GLI OMEGA 3 NON SONO SUPERIORI AL PLACEBO NEL RIDURRE GLI EVENTI CARDIOVASCOLARI NEL PAZIENTE AD ALTO RISCHIO CARDIOVASCOLARE

I risultati dello STRENGTH trial sono stati presentati al congresso dell’American Heart Association 2020, svoltosi quest’anno in modalità virtuale, per le ben note ragioni.
Lo scopo dello studio è stato di valutare l’efficacia della combinazione EPA+DHA (omega-3) verso placebo in pazienti con dislipidemia e alto rischio cardiovascolare. Si tratta di uno studio randomizzato, in doppio cieco, in cui sono stati arruolati 6.539 pazienti nel gruppo omega-3 e 6.539 nel gruppo placebo. La mediana del follow-up è stata di 42 mesi. L’età media dei pazienti era di 63 anni. Il 35% dei pazienti era di sesso femminile e il 70% aveva un diabete mellito. Il trial è stato interrotto precocemente perché un’analisi ad interim programmata ha rivelato una bassa probabilità di beneficio nel gruppo omega-3. L’outcome primario composito di morte cardiovascolare, infarto del miocardio, stroke, rivascolarizzazione percutanea, o ospedalizzazione per angina instabile si è verificato nel 12,3% dei pazienti del gruppo omega-3 e nel 12,2% dei pazienti del gruppo placebo (p=0,84). Per quanto riguarda gli outcomes secondari si è evidenziato: fibrillazione atriale nel 2,2% dei pazienti nel gruppo omega-3 e 1,3% nel gruppo placebo (p<0,001); eventi avversi gastrointestinali nel 24,7% (omega-3) e 14,7% (placebo); sanguinamenti maggiori nel 0,8% (omega-3) e 0,7% (placebo).
Chi di voi è interessato agli effetti degli acidi grassi omega-3 sul rischio cardiovascolare noterà che i risultati dello STRENGHT sono diversi da quelli del REDUCE-IT e del JELIS, che invece hanno dimostrato un beneficio degli omega-3 sugli eventi cardiovascolari. La differenza è probabilmente imputabile alla diversa formulazione di omega-3 utilizzata nei tre studi. Il REDUCE-IT e il JALIS hanno utilizzato EPA puri, mentre lo STRENGTH ha utilizzato una combinazione di EPA e DHA. Emergerebbe quindi un chiaro beneficio dell’EPA nei confronti della miscela.

LOMITAPIDE PER LA TERAPIA DELL’IPERCOLESTEROLEMIA FAMILIARE OMOZIGOTE

La Lomitapide (Lojuxta®) è il primo inibitore della proteina di trasferimento microsomiale dei trigliceridi (MTP) approvato come farmaco innovativo per la terapia di pazienti con ipercolesterolemia familiare omozigote (HoFH). Agisce legandosi direttamente e selettivamente all’MTP riducendo così l’assemblaggio e la secrezione delle lipoproteine contenenti apo-B sia nel fegato che nell’intestino.

L’efficacia e la sicurezza della Lomitapide sono stati valutati in diversi studi clinici, che hanno dimostrato una riduzione media dei livelli plasmatici di colesterolo-LDL superiore al 50%. La Lomitapide presenta generalmente una buona tollerabilità; gli eventi avversi più comuni sono, come atteso sulla base del meccanismo d’azione, a livello gastrointestinale ed epatico.
Per valutare la sicurezza e l’efficacia a lungo termine della Lomitapide nella pratica clinica  “real life”, è stato istituito il registro europeo LOWER, che raccoglie dati sui pazienti con HoFH europei trattati con Lomitapide. L’analisi dei dati relativi ai primi 5 anni (dall’istituzione del registro al febbraio 2019) conferma l’efficacia di Lomitapide utilizzando dosaggi più bassi rispetto al trial di Fase III (dose mediana: 10 mg vs 40 mg). Inoltre non sono stati segnalati eventi avversi inattesi e l’incidenza di eventi avversi seri e di ipertransaminasemia è stata più bassa di quella registrata nei trials di Fase III.

