IL CROQUE MONSIEUR

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Nel 1910 il “croque monsieur” compare per la prima volta nel menu di un bistrot parigino. Citato anche nell’opera di Proust, si è poi diffuso rapidamente in tutta la Francia. La leggenda attribuisce la sua nascita al caso, quando alcuni operai appoggiarono il loro panino su una stufa per scaldarlo, fondendo così il formaggio interno e creando una croccante crosticina. L’autentica ricetta del croque monsieur consiste in una fetta di pane spalmata con besciamella ed emmenthal grattugiato, su cui si mette una fetta di prosciutto. Si chiude il panino con un’altra fetta di pane spalmata di senape, besciamella ed emmenthal grattugiato, a questo punto si inforna fino e quando il formaggio è gratinato. Esiste anche la variante femminile chiamata “croque madame”, che prevede l’aggiunta di un uovo all’occhio di bue. È certamente un panino gourmet e ogni regione francese ne ha inventata una variante: “croque provençal” con il pomodoro, “croque auvergnat” con formaggio blu d’Auvergne,” croque tartiflette” con patate e formaggio Reblochon.

ICTUS. PER CHI CONTINUA A FUMARE, TRIPLICA IL RISCHIO DI RECIDIVA

Il fumatore che ha avuto un ictus, se non smette o almeno riduce il numero di sigarette, ha molte probabilità di essere vittima di un secondo ictus. Su questo aspetto ha fatto luce uno studio condotto dalla Nanjing Medical University di Jiangsu, che ha preso in considerazione 3.609 pazienti sopravvissuti a un ictus.
Di questi, 1.475, pari al 48%, erano fumatori, mentre il 9% erano ex fumatori. Tra coloro che fumava al momento dell’ictus, 908 persone – pari al 62% – sono riuscite a smettere pochi mesi dopo. Tutti quelli che avevano smesso dopo l’ictus presentavano il 29% in meno di probabilità di averne un secondo rispetto a chi aveva deciso di continuare a fumare.
Rispetto ai non fumatori, coloro che invece continuavano a fumare fino a 20 sigarette al giorno presentavano il 68% in più di probabilità di avere un altro ictus e il rischio si triplicava con 40 sigarette al giorno.

J Am Heart Assoc (IF=4.45) 8:e011696,2019

QUANTO SALE NEGLI ALIMENTI?

Si può mangiare un po’ più ‘salato’ di quanto consiglia attualmente l’Organizzazione Mondiale della Sanità, senza esagerare, e bilanciando con un’adeguata assunzione di potassio. Lo stabilisce una ricerca condotta dal gruppo di ricerca PURE (Prospective Urban Rural Epidemiological), coordinato da Salim Yusuf, uno dei trialisti più famosi del mondo, che ha analizzato l’escrezione urinaria di sodio e potassio (utilizzata come surrogato dell’assunzione alimentare), correlandola agli eventi cardiovascolari e alla mortalità, in una popolazione di 103.570 adulti appartenenti a 18 diverse nazioni. L’analisi ha consentito di suddividere i partecipanti in sei categorie, in base all’escrezione di sodio e potassio combinate: escrezione di sodio bassa (<3 gr/die), moderata (3-5 g/die) e alta (> 5 g/die), con un’escrezione di potassio maggiore, uguale o inferiore a 2.1 g/die.
L’escrezione urinaria media di sodio e potassio è risultata rispettivamente di 4.93 g/die e di 2.12 g/die. Un’aumentata escrezione urinaria di sodio è risultata correlata positivamente con un’aumentata escrezione urinaria di potassio. Dopo un follow-up di 8.2 anni, il 6.1% (7.884) dei partecipanti è deceduto o ha subito un evento cardiovascolare maggiore.
Da questa complessa analisi emerge una relazione a curva J tra escrezione urinaria di sodio ed eventi cardiovascolari/mortalità, mentre si è evidenziata una relazione inversa tra l’escrezione di potassio ed eventi cardiovascolari/mortalità. Analizzando le diverse categorie definite dall’escrezione congiunta di sodio e potassio, emerge che quella associata al minor rischio di eventi cardiovascolari/mortalità, caratterizzata da escrezione moderata di sodio (3-5 g/die) ed elevata di potassio, è presente nel 21.9% della coorte esaminata. Rispetto a questa categoria a basso rischio, le categorie a maggior rischio di eventi cardiovascolari/mortalità sono quelle con bassa escrezione di sodio/bassa escrezione di potassio (+ 23%) e con alta escrezione di sodio/bassa escrezione di potassio (+ 21%). Il concetto generale è che una maggior escrezione urinaria di potassio attenuerebbe l’aumentato rischio cardiovascolare associato a un’elevata escrezione di sodio.
Secondo gli autori questi risultati suggeriscono che la ricetta vincente per la salute cardiovascolare e per ridurre il rischio di mortalità sia rappresentata da un’assunzione di sodio moderata (3-5 g/die*), associata a un elevato apporto alimentare di potassio. Le attuali raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono molto restrittive, poiché prevedono <2.0 grammi al giorno di sodio (l’assunzione media nella vita reale è di circa 4 gr/die) e 3.5 g al giorno di potassio (l’assunzione media nella vita reale è di circa 2 gr/die).
*1 grammo di sale da cucina contiene circa 0.4 grammi di sodio; quindi 1 grammo di sodio equivale a 2.5 grammi di sale da cucina.

