VALORE PROGNOSTICO DELLA PROTEINA C REATTIVA NEL PAZIENTE CON SINDROME CORONARICA ACUTA

L’aumento dei livelli di proteina C reattiva (PCR) dopo una sindrome coronarica acuta (SCA) si associa a un maggior rischio di eventi avversi, ma non è chiaro se un monitoraggio seriato della PCR possa essere utile ai fini della stratificazione del rischio. Lo studio che vi proponiamo oggi ha voluto approfondire il ruolo prognostico della PCR nei pazienti con SCA recente, indagando se un incremento dei valori di PCR nelle 16 settimane successive all’evento fosse associato a un maggior rischio di eventi cardiaci e di mortalità. A questo scopo sono stati analizzati i dati del trial VISTA-16 (Vascular Inflammation Suppression to Treat Acute Coronary Syndromes for 16 Weeks), studio multicentrico randomizzato controllato in doppio cieco condotto nel periodo giugno 2010 – marzo 2012 su 5.145 soggetti. Nell’analisi sono stati inclusi i pazienti per i quali era disponibile un dosaggio basale della PCR e un monitoraggio a 1, 2, 4, 8 e 16 settimane. Gli outcomes dello studio includevano gli eventi avversi cardiaci (MACE, composito di mortalità cardiovascolare, infarto miocardico, ictus non fatale o angina instabile) e la mortalità, cardiovascolare e da tutte le cause. La popolazione analizzata comprendeva 4.257 soggetti di età media pari a 60.3 anni (range 53.5-67.8), di cui il 73.8% di sesso maschile. All’analisi multivariata, è stata osservata un’associazione indipendente tra il verificarsi di eventi cardiaci e i valori di PCR, sia basali (hazard ratio 1.36, 95% CI, 1.13-1.63) che a 16 settimane (HR 1.15, 95% CI, 1.09-1.21). Analogamente, è stata riscontrata un’associazione, statisticamente significativa e indipendente da fattori confondenti, tra i valori di PCR e la mortalità, cardiovascolare (HR per valore PCR basale 1.61, 95% CI, 1.07-2.41; HR per valori a 16 sett. 1.26, 95% CI, 1.19-1.34) e da tutte le cause (HR 1.58, 95% CI, 1.07-2.35 e HR 1.25, 95% CI, 1.18-1.32).
Pertanto, nel paziente con SCA, un incremento dei valori di PCR al basale e nelle prime 16 settimane dall’evento si associa a un maggior rischio di eventi cardiaci e di mortalità, cardiovascolare e da tutte le cause. Questi dati suggeriscono che il monitoraggio dei livelli di PCR nei pazienti con recente SCA potrebbe essere utile per identificare i soggetti a maggior rischio di nuovi eventi, anche fatali.

JAMA Cardiol (IF=11.866) 2019 Mar 6. doi: 10.1001/jamacardio.2019.0179

IL VERDE SALVA IL CUORE

Abitare in prossimità di aree verdi può essere associata a un ridotto rischio di malattie cardiache: è quanto emerge dai risultati di uno studio che ha esaminato la relazione tra aree verdi per quartiere, stimate da immagini satellitari, e 4 diagnosi di cardiopatia (infarto miocardico acuto, cardiopatia ischemica, insufficienza cardiaca e fibrillazione atriale) in un campione di assistiti Medicare. La popolazione esaminata comprendeva 249.405 individui di età ≥65 anni, domiciliati nello stesso luogo nel biennio 2010-2011, nella contea di Miami-Dade, in Florida. Le analisi di regressione, corrette per dati socio demografici e reddito di quartiere, hanno dimostrato che una maggiore ecocompatibilità si associa a una riduzione del rischio di malattie cardiache. I soggetti che vivono in aree corrispondenti al più alto terzile di vegetazione, rispetto al terzile più basso, mostrano una riduzione del rischio di infarto miocardico acuto del 25% (OR 0.75, IC 95% 0.63-0.90), di cardiopatia ischemica del 20% (OR 0.80, IC 95% 0.77-0.83), di insufficienza cardiaca del 16% (OR 0.84, IC 95% 0.80-088) e di fibrillazione atriale del 6% (OR 0.94, IC 95% 0.87-1.00 ). Tali associazioni rimangono significative, ma vengono attenuate dopo aggiustamento per i fattori di rischio cardiometabolico (diabete mellito, ipertensione e iperlipidemia), suggerendo che questi ultimi possano in parte mediare la relazione osservata tra aree verdi e malattie cardiache. Gli autori concludono che la vicinanza al verde possa essere associata a un ridotto rischio di malattie cardiache e che le strategie per aumentarne l’estensione possano rappresentare uno strumento per ridurre le malattie cardiache a livello di popolazione.

