Numerosi studi clinici osservazionali e di intervento hanno suggerito l’esistenza di un’associazione tra l’assunzione di alimenti a elevato contenuto di polifenoli, come frutti di bosco, uva, cacao e tè verde, e un miglioramento delle funzioni cognitive. Ciò nonostante, non tutti gli studi hanno dato risultati positivi in modo univoco, lasciando aperto il dibattito sul potenziale utilizzo dei polifenoli per il mantenimento della salute cognitiva. Per esempio, la dieta mediterranea, il cui apporto di polifenoli corrisponde a circa 1 g/die, tende a prevenire il deterioramento cognitivo. Invece, gli effetti neuroprotettivi degli isoflavoni della soia sembrano limitati, essendo influenzati da diversi fattori legati alle caratteristiche individuali, al tipo di trattamento e a fattori correlati alla pianta stessa. Le ragioni alla base di queste discrepanze si possono ritrovare nella diversa quantità e biodisponibilità dei composti utilizzati, come pure nella variabilità interindividuale della composizione e funzione del microbiota intestinale, che fa sì che l’assunzione degli stessi polifenoli si traduca in effetti diversi, a seconda delle caratteristiche di ciascun individuo. In sintesi, la mancanza di risultati convincenti degli studi clinici rende difficile trarre una conclusione solida sull’effetto preventivo dei polifenoli sulle funzioni cognitive e sulla neurodegenerazione. Per cercare di fare un po’ di chiarezza sull’argomento, in un prossimo post esporremo i risultati di una recente meta-analisi condotta da ricercatori emiliani.
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QUANDO LA QUALITÀ È PIÙ IMPORTANTE DELLA QUANTITÀ
Sapete bene che nell’uomo elevati livelli di colesterolo, in particolare quello trasportato dalle LDL, si associano all’insorgenza di eventi cardiovascolari. Eppure la natura a volte si smentisce.
Le ricercatrici del Centro hanno collaborato con colleghi del prestigioso Karolinska Institutet di Stoccolma nell’analisi dei lipidi plasmatici dell’orso bruno (Ursus arctos), scoprendo che i livelli di colesterolo e trigliceridi dell’orso sono circa il doppio di quelli dell’uomo. Eppure questo animale non sviluppa aterosclerosi in età adulta. Come è possibile? Per cercare di spiegare questa apparente discordanza, i ricercatori hanno valutato la composizione e le proprietà aterogene e ateroprotettive delle lipoproteine dell’orso, scoprendo che queste sono molto diverse da quelle dell’uomo. In particolare, le LDL ursine sono più grandi, contengono meno colesterolo e più trigliceridi di quelle umane; sono anche in grado di legarsi meno ai proteoglicani, che agganciano le LDL alla parete arteriosa, e quindi non si accumulano nelle arterie. Allo stesso modo, le HDL dell’orso sono in grado di promuovere un maggior efflusso di colesterolo dalle cellule, di fatto dimostrando maggiori capacità ateroprotettive rispetto a quelle umane.
Ancora una volta si dimostra che la “qualità” delle lipoproteine circolanti è talora più importante della loro concentrazione nel plasma. È pur sempre vero che elevati livelli di colesterolo LDL sono pericolosi per le nostre arterie e vanno quindi ridotti con qualsiasi mezzo.
J Lipid Res (IF=4.483) 2021 Mar 10;100065. doi: 10.1016/j.jlr.2021.100065
POLIFENOLI E MALATTIE CARDIOVASCOLARI. UNA META-ANALISI
Ricercatori emiliani hanno condotto una meta-analisi per cercare di fare chiarezza sugli effetti cardiovascolari dei polifenoli. Hanno analizzato i risultati di 34 studi clinici, in cui sono state somministrate dosi di polifenoli significativamente più elevate di quelle assunte per via alimentare (per es. >100 mg/die di quercetina e 80-132 mg/die di isoflavoni). È stata riscontrata una notevole eterogeneità tra gli studi analizzati per differenze di trattamento in termini di formulazione, dose, fonte e tipo di polifenoli utilizzati.