Brit Med J (IF=23.562) 364:I772,2019

L’AGLIO: LA RICETTA

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

L’aglio è presente in tante ricette: la semplice bruschetta o la pasta “aglio, olio e peperoncino” fanno parte da tempo della nostra quotidianità. Molte preparazioni regionali prevedono come ingrediente l’aglio, per lo più usato come aroma per insaporire le pietanze. Una ricetta particolare che travalica i nostri confini è la zuppa di aglio alla castigliana (“sopa de ajo”). Nata nelle taverne di Madrid, dove veniva originariamente servita agli operai dopo il lavoro, ora rimane una zuppa legata alla Settimana Santa. Gli ingredienti sono: 6 spicchi di aglio, 8 fette di pane raffermo, 500 ml di brodo preferibilmente di carne, 2 cucchiai di paprica affumicata (pimentón de la Vera), 4 uova, sale e olio extravergine di oliva. Sbucciare l’aglio e tagliarlo a fettine sottili, quindi in una casseruola mettere l’olio e l’aglio e far soffriggere. Unire il pane tagliato a dadini e far tostare fino a quando è dorato. Salare, unire la paprika e versare il brodo lasciando cuocere per almeno 10 minuti. Unire le uova lasciandole cuocere in superficie; servire la zuppa calda.

Per porzione. Kcal 386. Proteine 16.35 g. Lipidi 17.97 g (saturi 3.46 g, monoinsaturi 8.45 g, polinsaturi 1.00 g). Carboidrati 49.34 g. Fibra 3.18 g.

