PERCHÉ INVECCHIANDO SI INGRASSA PIÙ FACILMENTE?

Uno stile di vita sano, coltivato fin dalla giovane età, può fare molto per aiutare a invecchiare in salute, ma i cambiamenti fisici si avvertono e si vedono comunque. Uno di questi riguarda il peso corporeo. La maggior parte di noi, andando avanti con gli anni, tende a ingrassare. Ma perché succede questo? Se lo sono chiesto un gruppo di ricercatori del Karolinska Institutet di Stoccolma che, in collaborazione con i colleghi dell’Università di Lione, sono giunti con i loro studi a questa conclusione: il ricambio dei lipidi nel tessuto adiposo tende a ridursi col passare degli anni e questo rende molto più facile aumentare di peso, anche a parità di introito calorico e di dispendio energetico, rispetto agli anni precedenti.
Lo studio si è focalizzato sullo studio delle cellule adipose di 54 soggetti (maschi e femmine) per un massimo di 16 anni. In quest’arco di tempo i volontari, a prescindere che avessero perso o guadagnato peso, hanno mostrato una progressiva riduzione del turnover lipidico, ovvero della velocità con la quale i depositi di grasso vengono rimossi o immagazzinati nelle cellule adipose. La tendenza dunque è a ingrassare più facilmente; secondo i calcoli dei ricercatori svedesi, il peso di chi continua a mangiare le stesse quantità di cibo, ignorando il passare degli anni, è destinato ad aumentare del 20% in 10-15 anni. In un’altra parte della loro ricerca gli studiosi franco-svedesi hanno valutato il turnover lipidico di 41 donne sottoposte a chirurgia bariatrica per vedere come il tasso di turnover lipidico potesse incidere sulla loro capacità di mantenere la perdita di peso, a distanza di 4-7 anni dall’intervento. I risultati dimostrano che solo le donne con un basso turnover lipidico prima dell’intervento sonb in grado di mantenere la perdita di peso.
Questi risultati dimostrano per la prima volta che il turnover lipidico nel tessuto adiposo regola le variazioni di peso tipiche dell’invecchiamento, in maniera indipendente da altri fattori. Già, ma come ‘risvegliare’ questi depositi di grasso ‘pigri’? Studi condotti in passato hanno dimostrato che una possibile strategia per velocizzare il turnover lipidico nel tessuto adiposo consiste nel fare più attività fisica.

Nat Med (IF=30.641) 25:1385,2019

L’INTEGRAZIONE CON VITAMINA D NON CONFERISCE PROTEZIONE CARDIOVASCOLARE

Studi osservazionali hanno riportato un’associazione tra bassi livelli plasmatici di vitamina D ed elevato rischio di eventi cardiovascolari (CVD), suggerendo che la supplementazione con vitamina D possa ridurre gli eventi. I ricercatori americani hanno pertanto condotto una meta-analisi su studi clinici randomizzati che hanno testato l’associazione tra supplementazione con vitamina D, eventi CVD e mortalità per tutte le cause. I criteri di inclusione erano studi clinici randomizzati che riportavano l’effetto della supplementazione di vitamina D a lungo termine (≥1 anno) su eventi CVD e mortalità per tutte le cause. Gli eventi avversi cardiovascolari maggiori sono stati l’endpoint primario; infarto miocardico, ictus o incidente cerebrovascolare, mortalità per CVD e mortalità per tutte le cause sono stati gli endpoint secondari. Sono stati inclusi 21 studi clinici randomizzati (inclusi 83.291 soggetti, di cui 41.669 hanno ricevuto vitamina D e 41.622 hanno ricevuto placebo). L’età media dei partecipanti era di 65.8 anni; 61.943 (74.4%) erano donne.
La supplementazione di vitamina D rispetto al placebo non ha ridotto gli eventi cardiovascolari maggiori (RR 1.00; IC 95% 0.95-1.06) né gli endpoint secondari di infarto miocardico (RR 1.00; IC 95% 0.93-1.08), ictus (RR 1.06; IC 95% 0.98-1.15), mortalità CVD (RR 0.98; IC 95% 0.90-1.07), o mortalità per tutte le cause (RR 0.97; IC 95% 0.93-1.02). I risultati erano generalmente coerenti per sesso, livello basale di 25 idrossivitamina D, dosaggio di vitamina D (dosaggio giornaliero vs bolo) e presenza o assenza di concomitante somministrazione di calcio.