16 studi, per un totale di 1.190 soggetti (606 trattati con polifenoli e 584 con placebo), hanno valutato gli effetti sulla pressione arteriosa (PA). L’analisi complessiva ha mostrato una riduzione significativa della PA sistolica (differenza media −1.01 mmHg, 95%CI tra −2.04 e 0.02 mmHg, p=0.005) e della PA diastolica (differenza media −1.32 mmHg, 95%CI tra −2.37 e −0.27 mmHg, p=0,001) dopo somministrazione di polifenoli. 21 studi, per un totale di 1.933 soggetti (988 trattati con polifenoli e 945 con placebo) hanno valutato gli effetti sulla colesterolemia (HDL-C e LDL-C). La somministrazione di polifenoli ha ridotto significativamente i livelli di LDL-C (differenza media −4.39 mg/dL, 95%CI tra −7.66 e −1.11 mg/dL, p=0.009) e aumentato i livelli di HDL-C (differenza media 2.68 mg/dL, 95%CI 2.43-2.92 mg/dL, p<0.001). 8 studi, per un totale di 568 soggetti (289 trattati con polifenoli e 279 con placebo), hanno valutato gli effetti vascolari dei polifenoli, misurando la vasodilatazione flusso-mediata (FMD), un parametro di funzionalità endoteliale (vedi articoli precedenti), che è aumentata (differenza media 0.89%, 95%CI 0.40- 1.38%, p<0.001). In 9 studi, per un totale di 611 pazienti (303 trattati con polifenoli e 308 con placebo), è stata esaminata la hs-CRP, un classico parametro infiammatorio, che non è variata.
L’analisi complessiva ha rivelato un effetto positivo dei polifenoli sui parametri cardiovascolari considerati. Nonostante questi effetti siano significativi dal punto di vista statistico, le differenze evidenziate sono di modesta entità e talvolta di dubbio beneficio clinico.
Giorn Ital Arterioscler 11:5,2020
LE STATINE PROTEGGONO DALLA COVID-19?
In questa meta-analisi i ricercatori hanno analizzato i risultati di 4 studi (8990 pazienti) che avevano valutato gravità e mortalità per COVID-19 in pazienti in trattamento o meno con statine. Il rischio di sviluppare una malattia grave o di morire per COVID-19 è ridotto del 30% nei pazienti che assumevano una statina rispetto a quelli non in terapia statinica (HR=0.70; 95%CI 0.53-0.94).
Amer J Cardiol (IF=2.570) 134:153,2020. doi.org/10.1016/j.amjcard.2020.08.004
POLIFENOLI, MALATTIE CARDIOVASCOLARI E NEURODEGENERATIVE. 2.
Ricercatori dell’Università di Bonn hanno condotto un trial crossover in doppio cieco in cui 70 soggetti sovrappeso/obesi con pre-ipertensione o ipertensione di stadio 1 hanno ricevuto 162 mg/die di quercetina (10-15 volte il consumo giornaliero medio) derivante da estratto di buccia di cipolla o placebo per un periodo di 6 settimane, intervallato da 6 settimane di washout. Rispetto agli studi che l’hanno preceduto, questo si distingue per aver utilizzato il monitoraggio della pressione arteriosa nelle 24 ore, oggi considerato gold-standard nella valutazione degli effetti antiipertensivi di nutraceutici e farmaci. È stata riscontrata una notevole variabilità interindividuale nella concentrazione plasmatica di quercetina (figura; in nero i pazienti che hanno assunto quercetina), verosimilmente dovuta a differenze nell’assorbimento intestinale.
Nell’intero gruppo di soggetti la quercetina non ha prodotto variazioni significative nei valori pressori delle 24 ore e misurati in ambulatorio. Nel sottogruppo di soggetti ipertesi, la quercetina ha ridotto significativamente la pressione sistolica (SBP) delle 24 ore di 3.6 mmHg (p=0.022) rispetto al placebo. Non sono state riscontrate variazioni significative del peso corporeo e dei parametri lipidici e infiammatori.