ESAMI PER IL CUORE IN FARMACIA, PER PREVENIRE E MONITORARE LE MALATTIE CARDIOVASCOLARI

La farmacia come punto d’accesso privilegiato alla sanità non è una novità, ma in futuro l’elenco dei servizi potrebbe allungarsi: grazie alla telemedicina, ogni farmacia potrebbe diventare infatti un baluardo per la salute del cuore. Lo ha dimostrato un progetto dell’università di Brescia in collaborazione con la Società Italiana di Telemedicina, presentato all’ultimo congresso della Società Italiana di Cardiologia.
Il progetto, che ha coinvolto Health Telematic Network, l’unità di Cardiologia degli Spedali Civili di Brescia e Federfarma, l’Associazione Nazionale dei Farmacisti, ha previsto di installare in 3.400 farmacie di tutta Italia una rete telematica collegata a una piattaforma di telemedicina, servita 24 ore al giorno da cardiologi disponibili per una consulenza specialistica. Le farmacie hanno eseguito quasi 110mila elettrocardiogrammi come esame di screening in soggetti sani, pazienti con fattori di rischio cardiovascolare o con passati infarti e ictus. Le misurazioni della pressione sono state oltre 34mila, in ipertesi di cui si voleva valutare la risposta alla terapia o in persone con valori discordanti. Oltre 28mila, infine, sono stati gli Holter elettrocardiografici in soggetti in cui si sospettavano aritmie. I dati sono stati valutati dai cardiologi che hanno riscontrato alterazioni nel 7.8 per cento degli elettrocardiogrammi e nel 36.6 per cento delle misurazioni pressorie; il 24.9 per cento degli Holter ha evidenziato aritmie e nel 4.5 per cento dei casi, ovvero 1262 persone, si trattava di aritmie che potevano minacciare la vita. In caso di anomalie il soggetto veniva immediatamente indirizzato dal medico di famiglia o dal cardiologo; le persone in pericolo di vita sono state inviate al più vicino Pronto Soccorso.
Il progetto ha anche previsto un intervento specifico per lo screening della fibrillazione atriale, una fra le aritmie più diffuse e più pericolose perché aumenta il pericolo di ictus, insufficienza cardiaca e morte cardiovascolare. Lo screening per la fibrillazione atriale è raccomandato nella popolazione a elevato rischio, ma spesso non viene applicato per l’assenza di prescrizioni mediche o lunghi tempi di attesa. Il progetto di telecardiologia ha perciò cercato di verificare l’efficacia di un monitoraggio Holter elettrocardiografico attraverso una rete di farmacie. L’Holter è stato eseguito in pazienti con episodi di palpitazione, sincope o pre-sincope, oppure con una storia di fibrillazione atriale, raccogliendo anche informazioni sulla durata degli eventuali episodi di fibrillazione, la frequenza cardiaca media e l’assunzione di terapia anticoagulante. In oltre 11mila monitoraggi, il 7 per cento dei pazienti (791 persone) ha evidenziato una fibrillazione atriale parossistica o persistente, con una durata degli episodi superiore ai sei minuti nel 14 per cento dei casi e una frequenza cardiaca superiore ai 90 battiti al minuto nel 17 per cento. Il 28 per cento non sapeva di avere una fibrillazione atriale: nessuno di questi assumeva una terapia anticoagulante, seguita tuttavia solo dal 18 per cento di chi già sapeva di soffrire di questa aritmia. Questi dati confermano che un’unica piattaforma di telemedicina collegata alle farmacie del territorio nazionale può favorire una diagnosi precoce delle patologie cardiovascolari e anche un tempestivo inizio della terapia più adeguata, migliorando l’appropriatezza dell’accesso al Pronto Soccorso con un probabile impatto positivo sia in termini di assistenza sanitaria sia di costi.

IPERTENSIONE E DECADIMENTO COGNITIVO. UNA RELAZIONE CHE SI MODIFICA NEL TEMPO?

L’ipertensione arteriosa in età adulta è senza dubbio un fattore di rischio per lo sviluppo di decadimento cognitivo in età avanzata. Questa affermazione vale sia per la demenza vascolare che per la demenza di Alzheimer. I dati più importanti relativi a un’associazione tra ipertensione e decadimento cognitivo provengono dagli studi longitudinali. Un primo risultato di questo tipo è stato ottenuto nel 1993 sui dati della coorte di Framingham, relativi a soggetti di età compresa tra i 55 e gli 88 anni, arruolati tra il 1956 e il 1964, quando la gran parte dei soggetti affetti da ipertensione arteriosa non era sottoposta a trattamento. In tale studio si è osservato come livelli elevati di pressione arteriosa, in particolare se mantenuti negli anni, si associassero a una peggiore performance cognitiva a 15 anni dall’arruolamento. Di notevole importanza è la conferma fornita in questo senso da uno studio condotto in Svezia, dove è stata analizzata la relazione tra valori di pressione arteriosa e demenza in una popolazione di soggetti anziani (70 anni di media) senza decadimento cognitivo. Mediante osservazioni a intervalli regolari, per un periodo complessivo di 15 anni, gli autori hanno potuto dimostrare che valori basali elevati di pressione arteriosa sistolica e diastolica si associavano a un rischio significativo di sviluppare demenza, sia di tipo vascolare che Alzheimer, a 79-85 anni.