J Amer Heart Ass (IF=4.660). Mar 2019 doi.org/10.1161/JAHA.118.010258

ESAMI PER IL CUORE IN FARMACIA, PER PREVENIRE E MONITORARE LE MALATTIE CARDIOVASCOLARI

La farmacia come punto d’accesso privilegiato alla sanità non è una novità, ma in futuro l’elenco dei servizi potrebbe allungarsi: grazie alla telemedicina, ogni farmacia potrebbe diventare infatti un baluardo per la salute del cuore. Lo ha dimostrato un progetto dell’università di Brescia in collaborazione con la Società Italiana di Telemedicina, presentato all’ultimo congresso della Società Italiana di Cardiologia.
Il progetto, che ha coinvolto Health Telematic Network, l’unità di Cardiologia degli Spedali Civili di Brescia e Federfarma, l’Associazione Nazionale dei Farmacisti, ha previsto di installare in 3.400 farmacie di tutta Italia una rete telematica collegata a una piattaforma di telemedicina, servita 24 ore al giorno da cardiologi disponibili per una consulenza specialistica. Le farmacie hanno eseguito quasi 110mila elettrocardiogrammi come esame di screening in soggetti sani, pazienti con fattori di rischio cardiovascolare o con passati infarti e ictus. Le misurazioni della pressione sono state oltre 34mila, in ipertesi di cui si voleva valutare la risposta alla terapia o in persone con valori discordanti. Oltre 28mila, infine, sono stati gli Holter elettrocardiografici in soggetti in cui si sospettavano aritmie. I dati sono stati valutati dai cardiologi che hanno riscontrato alterazioni nel 7.8 per cento degli elettrocardiogrammi e nel 36.6 per cento delle misurazioni pressorie; il 24.9 per cento degli Holter ha evidenziato aritmie e nel 4.5 per cento dei casi, ovvero 1262 persone, si trattava di aritmie che potevano minacciare la vita. In caso di anomalie il soggetto veniva immediatamente indirizzato dal medico di famiglia o dal cardiologo; le persone in pericolo di vita sono state inviate al più vicino Pronto Soccorso.
Il progetto ha anche previsto un intervento specifico per lo screening della fibrillazione atriale, una fra le aritmie più diffuse e più pericolose perché aumenta il pericolo di ictus, insufficienza cardiaca e morte cardiovascolare. Lo screening per la fibrillazione atriale è raccomandato nella popolazione a elevato rischio, ma spesso non viene applicato per l’assenza di prescrizioni mediche o lunghi tempi di attesa. Il progetto di telecardiologia ha perciò cercato di verificare l’efficacia di un monitoraggio Holter elettrocardiografico attraverso una rete di farmacie. L’Holter è stato eseguito in pazienti con episodi di palpitazione, sincope o pre-sincope, oppure con una storia di fibrillazione atriale, raccogliendo anche informazioni sulla durata degli eventuali episodi di fibrillazione, la frequenza cardiaca media e l’assunzione di terapia anticoagulante. In oltre 11mila monitoraggi, il 7 per cento dei pazienti (791 persone) ha evidenziato una fibrillazione atriale parossistica o persistente, con una durata degli episodi superiore ai sei minuti nel 14 per cento dei casi e una frequenza cardiaca superiore ai 90 battiti al minuto nel 17 per cento. Il 28 per cento non sapeva di avere una fibrillazione atriale: nessuno di questi assumeva una terapia anticoagulante, seguita tuttavia solo dal 18 per cento di chi già sapeva di soffrire di questa aritmia. Questi dati confermano che un’unica piattaforma di telemedicina collegata alle farmacie del territorio nazionale può favorire una diagnosi precoce delle patologie cardiovascolari e anche un tempestivo inizio della terapia più adeguata, migliorando l’appropriatezza dell’accesso al Pronto Soccorso con un probabile impatto positivo sia in termini di assistenza sanitaria sia di costi.

SIGARETTA ELETTRONICA O TERAPIA SOSTITUTIVA PER SMETTERE DI FUMARE?