Br J Nutr (IF=3.334) 114:1263, 2015
POLIFENOLI, MALATTIE CARDIOVASCOLARI E NEURODEGENERATIVE. 1.
Negli ultimi anni è aumentato esponenzialmente l’interesse per gli effetti dei polifenoli sulla salute umana. Si pensi che dagli anni ’80 sono stati pubblicati più di 80.000 studi che riportano molteplici effetti dei polifenoli su un’ampia gamma di patologie, tra cui cancro, sindrome metabolica, diabete e steatosi epatica non alcolica. Tuttavia, come spesso accade quando si parla di “nutraceutici”, gli studi clinici finora condotti soffrono di varie limitazioni, la principale essendo l’inaccuratezza delle dosi di polifenoli utilizzate, che eccedono, anche di molto, le quantità che si possono riscontrare negli alimenti.
Gli studi in vitro sono invece inficiati dalla scarsità di informazioni sulla farmacocinetica, in particolare l’assorbimento e il metabolismo di queste sostanze. I polifenoli si caratterizzano infatti per una biodisponibilità molto bassa, legata al fatto che sono presenti negli alimenti come composti glicosidati, con uno scarso assorbimento a livello intestinale; una volta nel colon, l’idrolisi enzimatica dei glicosidi promossa dal microbiota intestinale libera l’aglicone, che a sua volta viene assorbito o va incontro a ulteriore metabolismo. La maggior parte degli studi che indagano il meccanismo d’azione dei polifenoli condotti in vitro utilizza i composti presenti negli alimenti e non i metaboliti che effettivamente raggiungono la cellula target. Di conseguenza, i risultati di questo genere di studi hanno una scarsa rilevanza fisiologica.
Nei prossimi post analizzeremo in modo critico le principali evidenze cliniche dell’attività dei polifenoli sulle patologie cardiovascolari e neurodegenerative. In particolare, concentreremo la nostra attenzione sugli studi effettuati su soggetti che assumevano a scopo preventivo integratori alimentari contenenti polifenoli, escludendo invece gli studi in cui tali composti venivano assunti soltanto attraverso la dieta.
LA DIETA DELL’OROLOGIO PER PREVENIRE IL DIABETE?
La “dieta dell’orologio”, in cui non si contano le calorie ingerite, ma si tiene conto degli orari dei pasti, si è dimostrata in passato efficace nell’indurre una perdita di peso. In questa dieta, che è ragionevolmente semplice, la regola è di non mangiare per 14 ore al giorno: significa che se la colazione è consumata alle 8 del mattino, la cena deve avvenire non più tardi delle 18.
Lo studio pilota condotto dai ricercatori del Salk Institute di La Jolla in California ha reclutato 19 pazienti con sindrome metabolica (13 maschi e 6 femmine, 59±11 anni, la maggior parte trattati con statine e farmaci antiipertensivi), che hanno seguito la “dieta dell’orologio” per tre mesi.
La dieta ha prodotto una modesta perdita di peso (-3.3 kg, -3%), in particolare del grasso addominale, e una riduzione della pressione sistolica (-5.1 mmHg, -4%) e diastolica (-6.5 mmHg, -8%), del colesterolo-LDL (-11.9 mg/dl, -11%), della glicemia (-5.7 mg/dl, -5%). Questi cambiamenti si sono verificati senza alcun cambiamento nell’attività fisica. Quasi i due terzi dei pazienti hanno riferito di aver dormito meglio e di aver avuto meno fame prima di coricarsi.
Gli autori stanno allestendo un nuovo trial clinico, che coinvolgerà almeno 100 pazienti, metà dei quali seguirà la “dieta dell’orologio”, per confermare questo dato preliminare. Per il momento la “dieta dell’orologio” non è ancora raccomandata per i pazienti con sindrome metabolica.
