EFFICACIA DELLA “POLIPILLOLA” NELLA PREVENZIONE PRIMARIA E SECONDARIA DI MALATTIE CARDIOVASCOLARI

Il trial PolyIran, uno studio a due bracci, pragmatico, randomizzato a cluster, innestato all’interno del Golestan Cohort Study (GCS), uno studio di coorte di 50.045 partecipanti di età compresa tra 40 e 75 anni della provincia del Golestan in Iran, ha valutato efficacia e sicurezza di una polipillola di 4 farmaci (aspirina, atorvastatina, idroclorotiazide ed enalapril o valsartan) nella prevenzione primaria e secondaria delle malattie cardiovascolari. I soggetti sono stati assegnati (1:1) a intervento non farmacologico (dieta sana con basso contenuto di sale, zucchero e grassi, esercizio fisico, controllo del peso e astinenza dal fumo) o a trattamento con polipillola una volta al giorno. I partecipanti sono stati seguiti per 60 mesi. L’outcome primario era un composito di eventi cardiovascolari maggiori. Sono stati arruolati 6838 soggetti, 3417 nel gruppo di intervento non farmacologico e 3421 nel gruppo polipillola. Durante il follow-up, 301 (8.8%) partecipanti nel gruppo di intervento non farmacologico hanno avuto eventi cardiovascolari maggiori, rispetto a 202 (5.9%) partecipanti nel gruppo polipillola (HR 0.66, 95%CI 0.55-0.80). Non è stata riscontrata alcuna interazione statisticamente significativa con la presenza (HR 0.61, 95%CI 0.49-0.75) o assenza di malattie cardiovascolari preesistenti (HR 0.80, 95%CI 0.51-1.12). L’incidenza di eventi avversi era simile tra i due gruppi di studio.

Lancet (IF=59.102) 394:672,2019

INCLISIRAN: UNA NUOVA ARMA CONTRO L’IPERCOLESTEROLEMIA?

Inclisiran è un silenziatore dell’RNA specificamente diretto verso l’mRNA di PCSK9 (Figura. A. Il recettore LDL (LDLR) espresso sulla membrana cellulare lega le LDL e il complesso viene internalizzato nell’endosoma. B. LDL e LDLR si staccano. C. LDLR ricicla sulla membrane cellulare. D. LDL viene degradata nei lisosomi. E. Il gene che codifica per PCSK9 viene trascritto e l’mRNA viene tradotto in proteina; PCSK9 viene secreta nel plasma o rimane all’interno della cellula. F. In entrambi i casi PCSK9 lega LDLR e lo avvia alla degradazione nei lisosomi. G. Inclisiran impedisce la traduzione dell’mRNA in proteina PCSK9. In questo modo agisce in modo diverso dagli anticorpi anti-PCSK9, che (H) impediscono il legame di PCSK9 a LDLR sulla membrana cellulare).
Inclisiran è un farmaco non ancora disponibile commercialmente, che viene somministrato solo due volte l’anno con iniezione sottocutanea. Lo studio ORION-10 (di fase 3) ha arruolato 1561 pazienti con malattia cardiovascolare aterosclerotica già in trattamento con statine e li ha assegnati in modo casuale a inclisiran 300 mg o placebo, somministrati per iniezione sottocutanea al giorno 1 e al giorno 30, quindi ogni 6 mesi per i successivi 18 mesi. Il 90% dei pazienti arruolati era in terapia con statine, il 9% con ezetimibe. Il livello medio basale di LDL era 105 mg/dL. Alla fine dello studio (giorno 510), i livelli di LDL-colesterolo nel gruppo inclisiran si erano ridotti del 58% rispetto al placebo. L’incidenza di eventi avversi era simile nei due gruppi. Il 2.6% dei pazienti trattati con inclisiran ha manifestato reazioni al sito di iniezione (0.9% nei pazienti trattati con placebo); la maggior parte delle reazioni è stata lieve, alcune sono state moderate e nessuna è stata grave o persistente.