 L’utilizzo delle sigarette elettroniche è oramai molto diffuso ed è spesso considerato una valida strategia per tentare di smettere di fumare. Tuttavia, ad oggi, non esistono evidenze che dimostrino una diversa efficacia della sigaretta elettronica rispetto ai prodotti a base di nicotina attualmente approvati come terapia sostitutiva nei fumatori che vogliono abbandonare le sigarette. Nello studio che vi proponiamo oggi 886 adulti sono stati randomizzati a ricevere un prodotto a base di nicotina – da assumere per tre mesi – o una sigaretta elettronica di seconda generazione (in un pacchetto contenente una sigaretta ricaricabile e una bottiglia di liquido a base di nicotina, 18mg/ml). Per entrambi i gruppi era inoltre previsto un counselling di supporto con frequenza settimanale, per un periodo di almeno 4 settimane. L’outcome primario dello studio era rappresentato dalla cessazione dell’abitudine tabagica, definita come astensione dal fumo di sigaretta per almeno un anno, confermata mediante test biochimici.

I risultati a 12 mesi hanno mostrato un tasso di astensione dal fumo pari al 9% negli individui in terapia sostitutiva e al 18% in coloro che utilizzavano la sigaretta elettronica (RR 1.83, 95% CI 1.30 – 2.58; p<0.001). Inoltre, la percentuale di soggetti ancora in trattamento al termine del periodo di follow-up era nettamente superiore nei soggetti che utilizzavano la sigaretta elettronica (52 settimane: 80% vs 9%). Per quanto riguarda le reazioni avverse, i soggetti in trattamento con la sigaretta elettronica hanno riportato principalmente irritazione della gola o del cavo orale (65.3% vs 51.2%), mentre la nausea è stata riferita più spesso dai soggetti che utilizzavano una terapia sostitutiva a base di nicotina (37.9% vs. 31.3%). Infine, nel gruppo della sigaretta elettronica è stata osservata una maggiore riduzione dell’incidenza di tosse e della produzione di escreato rispetto all’inizio del trattamento (RR per tosse 0.8, 95% CI 0.6 – 0.9; RR per escreato 0.7, 95% CI 0.6 – 0.9). Non sono state osservate invece differenze significative nell’incidenza di dispnea o broncostenosi. Pertanto, in associazione a una terapia di tipo comportamentale, la sigaretta elettronica sembra essere più efficace rispetto alle terapie sostitutive per la cessazione dell’abitudine tabagica.

New Engl J Med (IF=79.260) 380:629,2019

EFFICACIA E SICUREZZA DELL’ASPIRINA IN PREVENZIONE PRIMARIA: DATI DA UNA METANALISI

Nell’ambito del dibattito sul ruolo dell’aspirina nella prevenzione primaria degli eventi cardiovascolari, è stata recentemente pubblicata questa metanalisi condotta su trial randomizzati controllati, che ha valutato come outcome primario di efficacia la mortalità da tutte le cause e come outcome primario di sicurezza i sanguinamenti maggiori. Nella metanalisi sono stati inclusi 11 trials, per un totale di 157.248 soggetti. Al termine di un follow-up medio di 6.6 anni, la somministrazione di aspirina in prevenzione primaria non era associata a una ridotta mortalità da tutte le cause (RR 0.98, 95% CI 0.93–1.02; p=0.30). In termini di sicurezza si osservava invece un’associazione con una maggiore incidenza di sanguinamenti (RR 1.47, 95% CI 1.31–1.65; p<0.0001) e di emorragia intracranica (RR 1.33, 95% CI 1.13–1.58; p=0.001). Risultati analoghi sui due outcome sono stati ottenuti nei pazienti diabetici e in quelli ad alto rischio cardiovascolare (rischio a 10 anni >7.5%). Pertanto, secondo i dati di questa metanalisi, negli adulti senza storia di malattia cardiovascolare, la somministrazione di aspirina non riduce la mortalità e si associa ad un aumento del rischio di sanguinamenti maggiori, inclusa l’emorragia intracranica.