Cell Metab (IF=21.567) 31:92,2020
L’IMPORTANZA DEI TRIGLICERIDI NEL RISCHIO CARDIOVASCOLARE NELLA POPOLAZIONE ITALIANA
La storia dei rapporti tra ipertrigliceridemia (HTG) e rischio cardiovascolare (CV) è sicuramente controversa. Se diversi studi epidemiologici hanno associato l’HTG a un aumentato rischio CV, da più parti è stato sollevato qualche dubbio sul contributo causale e indipendente dell’HTG al rischio. Inoltre, gli studi interventistici volti a ridurre la TG hanno mostrato effetti incoerenti sulle complicanze ischemiche. Negli ultimi 10 anni gli studi genetici basati sulla tecnica della randomizzazione mendeliana hanno portato nuova attenzione sull’associazione causale diretta tra TG e rischio CV, e si è instaurata nella comunità medico-scientifica una crescente consapevolezza che l’HTG può aumentare il profilo di rischio di un paziente. Di conseguenza, le Linee Guida di prevenzione cardiovascolare consigliano di affrontare l’HTG come parte della strategia per il controllo del rischio CV, specie nei pazienti a rischio elevato adeguatamente trattati con statine. Al contrario, il ruolo dell’HTG nell’influenzare gli esiti cardiovascolari negli individui a rischio basso-moderato è meno consolidato.
È in questo quadro che si inseriscono i risultati dello studio TG REAL, condotto allo scopo di valutare se la presenza di elevati livelli di TG influenzano il rischio di eventi CV o di mortalità per tutte le cause in una popolazione a basso rischio CV seguita in un contesto di pratica clinica convenzionale. Si tratta di uno studio italiano, osservazionale di tipo retrospettivo-prospettivo, che ha reclutato circa 158.000 soggetti privi di malattia vascolare, non in terapia con farmaci in grado di influire sui lipidi plasmatici e per i quali erano disponibili più misurazioni della TG. Sono stati definiti normotrigliceridemici coloro che mostrano ripetutamente valori di TG inferiori a 150 mg/dl. Sono stati poi individuati due gruppi di soggetti con HTG, quelli con HTG moderata (TG di 150-500 mg/dl) e quelli con HTG severa (TG >500 mg/dl). Circa il 10% dei soggetti arruolati è risultato affetto da HTG e, di questi, circa l’1% mostrava un’HTG severa. Volendo proiettare questi dati alla popolazione generale italiana adulta (>18 anni), si può stimare che circa 4.9 milioni soffrono di HTG di una qualche gravità. Nei soggetti con HTG tendevano a prevalere i maschi rispetto alle donne e soggetti che assumevano farmaci antidiabetici o antiipertensivi. I livelli medi della TG nei diversi gruppi sono riportati nella Figura.
Durante la fase prospettica dello studio, che ha avuto una durata massima di circa 5 anni (valore mediano circa 2 anni), nuovi eventi CV sono stati registrati nell’1.6% dei soggetti arruolati; il 3.9% di loro è deceduto per qualsiasi causa. L’incidenza di nuovi eventi CV è stata del 7.2 ogni 1.000 persone-anno, quella di morte per tutte le cause del 17.1 ogni 1.000 persone-anno. I soggetti con HTG moderata avevano un rischio di eventi CV circa doppio rispetto ai normotrigliceridemici, e tale rischio cresceva a 3.8 volte nei soggetti con HTG severa. Allo stesso modo, quando è stato considerato il rischio di morte, questo è risultato superiore di 1.49 volte nei soggetti con HTG moderata e di 3.08 volte in quelli con HTG severa. Lo studio TG REAL, condotto in un numero molto ampio di soggetti, dimostra pertanto che l’HTG, anche nell’ambito di valori moderati (150–500 mg/dl), è un potente predittore di rischio di malattie CV e di mortalità. La principale implicazione clinica dei risultati è che essi supportano ulteriormente il concetto che la misura della TG deve essere considerata una parte importante della valutazione clinica di routine per tutti i pazienti (compresi quelli stimati essere a basso rischio) per gestire in modo efficace la prevenzione cardiovascolare.