INTERAZIONI FARMACO/INTEGRATORE: UN RISCHIO REALE

Qual è il rischio reale di interazioni tra supplementi nutrizionali e farmaci? Ricercatori spagnoli hanno utilizzato i dati della National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES), negli Stati Uniti, per valutare il rischio di interazioni potenzialmente gravi (ADR) tra 3 classi di farmaci di largo impiego e integratori: tetracicline e calcio/magnesio/zinco; diuretici tiazidici e vitamina D; sartani e potassio. Su un campione di 820 pazienti (864 prescrizioni) hanno rilevato che il rischio di ADR gravi era decisamente elevato: il 49%. Fattori direttamente associati al rischio erano l’età avanzata e l’elevato livello socioculturale, probabilmente perché negli anziani è più frequente la poliprescrizione, mentre nei più istruiti è più frequente il ricorso agli integratori. Non avevano invece un’influenza significativa altri fattori come etnia, stato civile, indice di massa corporea, attività fisica. Ancora una volta emerge come l’utilizzo di integratori non vada improvvisato, ma attuato sotto diretto controllo del medico.

Nutrients (IF=4.171) 11:piiE2466, 2019

UN ANTICORPO ANTI-CD3 RITARDA LA COMPARSA DI DIABETE DI TIPO 1 IN SOGGETTI AD ALTO RISCHIO

Il diabete di tipo 1 è una malattia autoimmune che porta alla distruzione delle cellule pancreatiche di tipo beta deputate alla produzione di insulina e quindi alla dipendenza dall’insulina esogena. Uno studio multicentrico ha valutato se la somministrazione di Teplizumab, un anticorpo monoclonale anti-CD3, sia in grado di ritardare l’insorgenza di diabete di tipo 1 nei familiari di pazienti con la malattia, che non avevano diabete ma erano ad alto rischio di sviluppo della malattia. I pazienti sono stati assegnati in modo casuale a un trattamento di 14 giorni con Teplizumab o placebo. Il follow-up per la progressione a diabete è stato eseguito con l’uso di test orali di tolleranza al glucosio a intervalli di 6 mesi. Un totale di 76 partecipanti (di cui 55 [72%] ≤18 anni) sono stati sottoposti a randomizzazione, 44 nel gruppo Teplizumab e 32 nel gruppo placebo.

La malattia è stata diagnosticata in 19 (43%) dei partecipanti che hanno ricevuto Teplizumab e in 23 (72%) di quelli che hanno ricevuto il placebo. Il tempo trascorso prima della diagnosi di diabete di tipo 1 è stato di 48.4 mesi nel gruppo Teplizumab e 24.4 mesi nel gruppo placebo. L’incidenza annuale di diagnosi di diabete è stata del 14.9% nel gruppo Teplizumab e del 35.9% nel gruppo placebo. Come eventi avversi, sono stati segnalati casi di eruzione cutanea e linfopenia transitoria. Pertanto, si dimostra che Teplizumab è in grado di ritardare la progressione verso il diabete di tipo 1 in soggetti ad alto rischio.

