gruppo placebo (HR=1.51; 95%CI, 0.99-2.31).
La colchicina potrebbe entrare a far parte della pratica clinica cardiologica, per diminuire il rischio cardiovascolare in pazienti con patologia coronarica stabile.

New Engl J Med (IF=74.699) 383:1838,2020. doi:10.1056/NEJMoa2021372.

COVID-19. ESISTE UN LEGAME CON IL METABOLISMO DELLE HDL?

Ricercatori dell’Università di Pechino descrivono per la prima volta un intrigante legame fra SARS-CoV-2, il virus responsabile della CoViD-19, e metabolismo delle HDL.
Come noto, il SARS-CoV-2 infetta le cellule ospiti sfruttando l’interazione tra la proteina virale SARS-2-S e il recettore cellulare ACE2. I ricercatori cinesi mostrano che tale interazione è favorita dal recettore delle HDL “scavenger receptor B type 1” (SR-B1). La subunità S1 di SARS-2-S lega il colesterolo e forse altre componenti delle HDL, facilitando la captazione del virus da parte delle cellule ospiti. L’espressione di SR-B1 in cellule che già esprimono ACE2 aumenta l’infettività del virus, mentre l’inibizione farmacologica dell’espressione di SR-B1 ne riduce l’infettività.
È importante notare che, fra le cellule che normalmente esprimono i due recettori SR-B1 e ACE-2, vi siano anche le cellule polmonari, che notoriamente costituiscono uno dei bersagli principali del virus. Il coinvolgimento di SR-B1 nell’infezione da SARS-CoV-2, se confermato, potrebbe tradursi nella messa a punto di uno o più protocolli terapeutici, che prendano specificamente di mira la complessa interazione tra virus, HDL e cellule ospiti.

Nature Metab 2:1391,2020

W LA CIOCCOLATA!

È noto che i flavonoli, un sottogruppo di flavonoidi vegetali presenti in alimenti come cacao, uva, mele, tè o bacche, riducono il rischio cardiovascolare, verosimilmente migliorando la funzione endoteliale. Ricercatori delle Università di Birmingham e dell’Illinois mostrano ora che i flavonoli aumentano anche l’agilità mentale e l’ossigenazione al cervello. In uno studio controllato cross-over i ricercatori hanno somministrato una bevanda al cacao ad alto contenuto di flavonoli (150 mg di epicatechina e 35.5 mg of catechina) o priva di flavonoli (< 4 mg di ciscuno) a 18 maschi sani, di età compresa tra 18 e 40 anni.
La bevanda ad alto contenuto di flavonoli ha indotto una più rapida e intensa ossigenazione del cervello in risposta a livelli artificialmente elevati di anidride carbonica. Questa era associata a una migliore performance nei test cognitivi; i soggetti hanno completato i test in modo più efficiente, con un miglioramento dell’11% nella velocità delle prestazioni.
Sebbene ancora preliminari, visto il limitato numero di soggetti esaminati e il disegno sperimentale, i risultati dimostrano che l’assunzione acuta di flavonoli induce un miglioramento apprezzabile nelle prestazioni e nell’ossigenazione, fornendo un’ulteriore prova a sostegno del legame tra ossigenazione del sangue cerebrale e capacità cognitive.