INCLISIRAN SI AGGIUNGE AL REPERTORIO FARMACOLOGICO PER IL TRATTAMENTO DELL’IPERCOLESTEROLEMIA
La Commissione Europea (CE) ha recentemente approvato Leqvio® (Inclisiran) per il trattamento dell’ipercolesterolemia e della dislipidemia mista, recependo il parere positivo dell’EMA dello scorso ottobre. L’approvazione si basa sui risultati del programma di sviluppo clinico ORION, in cui Inclisiran ha prodotto una riduzione efficace e sostenuta del colesterolo-LDL (C-LDL), fino al 52% nei pazienti con livelli elevati di C-LDL, nonostante la massima dose tollerata di statina. Il regime del farmaco, con due dosi all’anno, una iniziale e una a 3 mesi, dovrebbe favorire l’aderenza a lungo termine alla terapia.
Inclisiran è un piccolo RNA interferente (siRNA) che inibisce la sintesi di PCSK9 (www.centrogrossipaoletti.org), approvato per il trattamento di adulti con ipercolesterolemia primaria (eterozigote familiare e non familiare) o dislipidemia mista, in aggiunta alla dieta:
– in combinazione con una statina, o una statina e altre terapie ipolipemizzanti, in pazienti che non sono in grado di raggiungere gli obiettivi di C-LDL con la dose massima tollerata di statina, o
– da solo o in combinazione con altre terapie ipolipemizzanti in pazienti che sono intolleranti alle statine o per i quali una statina è controindicata.
EVOLOCUMAB SOMMINISTRATO IN OSPEDALE AI PAZIENTI CON INFARTO MIOCARDICO RIDUCE IL COLESTEROLO LDL GIÀ DAL 1° GIORNO PORTANDO A TARGET OLTRE L’80% DEI PAZIENTI ALLA DIMISSIONE
Lo studio EVACS (Evolocumab in Acute Coronary Syndrome) ha arruolato 57 pazienti ricoverati per infarto miocardico, assegnati in modo casuale in un rapporto 1:1 a una singola dose di Evolocumab 420 mg o placebo entro 24 ore dall’ammissione. Tutti i pazienti hanno ricevuto statine ad alta intensità, salvo controindicazioni. L’età media era di 55 anni, il 42% erano donne, il 60% era in precedente terapia con. I livelli medi di colesterolo LDL (C-LDL) all’ammissione erano 91.5±35 mg/dl nel gruppo Evolocumab e 89.6±41 mg/dl nel gruppo placebo.
Evolocumab ha ridotto il C-LDL in media di 28.4±4 mg/dl. Il C-LDL è diminuito rispetto al basale dal primo giorno nel gruppo Evolocumab (70.4±27 mg/dl) ed era inferiore a quello del gruppo placebo già dal terzo giorno. La differenza tra i 2 gruppi è rimasta costantemente significativa durante il ricovero e al follow-up a 30 giorni. La percentuale di pazienti nel gruppo Evolocumab, i cui livelli di C-LDL alla dimissione erano pari o inferiori ai target delle Linee Guida AHA/ACC e ESC, era dell’80.8% e 65.4% rispettivamente, più alta rispetto a quella nel gruppo placebo, 38.1% e 23.8%.
L’elevato rischio di nuovi eventi cardiovascolari precoci nel post infarto giustifica un trattamento aggressivo nella riduzione del C–LDL. Evolocumab somministrato già in ospedale nel paziente infartuato è efficace nel ridurre il C-LDL e consente alla maggior parte dei pazienti di raggiungere valori target di C-LDL fin dai primi giorni dall’evento.
Circulation (IF=23.603) 142:419,2020