N Engl J Med (IF=70.670) 381:603, 2019

INIBITORI DI PCSK9 NEI PAZIENTI CON MALATTIA RENALE CRONICA

La malattia renale cronica (CKD) è associata a un aumentato rischio di eventi cardiovascolari di tipo aterosclerotico (ASCVD). A spiegare questa associazione sono i numerosi fattori di rischio condivisi tra le due patologie, quali dislipidemia, diabete e ipertensione. Le più recenti linee guida per la gestione delle dislipidemie suggeriscono che la CKD sia considerata come una delle condizioni associate ad un rischio “alto” o “molto-alto” di sviluppare ASCVD, raccomandando il massimo impegno per raggiungere livelli di LDL colesterolo al di sotto di 55 o di 70 mg/dl anche in prevenzione primaria nei soggetti con CKD. Nei soggetti con malattia renale allo stadio terminale (ESRD) che richiedono emodialisi a lungo termine, le statine non hanno dimostrato la capacità di ridurre gli eventi cardiovascolari. Al contrario, i pazienti con insufficienza renale meno grave sembrano avere un consistente beneficio dalla terapia con statine. Nonostante ciò l’incidenza di eventi cardiovascolari complessivi rimane elevata. Inoltre, la ridotta funzionalità renale può rappresentare un fattore di rischio di effetti avversi correlati alle statine, come la miopatia. Per tali ragioni, l’utilizzo di terapie ipolipemizzanti di combinazione e la possibilità di raggiungere target di colesterolo LDL molto bassi, come strumento per ridurre più efficacemente il rischio di ASCVD tra i pazienti con CKD, è vista con favore.
Un’analisi secondaria dello studio FOURIER (Further Cardiovascular Outcomes Research with PCSK9 Inhibition in Subjects with Elevated Risk) ha valutato il potenziale beneficio del trattamento con inibitori di PCSK9 (PCSK9i), per ridurre il rischio cardiovascolare nei pazienti con ASCVD e CKD. Dei 27.554 partecipanti allo studio, 15.034 (55%) avevano CKD in stadio 2 (meno grave), 4.443 avevano CKD in stadio ≥3 (16%) e 208 pazienti avevano CKD in stadio 4. 8.077 pazienti avevano una funzionalità renale normale. L’endpoint prespecificato era il composito di morte cardiovascolare, infarto miocardico, ictus o ospedalizzazione per angina o rivascolarizzazione.

I pazienti con insufficienza renale cronica più grave presentano un’incidenza di eventi più elevata, con un rischio più alto del 36% in quelli con CKD in stadio ≥3 rispetto a quelli con normale funzionalità renale. Il beneficio della terapia con evolocumab è simile tra pazienti con diversi stadi di CKD: -18% nei pazienti con funzionalità renale normale, -15% nei pazienti con CKD in stadio 2, -11% in pazienti con CKD in stadio ≥3. Tuttavia, la terapia con evolocumab non ha influenzato la perdita nel tempo della funzionalità renale.

J Am Coll Cardiol (IF=18.639) 73:2961,2019

L’INTERRUZIONE DELLA STATINA AUMENTA IL RISCHIO DI EVENTI CARDIOVASCOLARI ANCHE NELL’ANZIANO

La somministrazione di statine in prevenzione primaria nel paziente ultrasettantacinquenne è oggetto di grande dibattito. Infatti, le evidenze disponibili sono molto limitate e non consentono di formulare chiare raccomandazioni a favore o contro questo trattamento. Ricercatori francesi hanno analizzato una coorte di soggetti settantacinquenni che assumevano una terapia con statina in prevenzione primaria, al fine di indagare gli effetti dell’interruzione del trattamento sugli outcome cardiovascolari. Lo studio è stato condotto a partire da database del servizio sanitario nazionale francese, arruolando tutti i soggetti che avevano compiuto i 75 anni nel periodo 2012-2014, che non avevano una storia di malattia cardiovascolare e che hanno assunto il farmaco per oltre l’80% del tempo in ciascuno dei due anni precedenti. Il trattamento con statina è stato considerato interrotto in caso di sospensione dell’esposizione per almeno tre mesi consecutivi. L’outcome dello studio era rappresentato dall’ospedalizzazione per eventi cardiovascolari. Nello studio sono stati arruolati 120.173 soggetti, seguiti in follow-up per un periodo medio di 2.4 anni. Tra questi, 17.204 (14.3%) avevano interrotto il trattamento e 5396 (4.5%) erano stati ricoverati per eventi cardiovascolari. L’interruzione del trattamento con statine era associato a un aumento del rischio cardiovascolare, dopo aggiustamento per fattori confondenti), del 33% per tutti gli eventi (95% CI 1.18–1.50), del 46 % per gli eventi coronarici (95% CI 1.21–1.75) e del 26% per gli eventi cerebrovascolari (95% CI 1.05–1.51).