Al momento abbiamo la relativa certezza che il trattamento dell’ipertensione arteriosa nell’adulto sia in grado di ridurre l’incidenza di demenza. Rimangono però numerosi quesiti da risolvere, come sottolineato nelle ultime linee guida ESH/ESC per il trattamento dell’ipertensione (2018). Il trattamento anti-ipertensivo nell’anziano riduce la demenza? Un trattamento aggressivo dell’ipertensione è più efficace nel ridurre il rischio di demenza? Come intervenire quando il decadimento cognitivo è iniziato? Nel paziente con decadimento cognitivo moderato-severo, ha senso trattare l’ipertensione arteriosa come nel soggetto cognitivamente integro? Qual è il rischio di ipotensione nel soggetto con decadimento cognitivo? Quando e se occorre sospendere la terapia?

Nel recente studio SPRINT-MIND, che aveva l’ambizioso obiettivo di dimostrare che un trattamento aggressivo dell’ipertensione arteriosa potesse ridurre l’incidenza di decadimento cognitivo, i risultati ottenuti in soggetti relativamente integri da un punto di vista fisico e cognitivo non raggiungono la significatività statistica ma indicano un possibile beneficio nel gruppo di intervento. La situazione si ribalta quando si analizzano i dati nei pazienti che hanno già un decadimento cognitivo e nei quali una riduzione eccessiva dei valori pressori peggiora il declino cognitivo. La relazione tra pressione e decadimento cognitivo è quindi piuttosto complessa. Inoltre, la relazione tra pressione arteriosa e declino cognitivo si va affievolendo con il passare degli anni: è infatti nettamente superiore a 50 anni e poi si riduce nelle decadi successive.

Il trattamento dell’ipertensione arteriosa in età adulta produce sicuramente un effetto protettivo nei confronti del decadimento cognitivo. Quando il paziente diviene molto anziano, soprattutto se presenta iniziale decadimento cognitivo o demenza conclamata, la situazione diviene molto più complessa e di difficile gestione. In questi pazienti, una accurata misurazione domiciliare della pressione arteriosa diviene di fondamentale importanza per evitare i rischi di sovra- e sotto-trattamento.

JAMA (IF=47.661) 321:553,2019

SIGARETTA ELETTRONICA O TERAPIA SOSTITUTIVA PER SMETTERE DI FUMARE?

 L’utilizzo delle sigarette elettroniche è oramai molto diffuso ed è spesso considerato una valida strategia per tentare di smettere di fumare. Tuttavia, ad oggi, non esistono evidenze che dimostrino una diversa efficacia della sigaretta elettronica rispetto ai prodotti a base di nicotina attualmente approvati come terapia sostitutiva nei fumatori che vogliono abbandonare le sigarette. Nello studio che vi proponiamo oggi 886 adulti sono stati randomizzati a ricevere un prodotto a base di nicotina – da assumere per tre mesi – o una sigaretta elettronica di seconda generazione (in un pacchetto contenente una sigaretta ricaricabile e una bottiglia di liquido a base di nicotina, 18mg/ml). Per entrambi i gruppi era inoltre previsto un counselling di supporto con frequenza settimanale, per un periodo di almeno 4 settimane. L’outcome primario dello studio era rappresentato dalla cessazione dell’abitudine tabagica, definita come astensione dal fumo di sigaretta per almeno un anno, confermata mediante test biochimici.

I risultati a 12 mesi hanno mostrato un tasso di astensione dal fumo pari al 9% negli individui in terapia sostitutiva e al 18% in coloro che utilizzavano la sigaretta elettronica (RR 1.83, 95% CI 1.30 – 2.58; p<0.001). Inoltre, la percentuale di soggetti ancora in trattamento al termine del periodo di follow-up era nettamente superiore nei soggetti che utilizzavano la sigaretta elettronica (52 settimane: 80% vs 9%). Per quanto riguarda le reazioni avverse, i soggetti in trattamento con la sigaretta elettronica hanno riportato principalmente irritazione della gola o del cavo orale (65.3% vs 51.2%), mentre la nausea è stata riferita più spesso dai soggetti che utilizzavano una terapia sostitutiva a base di nicotina (37.9% vs. 31.3%). Infine, nel gruppo della sigaretta elettronica è stata osservata una maggiore riduzione dell’incidenza di tosse e della produzione di escreato rispetto all’inizio del trattamento (RR per tosse 0.8, 95% CI 0.6 – 0.9; RR per escreato 0.7, 95% CI 0.6 – 0.9). Non sono state osservate invece differenze significative nell’incidenza di dispnea o broncostenosi. Pertanto, in associazione a una terapia di tipo comportamentale, la sigaretta elettronica sembra essere più efficace rispetto alle terapie sostitutive per la cessazione dell’abitudine tabagica.