Sci Rep (IF=3.998) 10:19409,2020.  doi:10.1038/s41598-020-76160-9

GLI ACIDI GRASSI N-3 NON RIDUCONO GLI EVENTI CARDIOVASCOLARI NEI PAZIENTI ANZIANI CON RECENTE INFARTO DEL MIOCARDIO

L’OMEMI (OMega-3 fatty acids in Elderly with Myocardial Infarction) trial è uno studio randomizzato, in doppio cieco, in pazienti anziani (70-82 anni) con recente infarto miocardico. 1027 pazienti sono stati randomizzati a n-3FA [930 mg di acido eicosapentaenoico (EPA) e 660 mg di acido docosaesaenoico (DHA)] (n=513) o placebo (n=514). L’infarto si era verificato 2-8 settimane prima della randomizzazione.
L’outcome primario composito (morte per tutte le cause, infarto del miocardio non fatale, rivascolarizzazione, stroke o ospedalizzazione per scompenso cardiaco) si è verificato nel 21.4% dei pazienti nel gruppo n-3FA e nel 20.0% dei pazienti nel gruppo placebo (HR=1.08; 95%CI 0.82-1.41; p=0.62). Per quanto riguarda gli outcomes secondari: fibrillazione atriale nel 7.2% del gruppo n-3FA e nel 4.0% del gruppo placebo (p=0.06); sanguinamenti maggiori nel 10.7% del gruppo n-3FA e nell’11% del gruppo placebo (p=0.87).
Chi di voi è interessato agli effetti degli n-3FA sul rischio cardiovascolare noterà che i risultati dell’OMEMI sono analoghi a quelli dello STRENGHT, ma diversi da quelli del REDUCE-IT e del JELIS, che invece hanno dimostrato un beneficio degli n-3FA sugli eventi cardiovascolari (vedi articoli). La differenza è probabilmente imputabile alla diversa formulazione di n-3FA utilizzata nei quattro studi. Il REDUCE-IT e il JALIS hanno utilizzato EPA puro, mentre OMEMI e STRENGTH hanno utilizzato una combinazione di EPA e DHA. Emergerebbe quindi un chiaro beneficio dell’EPA nei confronti della miscela.

Circulation (IF=23.603) 2020 Nov 15. doi: 10.1161/CIRCULATIONAHA.120.052209

INTERNATIONAL POLYCAP STUDY-3: UN’UNICA PILLOLA PER RIDURRE GLI EVENTI CARDIOVASCOLARI?

Lo studio TIPS-3 ha dimostrato che la cosiddetta “polipillola” (un’unica compressa che contiene simvastatina 40mg, atenololo 100mg, ramipril 10mg e idroclorotiazide 25mg) non solo riduce pressione sistolica e colesterolo LDL, ma diminuisce anche gli eventi cardiovascolari in pazienti con rischio cardiovascolare intermedio. Sono stati arruolati 5.713 pazienti (età media 63.9 anni, 37% diabetici) randomizzati a ricevere la polipillola (n=2.861) o placebo (n=2.852). Inoltre, sono stati randomizzati a ricevere aspirina 75 mg vs placebo. La durata media del follow up è stata 4.6 anni.

L’outcome primario composito, rappresentato da morte cardiovascolare, infarto del miocardio, stroke, scompenso cardiaco, arresto cardiaco, o rivascolarizzazione, si è verificato nel 4.4% dei pazienti trattati con polipillola e nel 5.5% in coloro che hanno ricevuto il placebo(HR=0.79, 95%CI 0.63-1.0). La mortalità per cause cardiache è stata del 2.9% nel gruppo che assumeva la polipillola e del 3,5% in quello placebo. L’aspirina ha ridotto l’incidenza di stroke e l’aggiunta di aspirina alla polipillola ha prodotto una maggiore riduzione degli eventi cardiovascolari rispetto al doppio placebo.

La polipillola, che aumenta la compliance alla terapia, rappresenta quindi una buona strategia terapeutica per pazienti con un rischio cardiovascolare intermedio. Ovviamente non è indicata nei pazienti intolleranti anche ad uno solo dei principi attivi contenuti.

 

New Engl J Med (IF=74.699) 384:216,2021. doi: 10.1056/NEJMoa2028220

ALIMENTI E NUTRIENTI CON EFFETTI SULLA PRESSIONE ARTERIOSA

A seguito dell’articolo di lunedì riportiamo oggi qualche dato in relazione agli effetti pressori di alcuni alimenti e nutrienti.