In futuro, studi randomizzati dovranno confermare questi dati e fornire indicazioni più chiare relativamente alla somministrazione di statine in prevenzione primaria nel paziente anziano.

Eur Heart J (IF=24.889) 2019 Jul 30. doi: 10.1093/eurheartj/ehz458

DOMANDE E RISPOSTE SULLA VITAMINA D

1. Cos’è la vitamina D?
La vitamina D è un pro-ormone liposolubile prodotto a livello della cute per azione dei raggi ultravioletti B (UVB). L’esposizione solare rappresenta la principale sorgente naturale di vitamina D, tuttavia, essa può essere assunta anche con gli alimenti.

2. Che ruolo svolge nel corpo umano?
Il principale ruolo della vitamina D è quello di regolare l’assorbimento intestinale di calcio e fosforo, favorendo la normale formazione e mineralizzazione dell’osso. Inoltre, la vitamina D è coinvolta nel processo che garantisce una normale contrattilità muscolare nonché interagisce con il sistema immunitario esercitando un effetto immunomodulante.

3. Cosa comporta una carenza di vitamina D?
In molte persone la carenza di vitamina D è del tutto asintomatica. Una grave carenza determina il rachitismo nei bambini e l’osteomalacia negli adulti. Inoltre, condizioni di ipovitaminosi D possono portare anche a riduzione della forza muscolare e dolori diffusi.

4. Come si può valutare la disponibilità di vitamina D nel corpo umano?
Il dosaggio della vitamina D nella forma 25(OH)D sierica rappresenta il metodo più accurato per stimare lo stato di riserva di vitamina D nell’organismo.

5. Quando è necessario eseguire il dosaggio di vitamina D?
Il dosaggio deve essere eseguito solo in presenza di specifiche condizioni di rischio, su indicazione del medico. Il dosaggio della vitamina D [dosaggio della 25(OH)D] esteso alla popolazione generale è inappropriato.

6. Quali sono i valori “normali” di vitamina D?
I valori desiderabili di 25(OH)D sono compresi tra 20 e 40 ng/mL. Infatti, per valori superiori ai 20 ng/mL si considera garantita l’efficacia per gli esiti scheletrici, mentre per valori inferiori ai 40 ng/mL si considera garantita la sicurezza, non essendo documentati rischi aggiuntivi.
Una condizione di “carenza” di vitamina D è individuata per valori di 25(OH)D inferiori a 20 ng/mL. Pertanto, per valori di 25(OH)D < 20 ng/mL è giustificato l’inizio della supplementazione di vitamina D. Il controllo sistematico dei livelli di 25(OH)D non è raccomandato.

7. Quali sono le fonti naturali di vitamina D?
L’efficace esposizione alla luce solare e l’apporto dietetico di vitamina D rappresentano i principali fattori che determinano i livelli sierici di 25(OH)D.
ESPOSIZIONE SOLARE
L’esposizione solare rappresenta il meccanismo principale di produzione di vitamina D nell’essere umano. Un’esposizione solare regolare rappresenta il modo più naturale ed efficace per un’adeguata produzione endogena di vitamina D. Fattori che possono influenzare la capacità di produrre vitamina D a seguito dell’esposizione alla luce solare (raggi UVB) includono l’ora del giorno, la stagione, il colore della pelle, la quantità di pelle esposta alla luce solare, il tempo di esposizione, nonché l’utilizzo di protezione solare. In generale le persone con pelle più scura potrebbero aver bisogno di un tempo di esposizione più prolungato rispetto a persone con carnagione chiara. Il tempo di esposizione dipende dalla sensibilità della pelle alla luce solare, assicurandosi di evitare scottature.
APPORTO ALIMENTARE
La maggior parte degli alimenti contiene scarse quantità di vitamina D, pertanto la sola alimentazione non può esserne considerata una fonte adeguata. La vitamina D è relativamente stabile e viene alterata poco da conservazione e cottura. Ecco una lista di alimenti con corrispondente contenuto di vitamina D espresso o in UI/100g o in UI/L.
Latte e latticini. Latte vaccino: 5-40 UI/L. Latte di capra 5-40 UI/L. Burro 30 UI/100g. Yogurt 2.4 UI/100g. Panna 30 UI/100g. Formaggi 12-40/100g.
Altri alimenti. Maiale 40-50 UI/100g. Fegato di manzo 40-70 UI/100g. Dentice, merluzzo, orata, palombo, sogliola, trota, salmone, aringhe 300-1500/100g. Olio di fegato di merluzzo 400 UI/5ml (1 cucchiaino da the). Tuorlo d’uovo 20 UI/100g.