JAMA Cardiol (IF=11.866) 2019 Jun 19. doi:10.1001/jamacardio.2019.1870.

INIBITORI DI PCSK9 NEI PAZIENTI CON MALATTIA RENALE CRONICA

La malattia renale cronica (CKD) è associata a un aumentato rischio di eventi cardiovascolari di tipo aterosclerotico (ASCVD). A spiegare questa associazione sono i numerosi fattori di rischio condivisi tra le due patologie, quali dislipidemia, diabete e ipertensione. Le più recenti linee guida per la gestione delle dislipidemie suggeriscono che la CKD sia considerata come una delle condizioni associate ad un rischio “alto” o “molto-alto” di sviluppare ASCVD, raccomandando il massimo impegno per raggiungere livelli di LDL colesterolo al di sotto di 55 o di 70 mg/dl anche in prevenzione primaria nei soggetti con CKD. Nei soggetti con malattia renale allo stadio terminale (ESRD) che richiedono emodialisi a lungo termine, le statine non hanno dimostrato la capacità di ridurre gli eventi cardiovascolari. Al contrario, i pazienti con insufficienza renale meno grave sembrano avere un consistente beneficio dalla terapia con statine. Nonostante ciò l’incidenza di eventi cardiovascolari complessivi rimane elevata. Inoltre, la ridotta funzionalità renale può rappresentare un fattore di rischio di effetti avversi correlati alle statine, come la miopatia. Per tali ragioni, l’utilizzo di terapie ipolipemizzanti di combinazione e la possibilità di raggiungere target di colesterolo LDL molto bassi, come strumento per ridurre più efficacemente il rischio di ASCVD tra i pazienti con CKD, è vista con favore.
Un’analisi secondaria dello studio FOURIER (Further Cardiovascular Outcomes Research with PCSK9 Inhibition in Subjects with Elevated Risk) ha valutato il potenziale beneficio del trattamento con inibitori di PCSK9 (PCSK9i), per ridurre il rischio cardiovascolare nei pazienti con ASCVD e CKD. Dei 27.554 partecipanti allo studio, 15.034 (55%) avevano CKD in stadio 2 (meno grave), 4.443 avevano CKD in stadio ≥3 (16%) e 208 pazienti avevano CKD in stadio 4. 8.077 pazienti avevano una funzionalità renale normale. L’endpoint prespecificato era il composito di morte cardiovascolare, infarto miocardico, ictus o ospedalizzazione per angina o rivascolarizzazione.

I pazienti con insufficienza renale cronica più grave presentano un’incidenza di eventi più elevata, con un rischio più alto del 36% in quelli con CKD in stadio ≥3 rispetto a quelli con normale funzionalità renale. Il beneficio della terapia con evolocumab è simile tra pazienti con diversi stadi di CKD: -18% nei pazienti con funzionalità renale normale, -15% nei pazienti con CKD in stadio 2, -11% in pazienti con CKD in stadio ≥3. Tuttavia, la terapia con evolocumab non ha influenzato la perdita nel tempo della funzionalità renale.