New Engl J Med (IF=79.260) 380:629,2019

L’AGLIO

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

L‘aglio è una pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia delle Liliacee, caratterizzata da una parte ipogea costituita dal bulbo. Questo è formato da bulbilli o spicchi con tunica esterna che può essere di colore gradatamente bianco o rosso, a seconda della varietà. È di facile coltivazione, resistendo anche alle basse temperature. La semina avviene in autunno mentre la raccolta avviene nei mesi di luglio e agosto, soltanto quando la parte aerea è completamente seccata. Le proprietà dell’aglio son note fin dall’antichità: gli Egizi usavano somministrarne abbondanti quantità agli operai che costruivano le piramidi per preservarli da malattie infettive. Tra i Romani la pianta era considerata sacra e dedicata alla dea Cerere. Nel tempo le credenze circa le ”magiche” proprietà dell’aglio si sono largamente diffuse, definendolo la “spezierìa” dei contadini. Le principali proprietà terapeutiche furono confermate da Pasteur, che mise in evidenza le capacità antisettiche e antipertensive. L’allicina contenuta in questo ortaggio ha un forte potere inibente su numerosi batteri tra cui quelli del tifo, come comprovato da Pasteur. Ricco di minerali (calcio, fosforo, magnesio) l’aglio fresco ha anche un buon contenuto di vitamina C.

UN GRAVE STRESS FA MALE AL CUORE

Lo stress, quello grave, che fa seguito all’esposizione a un evento traumatico (guerra, terremoti, violenze fisiche), fa davvero male al cuore? Nell’immaginario collettivo la risposta è scontata. Per la scienza invece questa è ancora una zona grigia. Ma dalla Svezia arriva un grande studio osservazionale, mirato appunto a verificare la presenza di un’associazione tra disturbi da stress e cardiopatie.
Lo studio del Center of Public Health Sciences, University of Iceland a Reykjavík è stato condotto su varie categorie di individui ‘stressati’ (pazienti affetti da disturbo post-traumatico da stress, o che presentavano reazioni da stress ‘acuto’, disturbi di adattamento e altre reazioni allo stress) e sui loro fratelli non ‘stressati. Con questi criteri sono stati analizzati, in un periodo che va dal 1987 al 2013, 136.637 pazienti inclusi nello Swedish National Patient Register, 171.314 loro fratelli senza disturbi stress-relati e 1.366.370 soggetti della popolazione generale. L’endpoint primario dello studio era la diagnosi di nuove malattie cardiovascolari (qualsiasi forma di cardiopatia ischemica, di malattia cerebro-vascolare, malattia trombo-embolica, ipertensione, scompenso cardiaco, aritimie/disturbi di conduzione, patologie cardiovascolari fatali).
Nell’arco dei 27 anni di follow-up, il tasso di incidenza grezzo di qualunque patologia cardiovascolare è risultato di 10.5/1000 anni persona tra i pazienti affetti da disturbi stress-correlati, di 8.4/1000 anni persona tra i loro fratelli non affetti da disturbi da stress e di 6.9/1000 anni persona tra gli individui della popolazione generale.