8. In quali casi è previsto l’utilizzo di vitamina D per prevenirne o trattarne la carenza?
L’utilizzo di vitamina D, indipendentemente dalla misurazione della 25(OH)D, è previsto:
• negli anziani ospiti delle residenze sanitario-assistenziali
• nelle donne in gravidanza o in allattamento
• nelle persone affette da osteoporosi da qualsiasi causa o osteopatie accertate per cui non è indicata una terapia remineralizzante.
L’utilizzo previa misurazione della 25(OH)D è previsto:
• nelle persone con livelli sierici di 25(OH)D < 20 ng/mL e sintomi attribuibili a ipovitaminosi (astenia, mialgie, dolori diffusi o localizzati, frequenti cadute immotivate)
• nelle persone con diagnosi di iperparatiroidismo secondario a ipovitaminosi D
• nelle persone affette da osteoporosi di qualsiasi causa o osteopatie accertate per le quali la correzione dell’ipovitaminosi dovrebbe essere propedeutica all’inizio della terapia remineralizzante.
• in caso di una terapia di lunga durata con farmaci interferenti col metabolismo della vitamina D (antiepilettici, glucocorticoidi, antiretrovirali, antimicotici, ecc.).
• in caso di malattie che possono causare malassorbimento nell’adulto (fibrosi cistica, celiachia, morbo di Crohn, chirurgia bariatrica ecc.).

9. Perché è importante attenersi alla corretta posologia? Quali effetti sfavorevoli sulla salute può provocare un eccesso di vitamina D? Perché è sempre importante rivolgersi al medico prima di assumere farmaci a base di vitamina D? La vitamina D è liposolubile e pertanto tende ad accumularsi nell’organismo umano. L’assunzione per lunghi periodi ad alte dosi, può provocare effetti gravi per la salute, ad esempio ipercalcemia e nefrolitiasi (calcolosi renale), nonché aumentare il rischio di fratture nei mesi successivi alla somministrazione di boli di vitamina D e il rischio di alcune neoplasie nelle popolazioni con livelli di 25(OH)D > 40-50 ng/mL. Per tali motivi è sempre importante rivolgersi al medico prima di assumere farmaci a base di vitamina D e attenersi alla corretta posologia prescritta. Inoltre, è necessario ricordare che il sovradosaggio di vitamina D durante i primi 6 mesi di gravidanza può avere effetti tossici nel feto e pertanto anche in questo caso l’assunzione di tali medicinali non può prescindere dalla prescrizione medica.

10. In quali casi l’assunzione di vitamina D si è rivelata inefficace? Le evidenze scientifiche disponibili indicano come la somministrazione di vitamina D per la prevenzione cardiovascolare e cerebrovascolare e per la prevenzione dei tumori sia inefficace e, pertanto, inappropriata.

11. I medicinali a base di vitamina D possono essere acquistati senza prescrizione del medico? No, tali medicinali necessitano di prescrizione medica in quanto il medico curante deve essere a conoscenza dell’assunzione di tali farmaci in considerazione dei possibili eventi avversi.