J Am Coll Cardiol (IF=18.639) 73:2961,2019

LA CUCINA WALSER

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

La cucina Walser è una cucina montanara che, durante i secoli, ha recepito più di una influenza dal Piemonte e dalla Lombardia, dovute agli scambi con derrate alimentari della pianura; nondimeno, è riuscita a mantenere la capacità di sfruttare a fondo i prodotti del proprio territorio e di conservare le tradizioni antiche. I Walser, popolazione di origine germanica, si sono insediati nelle regioni montane circostanti il massiccio del Monte Rosa intorno al VII secolo. Accanto alle architetture delle case aventi caratteristiche ancora oggi facilmente identificabili, essi hanno lasciato una traccia ben definita anche nella cucina. Chi è stato in Valsesia avrà sicuramente assaggiato la miaccia ovvero miljntscha, un pane di farina di segale che come tutti i pani semplici montanari, viene cotto direttamente sulla brace con testi di ghisa. I chneffene, bocconcini di pastella di farina e latte cotti in acqua bollente, vengono conditi con cipolla stufata e panna. I chnolle sono gnocchetti di grano cotti in brodo di maiale e serviti con salumi. La bischt turtu o torta delle vacche è particolarissima: viene confezionata con il colostro destinato ai vitellini e con farina di mais, segale e aromatizzata con fiori di camomilla. Ricca di sostanze nutritive era considerata una leccornia destinata a poche feste. Nodle und trifla è la pasta alla tedesca cioè pasta corta con patate, cipolle, pancetta e formaggio, ai più conosciuta come pasta di Macugnaga dove viene ancora oggi cucinata.

L’INTERRUZIONE DELLA STATINA AUMENTA IL RISCHIO DI EVENTI CARDIOVASCOLARI ANCHE NELL’ANZIANO

La somministrazione di statine in prevenzione primaria nel paziente ultrasettantacinquenne è oggetto di grande dibattito. Infatti, le evidenze disponibili sono molto limitate e non consentono di formulare chiare raccomandazioni a favore o contro questo trattamento. Ricercatori francesi hanno analizzato una coorte di soggetti settantacinquenni che assumevano una terapia con statina in prevenzione primaria, al fine di indagare gli effetti dell’interruzione del trattamento sugli outcome cardiovascolari. Lo studio è stato condotto a partire da database del servizio sanitario nazionale francese, arruolando tutti i soggetti che avevano compiuto i 75 anni nel periodo 2012-2014, che non avevano una storia di malattia cardiovascolare e che hanno assunto il farmaco per oltre l’80% del tempo in ciascuno dei due anni precedenti. Il trattamento con statina è stato considerato interrotto in caso di sospensione dell’esposizione per almeno tre mesi consecutivi. L’outcome dello studio era rappresentato dall’ospedalizzazione per eventi cardiovascolari. Nello studio sono stati arruolati 120.173 soggetti, seguiti in follow-up per un periodo medio di 2.4 anni. Tra questi, 17.204 (14.3%) avevano interrotto il trattamento e 5396 (4.5%) erano stati ricoverati per eventi cardiovascolari. L’interruzione del trattamento con statine era associato a un aumento del rischio cardiovascolare, dopo aggiustamento per fattori confondenti), del 33% per tutti gli eventi (95% CI 1.18–1.50), del 46 % per gli eventi coronarici (95% CI 1.21–1.75) e del 26% per gli eventi cerebrovascolari (95% CI 1.05–1.51).

In futuro, studi randomizzati dovranno confermare questi dati e fornire indicazioni più chiare relativamente alla somministrazione di statine in prevenzione primaria nel paziente anziano.