Eur Heart J (IF=23.425) 40:607,2019

CANAKINUMAB PER LA PREVENZIONE DEGLI EVENTI CARDIOVASCOLARI? IL BENEFICIO NON VALE IL COSTO

Il trial CANTOS (Canakinumab Anti-inflammatory Thrombosis Outcome Study) (ne abbiamo già parlato su questa pagina) ha dimostrato che una terapia mirata contro l’infiammazione può ridurre gli eventi cardiovascolari. Nel trial, il canakinumab (un anticorpo monoclonale contro l’interleuchina 1beta, IL1b), alla dose di 150 mg ogni 3 mesi, ha ridotto del 15% gli eventi (infarto miocardico non fatale, ictus non fatale o morte cardiovascolare) rispetto al placebo in pazienti con precedente infarto miocardico e livelli di proteina C-reattiva di almeno 2 mg/L. L’effetto è determinato principalmente da una riduzione nel rischio di infarto miocardico ricorrente. Nell’analisi di costo-efficacia che vi proponiamo oggi sono stati simulati i risultati ottenibili in una coorte di pazienti di 61 anni sopravvissuti a un infarto miocardico, trattati per il resto della loro vita con canakinumab in aggiunta alle cure standard versus le sole cure standard. Si è così stimato che l’aggiunta di canakinumab aumenti l’aspettativa di vita da 11.31 a 11.36 anni e gli anni di vita in buona salute (QALYs, quality-adjusted life-years) da 9.37 a 9.50. Il costo varia da 242.000$ a 1.074.000$, con un rapporto di costo-efficacia incrementale di 6.4 milioni di $ per QALY guadagnato. Emerge pertanto che ai prezzi attuali il trattamento con canakinumab non sia costo-efficace nella prevenzione di eventi cardiovascolari ricorrenti negli Stati Uniti. Gli autori stimano che il prezzo dovrebbe essere ridotto del 98% affinché il rapporto costo/beneficio diventi vantaggioso.

JAMA Cardiol (IF=10.133) 4:128,2019

 

IL COLESTEROLO ALIMENTARE AUMENTA IL RISCHIO DI INFARTO, ICTUS E MORTALITÀ

Le uova strapazzate con la fettina di bacon tutte le mattine a colazione non sono una buona abitudine; come non lo è il pane imburrato o il toast con affettati e formaggio.
Ricercatori americani hanno indagato l’impatto del colesterolo alimentare sull’incidenza di malattie cardiovascolari e di mortalità per tutte le cause. Dall’apparenza un po’ ‘vintage’, questo studio offre al contrario una puntualizzazione molto importante perché una dieta povera di colesterolo, inserita in un corretto stile di vita, ha la sua importanza nell’ambito della prevenzione.
Lo studio ha interessato circa 30 mila adulti americani (età media 51.6 anni, 44% maschi, 31.1% di colore), afferenti a 6 studi di coorte prospettici. Nel corso di un follow up mediano di 17.5 anni, si sono verificati 5.400 nuovi eventi cardiovascolari (2.088 casi di ischemia miocardica fatale e non fatale, 1.302 casi di ictus fatali e non fatali, 1.897 casi di scompenso cardiaco fatale e non fatale) oltre a 113 altri casi di morte per cause cardiovascolari e 6.123 decessi per tutte le cause.
Per ogni 300 mg di colesterolo alimentare consumati ogni giorno, il rischio di malattie cardiovascolari è aumentato del 17% e quello di mortalità per tutte le cause del 18%. Un mezzo uovo al giorno (circa 100 mg di colesterolo) in più è risultato associato in maniera significativa a un maggior rischio di malattie cardiovascolari e di mortalità per tutte le cause. L’associazione tra consumo alimentare di colesterolo e comparsa di malattie cardiovascolari è risultata più importante tra i partecipanti con indice di massa corporea inferiore a 25 (rischio +25% per 300 mg/die di colesterolo) che rispetto ai partecipanti in sovrappeso (rischio +5%) o agli obesi (rischio + 14%). L’associazione tra colesterolo alimentare e mortalità per tutte le cause è risultata più forte tra le femmine (rischio +28%) che tra i maschi (rischio +14%).