Fonte: AIFA (Agenzia Italiana dal Farmaco)

IL MICROBIOTA INTESTINALE È COINVOLTO NELL’AZIONE METABOLICA DELLA METFORMINA

La metformina è da quasi 60 anni il farmaco di prima scelta nella terapia del diabete mellito di tipo 2, grazie alla sua provata efficacia ipoglicemizzante e cardiovascolare, associata a una scarsa tossicità. L’effetto ipoglicemizzante è legato alla sua azione diretta sui processi di trascrizione genica negli epatociti, con riduzione della sintesi di glucosio (gluconeogenesi) nel fegato. Recentemente, tuttavia, è stato riportato che la metformina è in grado di alterare il microbiota intestinale nell’uomo. Ciò ha portato a ipotizzare che l’azione del farmaco sul metabolismo glucidico potesse derivare anche da una modulazione della biodiversità intestinale. Lo studio che vi proponiamo oggi descrive un possibile meccanismo dell’effetto farmacologico della metformina, che coinvolge, al contempo, metaboliti batterici e target molecolari dell’ospite. Lo studio è stato condotto su campioni biologici provenienti da pazienti con diabete di tipo 2 di nuova diagnosi, trattati per 3 giorni con metformina, mai assunta in precedenza. I risultati delle analisi metagenomica e metabolomica hanno mostrato una riduzione dei livelli di Bacteroides Fragilis e un aumento dell’acido glicourodesossicolico nelle feci di questi individui, unitamente all’inibizione del “signaling” del recettore degli acidi biliari FXR. In aggiunta, uno studio parallelo in vivo ha dimostrato che topi alimentati con una dieta ad alto contenuto di grassi e colonizzati con Bacteroides Fragilis diventano predisposti a sviluppare una grave intolleranza glucidica, non modificata dal trattamento con metformina. L’acido glicourodesossicolico è stato poi identificato come una molecola in grado di migliorare il profilo metabolico dei topi obesi tramite interazione con lo stesso recettore FXR. Questo studio dimostra il coinvolgimento del metabolismo batterico intestinale, nella fattispecie mediato dall’acido glicourodesossicolico e dalla sua interazione con il recettore intestinale FXR, nell’azione metabolica della metformina.

Nat Med (IF=32.621) 24:1919,2018

EZETIMIBE E NUTRACEUTICO NEL PAZIENTE CORONAROPATICO INTOLLERANTE ALLA STATINA AD ALTO DOSAGGIO

In molti pazienti il raggiungimento dei valori target di LDL-colesterolo (LDL-C) è reso difficoltoso dall’intolleranza alle statine ad alto dosaggio. In questo contesto, ricercatori italiani hanno voluto approfondire il ruolo di ezetimibe e dei nutraceutici, che potrebbero essere utili per migliorare il profilo lipidico nei pazienti in cui non è possibile titolare la statina. In particolare, questo studio ha valutato la somministrazione di una statina a basso dosaggio in combinazione con ezetimibe o con Armolipid Plus, un nutraceutico contenente riso rosso, policosanoli e berberina, al fine di valutare se queste associazioni possano aumentare la percentuale di pazienti che raggiunge il target di LDL-C. Obiettivo secondario dello studio era quello di analizzare l’efficacia della tripla combinazione statina a basso dosaggio+ezetimibe+nutraceutico nei pazienti resistenti (colesterolo LDL-C > 70 mg/dl). Lo studio, prospettico randomizzato in singolo cieco, è stato condotto in 100 pazienti con coronaropatia sottoposti a rivascolarizzazione percutanea nei precedenti 12 mesi, con intolleranza alle statine ad alto dosaggio e un assetto lipidico non a target (LDL-C <70 mg/dl) con la sola statina a basso dosaggio. I partecipanti sono stati randomizzati a ricevere l’associazione statina a basso dosaggio+ezetimibe o statina+nutraceutico. Tra questi, 33 pazienti trattati con statina+ezetimibe (66%) e 31 trattati con statina+nutraceutico (62%) hanno raggiunto il target di LDL-C dopo tre mesi, mantenendolo anche a 6 mesi. I pazienti che non avevano raggiunto il target sono stati trattati con la triplice associazione statina+ezetimibe+nutraceutico per altri 3 mesi: a 6 mesi, 28/36 pazienti (78%) avevano raggiunto il target. Nel complesso, il 92% dei pazienti arruolati nello studio ha raggiunto il target di LDL-C a 6 mesi dall’inizio del trattamento e nessun paziente ha riportato effetti collaterali maggiori.