Eur Heart J (IF=24.889) 2019 Jul 30. doi: 10.1093/eurheartj/ehz458

LO YOGURT

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Lo yogurt è un particolare alimento che si ottiene attraverso la fermentazione del latte. Per tale processo si utilizzano dei ceppi selezionati di S. thermophilus e L. bulgaricus con la concentrazione minima di 107 CFU/g (dieci milioni di unità formanti colonie per grammo di prodotto). Spesso vengono aggiunti ulteriori ceppi: i più utilizzati sono Lactobacillus casei e Bifidobacteria. Questi microrganismi provocano l’acidificazione del lattosio e la coagulazione delle proteine (caseine) in piccoli fiocchi, conferendo così al prodotto l’aspetto denso e cremoso. Lo yogurt prodotto da latte intero ha un apporto calorico di 65Kcal. per 100 grammi, le proteine sono di buon valore biologico e raggiungono i 3.5 grammi, mentre i grassi i 3.8 grammi. I prodotti in commercio hanno valori nutrizionali diversi, a seconda se si è aggiunta o meno frutta oppure zuccheri, talvolta vengono addizionate proteine in polvere aumentando così il valore a 5.5 grammi. Si può produrre lo yogurt in casa facilmente impiegando un piccolo quantitativo di yogurt (starter) o fermenti acquistati. Il latte deve essere leggermente intiepidito per facilitare l’acidificazione e mischiato con i fermenti. Si copre il tutto con un panno lasciando un piccolo spiraglio per lasciare passare un po’ di aria, dopo 12 ore si filtra lo yogurt con un colino dove rimangono i fermenti che conservati in frigorifero al massimo per 2 o 3 giorni posso essere riutilizzati di nuovo come madre di nuovo identico prodotto.

DOMANDE E RISPOSTE SULLA VITAMINA D

1. Cos’è la vitamina D?
La vitamina D è un pro-ormone liposolubile prodotto a livello della cute per azione dei raggi ultravioletti B (UVB). L’esposizione solare rappresenta la principale sorgente naturale di vitamina D, tuttavia, essa può essere assunta anche con gli alimenti.

2. Che ruolo svolge nel corpo umano?
Il principale ruolo della vitamina D è quello di regolare l’assorbimento intestinale di calcio e fosforo, favorendo la normale formazione e mineralizzazione dell’osso. Inoltre, la vitamina D è coinvolta nel processo che garantisce una normale contrattilità muscolare nonché interagisce con il sistema immunitario esercitando un effetto immunomodulante.

3. Cosa comporta una carenza di vitamina D?
In molte persone la carenza di vitamina D è del tutto asintomatica. Una grave carenza determina il rachitismo nei bambini e l’osteomalacia negli adulti. Inoltre, condizioni di ipovitaminosi D possono portare anche a riduzione della forza muscolare e dolori diffusi.

4. Come si può valutare la disponibilità di vitamina D nel corpo umano?
Il dosaggio della vitamina D nella forma 25(OH)D sierica rappresenta il metodo più accurato per stimare lo stato di riserva di vitamina D nell’organismo.

5. Quando è necessario eseguire il dosaggio di vitamina D?
Il dosaggio deve essere eseguito solo in presenza di specifiche condizioni di rischio, su indicazione del medico. Il dosaggio della vitamina D [dosaggio della 25(OH)D] esteso alla popolazione generale è inappropriato.

6. Quali sono i valori “normali” di vitamina D?
I valori desiderabili di 25(OH)D sono compresi tra 20 e 40 ng/mL. Infatti, per valori superiori ai 20 ng/mL si considera garantita l’efficacia per gli esiti scheletrici, mentre per valori inferiori ai 40 ng/mL si considera garantita la sicurezza, non essendo documentati rischi aggiuntivi.
Una condizione di “carenza” di vitamina D è individuata per valori di 25(OH)D inferiori a 20 ng/mL. Pertanto, per valori di 25(OH)D < 20 ng/mL è giustificato l’inizio della supplementazione di vitamina D. Il controllo sistematico dei livelli di 25(OH)D non è raccomandato.