 

Barbabietola rossa
Fra gli alimenti ad azione antipertensiva grande attenzione è rivolta alle fonti naturali di nitrati (NO3−) quali precursori del monossido di azoto (NO), importante sostanza ad azione vasodilatatoria e quindi ipotensiva. Una volta ingeriti, i nitrati inorganici vengono metabolizzati alla forma bioattiva e successivamente immessi in circolo. Fra gli alimenti con elevate concentrazioni di nitrati inorganici vi è la barbabietola rossa, il cui consumo, già in acuto, è associato a riduzione dei livelli di pressione arteriosa in soggetti normotesi o affetti da ipertensione di primo grado. Dati derivati da una meta-analisi di 13 studi clinici controllati contro placebo, che hanno coinvolto 324 partecipanti, hanno mostrato come la supplementazione di barbabietola rossa fosse associata a una riduzione significativa di pressione arteriosa sistolica [−4.1 mmHg (95%CI −6.1 a −2.2)] e diastolica [-2 mmHg (95%CI -3.0 a -0.9)].

Ibisco
L’Hibiscus sabdarrifa, o Karkadé, è una pianta utilizzata ampiamente in Medioriente per la preparazione di tisane. È una fonte importante di flavonoidi e vitamina C ed è stata ampiamente studiata per il suo effetto antipertensivo e blandamente ipoglicemizzante. L’ibisco avrebbe anche un leggero effetto ipocolesterolemizzante, ma solo nei pazienti affetti da sindrome metabolica/insulino-resistenza. Una metanalisi di trials clinici controllati conclude che la somministrazione costante di Ibisco è associata a una riduzione di pressione arteriosa sistolica di 7.6 mmHg e diastolica di 3.5 mmHg.

Sali di Magnesio
Fra i nutrienti, il magnesio è uno di quelli che influenza maggiormente la pressione arteriosa, stimolando direttamente la sintesi di prostaciclina e NO, riducendo il tono e la reattività vascolare. Una metanalisi di 34 studi clinici controllati, che hanno coinvolto 2.028 soggetti, ha confermato l’effetto antipertensivo della supplementazione di magnesio con una riduzione significativa della pressione sistolica (2-3 mmHg) e diastolica (3-4 mmHg). Il problema principale del magnesio in quanto tale è la scarsa biodisponibilità, per cui sono stati sviluppati sali che ne migliorano l’assorbimento intestinale, limitando anche gli effetti osmotico-lassativi.

PRESSIONE NORMALE-ALTA: UN TARGET IDEALE PER L’APPROCCIO NUTRACEUTICO

Negli ultimi due decenni gli epidemiologi si sono concentrati sull’effetto di livelli pressori subottimali, non francamente patologici. Nelle Linee Guida della Società Europea di Cardiologia (ESC) e della Società Europea dell’Ipertensione (ESH) una pressione “Normale-Alta” è definita dal riscontro ripetuto di valori di pressione sistolica compresi fra 130 e 139 mmHg e/o di pressione diastolica compresi fra 85 e 89 mmHg. Questa condizione clinica interessa circa il 30% della popolazione generale ed è caratterizzata da un rischio cardiovascolare che sembra crescere in modo proporzionale rispetto ai valori ottimali di 120/80 mmHg.
Le Linee Guida dell’ESH definiscono i suggerimenti per gli interventi non farmacologici  sulla pressione normale-alta: ridurre l’assunzione di sale a <5 grammi/die; ridurre l’assunzione di alcool (specie nelle donne); aumentare il consumo di verdure, frutta fresca e secca, olio d’oliva, latticini a basso contenuto in grasso, riducendo l’apporto di carne; ottimizzare il peso corporeo e la circonferenza vita; aumentare l’esercizio aerobico regolare; annullare l’esposizione attiva o passiva al fumo di sigaretta.
La Società Italiana Ipertensione Arteriosa (SIIA) ha prodotto un ampio documento di consensus evidence-based sul razionale di impiego e l’evidenza clinica per l’utilizzo di numero elevato di nutrienti, nutraceutici e fitoterapici. Fra gli alimenti, l’evidenza più convincente si ha per barbabietola rossa, ibisco, succo di melograno, semi di sesamo e catechine (specie infuso di tè). Fra i nutrienti, i livelli pressori possono essere ridotti da magnesio, potassio (da usarsi con cautela nei pazienti con insufficienza renale avanzata e/o assumenti diuretici risparmiatori di potassio/antialdosteronici), e vitamina C. Fra i nutraceutici non-nutrienti, sono di interesse gli estratti di aglio invecchiato, la frazione flavonoica del biancospino, isoflavoni della soia, il resveratrolo, e la melatonina.
In ogni caso, i documenti promossi da SIIA ed ESH stressano l’importanza di non considerare mai l’approccio nutraceutico in sostituzione di quello farmacologico, quando questo sia indicato.