JAMA (IF=47.661) 321:1081,2019

DIABETE TIPO 2. MINOR RISCHIO DI CARDIOPATIE SE SI MANGIA FRUTTA SECCA

Secondo uno studio statunitense, i pazienti diabetici che mangiano regolarmente frutta secca hanno minori probabilità di sviluppare una cardiopatia rispetto a pazienti che lo fanno raramente, se non mai.
I ricercatori hanno somministrato questionari sull’alimentazione a 16.217 pazienti diabetici di tipo 2 di entrambi i sessi, seguiti per diversi anni. Le domande riguardavano il consumo di arachidi e frutta a guscio. Durante lo studio, 3.336 pazienti hanno sviluppato una malattia cardio- o cerebro-vascolare; 5.682 sono deceduti, di cui 1.663 per una patologia cardiovascolare e 1.297 per neoplasia. Dopo correzione per altri fattori di rischio, è emerso che nei pazienti diabetici che mangiavano almeno cinque porzioni a settimana da 28 grammi di frutta secca la probabilità di sviluppare una cardiopatia era ridotta del 17% rispetto ai pazienti che non consumavano più di una porzione a settimana. La mortalità cardiovascolare era ridotta del 34% e la mortalità totale del 31%. Non è stata riscontrata alcuna associazione tra consumo di frutta secca e incidenza di ictus o mortalità per cancro. Il consumo di frutta a guscio come noci, mandorle, noce brasiliana, anacardi, pistacchi, noci pecan, noci macadamia, nocciole e pinoli era più strettamente correlata a un minor rischio di cardiopatia rispetto alle arachidi, che in realtà sono legumi che crescono sottoterra.
È possibile che il consumo di frutta secca contribuisca a migliorare il controllo della glicemia e l’infiammazione grazie, almeno in parte, alla presenza di nutrienti quali acidi grassi insaturi, fibra, vitamina E e folati e di minerali come calcio, potassio e magnesio.
Un motivo per cui la frutta a guscio potrebbe essere più protettiva delle arachidi è che tende ad essere consumata con la buccia o con la scorza esterna, dove si trovano la maggior parte degli antiossidanti, mentre le arachidi vengono generalmente ingerite senza il guscio; le arachidi di solito vengono tostate e salate, e il sale aggiunto potrebbe contrastare il beneficio dei componenti originari del frutto. Questi dati forniscono nuove evidenze a sostegno del consiglio di integrare la frutta secca nei modelli alimentari salutari per la prevenzione delle complicazioni cardiovascolari e dei decessi prematuri nei pazienti diabetici.

Circ Res (IF=15.211) 2019 Feb 19. doi: 10.1161/CIRCRESAHA.118.314316.

MANGIARE CIBI FRITTI ACCORCIA LA VITA

L’ennesima conferma che i cibi fritti danneggiano la salute viene da un’analisi dei dati raccolti nel corso del programma “Women’s Health Initiative”, avviato negli Stati Uniti anni 1993-1998 e che ha coinvolto più di 100.000 donne (età 50-79 anni al momento del reclutamento). Dall’inizio dello studio al 2017 sono stati registrati 31.558 decessi. Il consumare almeno una porzione di “fritto” al giorno aumenta dell’8% la mortalità totale e di altrettanto la mortalità cardiovascolare. La mortalità totale aumenta del 13% se si mangia pollo fritto, e del 7% se si mangia pesce fritto. Non esiste alcuna relazione tra consumo di cibi fritti e mortalità per cancro.

Brit Med J (IF=23.562) 364:k5420,2019

FIBRE E CEREALI INTEGRALI FANNO BENE ALLA SALUTE

La prestigiosa rivista Lancet ha pubblicato pochi giorni fa un imponente lavoro di revisione sistematica e metanalisi sull’impatto di carboidrati di diversa qualità sulla salute. Gli autori hanno preso in esame tutti gli studi prospettici pubblicati a partire dal 30 aprile 2017 e tutti i trial clinici randomizzati pubblicati a partire dal 28 febbraio 2018 che riportavano l’indicazione della qualità dei carboidrati e dell’incidenza di patologie non trasmissibili, mortalità e fattori di rischio (sono stati esclusi gli studi su pazienti con patologie croniche o i trial su calo ponderale o quelli riguardanti la somministrazione di supplementi). Sono stati così selezionati dati relativi a circa 135 milioni di anni-paziente, provenienti da 185 studi prospettici e 58 trials clinici su 4.635 partecipanti.
I dati osservazionali suggeriscono che i soggetti che riferiscono un elevato consumo di fibre alimentari, rispetto ai bassi consumatori, presentano una riduzione del 15-30% nella mortalità cardiovascolare e per tutte le cause, nell’incidenza di coronaropatie, di incidenza e mortalità per ictus, di diabete mellito di tipo 2 e di cancro del colon retto. Il beneficio maggiore si riscontra in chi consuma 25-29 gr fi fibre al giorno (Figura).

Risultati simili emergono dai dati relativi al consumo di cereali integrali, mentre non sono state riscontrate differenze significative confrontando diete a basso ed elevato indice o carico glicemico.
L’implementazione di raccomandazioni volte ad aumentare il consumo di fibre alimentari e a sostituire i cereali raffinati con quelli integrali potrebbe dunque apportare notevoli benefici alla salute.

Lancet (IF=53.254) 2019 Jan 10. doi: 10.1016/S0140-6736(18)31809-9.