Am J Cardiol (IF=3.171) 123:233,2019

QUANDO ASSUMERE LA TERAPIA ANTIPERTENSIVA?

Il dilemma se assumere il trattamento antipertensivo al mattino, per coprire soprattutto le ore nel giorno in cui gli stimoli ipertensivanti sono maggiori, o alla sera, per ripristinare o implementare il “dipping pressorio”, ossia il fisiologico decremento notturno della pressione arteriosa, ha interessato a fasi alterne il dibattito scientifico tra gli ipertensiologi. Lo studio Hellenic-Anglo Research into Morning or Night Antihypertensive Drug Delivery (HARMONY) è stato disegnato specificamente per verificare se la somministrazione di farmaci antipertensivi nell’orario “canonico” (06.00-11.00) o in quello pomeridiano-serotino (18.00-23.00) potesse avere una diversa efficacia in termini di controllo pressorio delle 24 ore. Lo studio ha arruolato 103 pazienti di età compresa tra i 18 e gli 80 anni, stabilmente in trattamento con almeno un farmaco antipertensivo e con pressione discretamente controllata (≤150/90 mmHg). I pazienti sono stati randomizzati ad assumere il trattamento antipertensivo in una delle due fasce orarie previste dallo studio per 12 settimane per poi passare ad assumere il trattamento per ulteriori 12 settimane nella seconda delle due fasce orarie, secondo un disegno cross-over. Ogni paziente è stato sottoposto a monitoraggio pressorio delle 24 ore al momento dell’arruolamento e al termine di ciascuna delle due fasi dello studio. L’analisi dei risultati relativi ai 95 pazienti che hanno completato lo studio ha evidenziato per i due regimi di somministrazione della terapia una simile riduzione della pressione arteriosa diurna (07.00-22.00), notturna (22.00-07.00) e delle 24 ore. L’analisi dei dati stratificata per età (65/65 anni) o sesso non ha evidenziato differenze significative. Le evidenze dello studio HARMONY dimostrano che il momento dell’assunzione del trattamento non è un determinante rilevante della risposta a una buona terapia antipertensiva, togliendo in tal modo ogni alibi a chi adduce motivazioni di carattere orario per giustificare una scarsa aderenza al trattamento antipertensivo, vero fattore di rischio occulto nella prevenzione cardiovascolare. I risultati dello studio Treatment in Morning versus Evening (TIME), che ha arruolato 10.200 pazienti seguiti per 10 anni, ci diranno nel prossimo futuro se i due regimi orari di somministrazione potranno garantire anche la medesima protezione cardiovascolare. Nel frattempo, non appare inutile ricordare di tenere sempre nella debita considerazione la ridotta capacità adattativa del circolo cerebrale dell’iperteso anziano ai cambiamenti posturali. Un trattamento antipertensivo assunto di sera potrebbe determinare, sommando i suoi effetti ipotensivanti al fisiologico dipping pressorio notturno, una riduzione pressoria eccessiva rispetto alle capacità di autoregolazione del flusso ematico cerebrale, condizionando problemi di ipoperfusione. Ciò è soprattutto vero per i farmaci che possono interferire con la risposta adattativa del circolo ai cambiamenti posturali (alfa litici e beta-bloccanti) e creare, quindi, situazioni di potenziale pericolosità in occasione dei non infrequenti risvegli notturni degli anziani.

Hypertension (IF=6.823) 72:870,2018