J Clin Lipidol (IF=3.860) 2020 Aug 18. doi: 10.1016/j.jacl.2020.08.006

INSULINA ICODEC IN MONOSOMMINISTRAZIONE SETTIMANALE NEL DIABETE DI TIPO 2

Sono stati divulgati al meeting annuale dell’Associazione Europea per lo Studio del Diabete (EASD) e pubblicati sul New England Journal of Medicine i dati di fase 2 relativi a insulina Icodec, analogo sperimentale dell’insulina in monosomministrazione settimanale. L’insulina Icodec si lega all’albumina per creare una forma di deposito circolante con un’emivita di 196 ore (8.1 giorni); quindi l’iniezione una volta alla settimana è progettata per coprire il fabbisogno basale di insulina di un individuo per un’intera settimana.
Lo studio in questione, della durata di 26 settimane, ha randomizzato in doppio cieco 247 pazienti con diabete mellito di tipo 2, che non avevano precedentemente ricevuto trattamento con insulina e il cui diabete non era adeguatamente controllato (livello di emoglobina glicata: da 7.0 a 9.5% nonostante metformina con o senza un inibitore della DPP 4). Ad essi sono stati somministrati insulina Icodec settimanale più placebo giornaliero (n=125) o insulina Glargina 100 UI giornaliera più placebo settimanale (n = 122). L’endpoint primario era rappresentato dalla variazione del livello di emoglobina glicata dal basale alla settimana 26. Sono stati valutati anche gli endpoint di sicurezza, inclusi gli episodi di ipoglicemia e gli eventi avversi correlati alla terapia insulininica.
Le caratteristiche dei partecipanti erano simili nei due gruppi:  il livello basale medio di emoglobina glicata era 8.09% nel gruppo Icodec e 7.96% nel gruppo Glargina. L’emoglobina glicata si è ridotta dell’1.33% nel gruppo Icodec e dell’1.15% nel gruppo Glargine, scendendo rispettivamente al 6.7% e al 6.9% (P=0.08 per la differenza tra gruppi rispetto al basale). I livelli di glucosio plasmatico a digiuno sono diminuiti di 58 mg/dL con Icodec e di 54 mg/dL con Glargina (P=0.34). L’ipoglicemia lieve era più comune con Icodec che con Glargina (509 vs 211 eventi per 100 pazienti-anno), ma l’ipoglicemia moderata/clinicamente significativa (52.5 vs 46 per 100 pazienti-anno) e l’ipoglicemia grave (1.4 vs 0 per 100 pazienti-anno) non differivano in modo significativo tra i due gruppi. Non vi era alcuna differenza tra i gruppi in termini di altri eventi avversi, inclusa l’ipersensibilità e le reazioni al sito di iniezione, con la maggior parte degli eventi avversi comunque di lieve entità.
I risultati mostrati indicano che il trattamento monosettimanale con insulina Icodec ha un’efficacia ipoglicemizzante e un profilo di sicurezza simili a quelli dell’insulina Glargina somministrata giornalmente. La riduzione della frequenza delle iniezioni di insulina basale con tale trattamento potrebbe facilitare l’accettazione e l’aderenza terapeutica.

New Engl J Med (IF=74.699) September 22, 2020 DOI:10.1056/NEJMoa2022474

CANNABIS E SISTEMA CARDIOVASCOLARE

La cannabis è stata da sempre utilizzata per le proprietà medicinali dei suoi composti, in particolare del delta-9-tetraidrocannabinolo (THC) e del cannabidiolo (CBD). Le piante di Cannabis sono classificate a seconda della loro percentuale di THC e CBD: il tipo I ha un alto rapporto THC/CBD (>>1); il tipo II ha un rapporto THC/CBD prossimo ad 1 e il terzo tipo un rapporto <0,3. Per quanto riguarda invece le formulazioni in commercio, per scopo medico o uso ricreazionale, possono contenere solo THC, CBD oppure la combinazione dei due. Tra i benefici dell’utilizzo della Cannabis sono noti:
– sollievo dal dolore neuropatico, da fibromialgia e nel paziente oncologico;
– miglioramento della sindrome da anoressia/cachessia in pazienti oncologici o nei malati di HIV;
– effetto antiemetico;
– effetto antispastico nella sclerosi multipla;
– riduzione della frequenza degli attacchi epilettici.
La cannabis ha inoltre molteplici effetti sul sistema cardiovascolare. Il THC stimola il sistema nervoso simpatico e inibisce il parasimpatico, aumenta la frequenza cardiaca, la domanda di ossigeno miocardico, lo stress ossidativo, l’attivazione e la disfunzione piastrinica. Invece il CBD può ridurre l’infiammazione e l’iperpermeabilità vascolare nei modelli diabetici, riduce la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa. Ciò che è di maggiore interesse è sapere se l’uso continuativo di cannabis può essere associato allo sviluppo di eventi cardiovascolari come infarto del miocardio o aritmie, o abbia un impatto sul rischio cardiovascolare. Purtroppo, non esistono molti dati in letteratura. Lo studio CARDIA ha incluso adulti dai 18 ai 30 anni di età che sono stati seguiti per circa 25 anni e l’84% di essi aveva una storia di uso di cannabis. Questo studio non ha dimostrato un’associazione significativa tra uso cumulativo nel tempo di cannabis e patologie cardiovascolari. Sono però necessari ulteriori studi controllati per meglio comprendere gli eventuali danni e benefici che la cannabis e i suoi principi attivi possono determinare a carico dell’apparato cardiovascolare.

Circulation (IF=23.603) 142:e131,2020