I pazienti affetti da disturbi stress-correlati, rispetto ai loro fratelli sani, presentavano un aumento del 64% del rischio di qualunque malattia cardiovascolare; ma il rischio di scompenso cardiaco, nel primo anno dalla diagnosi dei disturbi da stress, risultava aumentato addirittura del 695% in questi soggetti. Superato il primo anno dalla diagnosi di disturbo stress-relato, il rischio di sviluppare nuove patologie cardiovascolari si riduce nettamente (complessivamente +29%), e va da un minimo del +12% per le aritmie al +202% per le trombosi/embolie arteriose. I disturbi da stress sono risultati inoltre più fortemente associati con un aumentato rischio di malattie cardiovascolari ad esordio precoce (+40% per le fasce d’età inferiori ai 50 anni), che ad esordio tardivo (+24% per fasce d’età ≥50 anni).
Gli autori concludono dunque che le patologie da stress sono associate in maniera importante a diverse malattie cardiovascolari, in modo indipendente dal contesto familiare, da una storia di disturbi somatici o psichiatrici e da eventuali comorbilità psichiatriche. E questo avviene in particolare a ridosso dell’evento che ha generato lo stress, tipicamente entro il primo anno dalla diagnosi di disturbo stress-correlato. L’associazione sembra essere ancor più importante tra le fasce d’età al di sotto dei 50 anni.

Brit Med J (IF=23.562) 365:i1255,2019

PERCHÉ MANGIARE PANE INTEGRALE PROTEGGE DAL DIABETE?

Chi mangia pane integrale ha livelli di serotonina circolante inferiori rispetto a chi consuma pane bianco, a basso contenuto di fibre. Lo rivela uno studio realizzato dall’Università della Finlandia Orientale e dallo IARC (International Agency for Research on Cancer). La ricerca dimostra anche che il consumo di fibre derivanti dal frumento o dalla segale integrale riduce i livelli di serotonina nel colon degli animali da esperimento (topo). L’effetto salutare del consumo di fibre potrebbe dunque derivare in parte dalla ridotta sintesi di serotonina da parte dell’intestino, che è l’organo maggiormente responsabile della sua produzione.
È noto da tempo che il consumo di cereali integrali si associa a un minor rischio di diabete di tipo 2, di malattie cardiovascolari e di alcuni tumori, ma finora non erano noti i meccanismi alla base di questi effetti protettivi. Si ipotizza che potrebbe trattarsi di un effetto legato ad alcune sostanza bioattive presenti nei cereali integrali, di fitochimici e di fibre, a partire dalle quali i batteri intestinali producono una serie di metaboliti biologicamente attivi.
Nello studio clinico, ai partecipanti, finlandesi e napoletani con sindrome metabolica, è stato chiesto di consumare dalle 6 alle 10 fette di pane bianco, a basso contenuto di fibre per 4 settimane; quindi per altre 4 settimane, è stato chiesto loro di mangiare la stessa quantità di pane integrale (di segale o di frumento, supplementato di fibre di segale). Per il resto la loro dieta abituale non subiva variazioni. Al termine dei due periodi di studio veniva prelevato loro un campione di sangue, analizzato in cromatografia liquida e spettrometria di massa per fare il profiling dei metaboliti presenti nel sangue e valutare le differenze tra il primo e il secondo prelievo. Il consumo di segale integrale ha prodotto una significativa riduzione delle concentrazioni plasmatiche di serotonina, rispetto al consumo di pane bianco.
Nello studio sperimentale, i ricercatori hanno indagato nel topo se l’aggiunta di fibre (crusca di segale, di frumento o farina di cellulosa) alla dieta per 9 settimane comportasse variazioni nella produzione di serotonina da parte dell’intestino. I topi nutriti con crusca di segale o di frumento presentavano livelli di serotonina nel colon significativamente più bassi rispetto agli altri animali.
La serotonina è nota soprattutto per il ruolo di neurotrasmettitore a livello cerebrale, tuttavia la quota prodotta dall’intestino resta separata da quella prodotta nel cervello e svolge una serie di funzioni periferiche, compresa la regolazione della motilità intestinale e della produzione di mediatori dell’infiammazione e dell’immunità. Elevati livelli di serotonina circolanti sono poi associati ad elevati livelli di glicemia, mentre bassi livelli di serotonina riducono il rischio di diabete (e forse anche di tumore del colon).

Am J Clin Nutr (IF=6.549) 109:1630,2019