DIETA VEGETARIANA O VEGANA? AUMENTA IL RISCHIO DI FRATTURE OSSEE

Una alimentazione vegetariana o vegana aumenta il rischio di fratture ossee. È quanto emerge da uno studio condotto da ricercatori delle Università britanniche di Oxford e Bristol, che hanno analizzato i dati relativi all’alimentazione di un campione di oltre 54000 persone, raccolti negli anni dal 1993 al 2001. 29830 individui erano onnivori, 15499 vegetariani e 1892 vegani. Durante il follow-up, terminato nel 2010, sono state registrate 3941 fratture ossee a braccia (566), polsi (889), anche (945), gambe (366), caviglie (520), o altre sedi (467). È emerso che i vegetariani e i vegani avevano un rischio aumentato del 9% (HR 1.09; 95%CI 1.00-1.19) e del 43% (HR 1.43; 95%CI 1.20-1.70) di fratture ossee rispetto a chi seguiva un’alimentazione onnivora.

La causa, ipotizzano gli autori, sarebbe da ricercare nel ridotto apporto di proteine nobili e calcio.  Le proteine in grado di innescare la sintesi proteica sono, infatti, principalmente le proteine nobili di carne, pesce, uova e formaggi, fonte quest’ultimi anche di calcio.
Lo studio ha però un importante limite: gli autori infatti non hanno distinto tra fratture dovute a cadute accidentali e fratture spontanee. Un conto è una frattura dovuta con sicurezza a un deficit di minerali o a una salute ossea precaria; altra cosa sono le fratture provocate da un forte trauma.

BMC Med (IF=6.782) 18:353,2020.  doi: 10.1186/s12916-020-01815-3.

PRESSIONE SANGUIGNA. L’IPERTENSIONE NOTTURNA AUMENTA IL RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Le persone che soffrono di innalzamenti della pressione sanguigna durante la notte sono a maggior rischio di eventi cardiovascolari e insufficienza cardiaca. A questa conclusione è giunto uno studio della Jichi Medical University di Tochigi, in Giappone.
I ricercatori hanno esaminato i dati di 6.359 pazienti (68.6±11.7 anni, 48% maschi) con almeno un fattore di rischio per eventi cardiovascolari, ma nessun sintomo di malattia cardiovascolare, sottoposti a monitoraggio della pressione per 24 ore. Dopo un follow-up medio di 4,5 anni si sono verificati 309 eventi cardiovascolari, tra cui 119 ictus, 99 episodi di malattia coronarica e 88 casi di insufficienza cardiaca.
Ogni aumento di 20mmHg di pressione sistolica durante la notte era associato a un rischio maggiore di malattia cardiovascolare aterosclerotica e di insufficienza cardiaca. Una pressione notturna più elevata di quella diurna era associata a un aumento del rischio di malattie cardiovascolari (HR 1.48; 95%CI 1.05-2.08) e in particolare di insufficienza cardiaca (HR 2.45; 95%CI 1.34-4.48).
Durante il sonno, la posizione supina aumenta il ritorno venoso, con conseguente aumento del precarico cardiaco. Inoltre, l’innalzamento della pressione sistolica notturna agisce notevolmente sulla tensione della parete cardiaca, aumentando sia il precarico che il postcarico.

Circulation (IF=23.603) 142:1810,2020. doi: 10.1161/CIRCULATIONAHA.120.049730