7. Quali sono le fonti naturali di vitamina D?
L’efficace esposizione alla luce solare e l’apporto dietetico di vitamina D rappresentano i principali fattori che determinano i livelli sierici di 25(OH)D.
ESPOSIZIONE SOLARE
L’esposizione solare rappresenta il meccanismo principale di produzione di vitamina D nell’essere umano. Un’esposizione solare regolare rappresenta il modo più naturale ed efficace per un’adeguata produzione endogena di vitamina D. Fattori che possono influenzare la capacità di produrre vitamina D a seguito dell’esposizione alla luce solare (raggi UVB) includono l’ora del giorno, la stagione, il colore della pelle, la quantità di pelle esposta alla luce solare, il tempo di esposizione, nonché l’utilizzo di protezione solare. In generale le persone con pelle più scura potrebbero aver bisogno di un tempo di esposizione più prolungato rispetto a persone con carnagione chiara. Il tempo di esposizione dipende dalla sensibilità della pelle alla luce solare, assicurandosi di evitare scottature.
APPORTO ALIMENTARE
La maggior parte degli alimenti contiene scarse quantità di vitamina D, pertanto la sola alimentazione non può esserne considerata una fonte adeguata. La vitamina D è relativamente stabile e viene alterata poco da conservazione e cottura. Ecco una lista di alimenti con corrispondente contenuto di vitamina D espresso o in UI/100g o in UI/L.
Latte e latticini. Latte vaccino: 5-40 UI/L. Latte di capra 5-40 UI/L. Burro 30 UI/100g. Yogurt 2.4 UI/100g. Panna 30 UI/100g. Formaggi 12-40/100g.
Altri alimenti. Maiale 40-50 UI/100g. Fegato di manzo 40-70 UI/100g. Dentice, merluzzo, orata, palombo, sogliola, trota, salmone, aringhe 300-1500/100g. Olio di fegato di merluzzo 400 UI/5ml (1 cucchiaino da the). Tuorlo d’uovo 20 UI/100g.

8. In quali casi è previsto l’utilizzo di vitamina D per prevenirne o trattarne la carenza?
L’utilizzo di vitamina D, indipendentemente dalla misurazione della 25(OH)D, è previsto:
• negli anziani ospiti delle residenze sanitario-assistenziali
• nelle donne in gravidanza o in allattamento
• nelle persone affette da osteoporosi da qualsiasi causa o osteopatie accertate per cui non è indicata una terapia remineralizzante.
L’utilizzo previa misurazione della 25(OH)D è previsto:
• nelle persone con livelli sierici di 25(OH)D < 20 ng/mL e sintomi attribuibili a ipovitaminosi (astenia, mialgie, dolori diffusi o localizzati, frequenti cadute immotivate)
• nelle persone con diagnosi di iperparatiroidismo secondario a ipovitaminosi D
• nelle persone affette da osteoporosi di qualsiasi causa o osteopatie accertate per le quali la correzione dell’ipovitaminosi dovrebbe essere propedeutica all’inizio della terapia remineralizzante.
• in caso di una terapia di lunga durata con farmaci interferenti col metabolismo della vitamina D (antiepilettici, glucocorticoidi, antiretrovirali, antimicotici, ecc.).
• in caso di malattie che possono causare malassorbimento nell’adulto (fibrosi cistica, celiachia, morbo di Crohn, chirurgia bariatrica ecc.).

9. Perché è importante attenersi alla corretta posologia? Quali effetti sfavorevoli sulla salute può provocare un eccesso di vitamina D? Perché è sempre importante rivolgersi al medico prima di assumere farmaci a base di vitamina D? La vitamina D è liposolubile e pertanto tende ad accumularsi nell’organismo umano. L’assunzione per lunghi periodi ad alte dosi, può provocare effetti gravi per la salute, ad esempio ipercalcemia e nefrolitiasi (calcolosi renale), nonché aumentare il rischio di fratture nei mesi successivi alla somministrazione di boli di vitamina D e il rischio di alcune neoplasie nelle popolazioni con livelli di 25(OH)D > 40-50 ng/mL. Per tali motivi è sempre importante rivolgersi al medico prima di assumere farmaci a base di vitamina D e attenersi alla corretta posologia prescritta. Inoltre, è necessario ricordare che il sovradosaggio di vitamina D durante i primi 6 mesi di gravidanza può avere effetti tossici nel feto e pertanto anche in questo caso l’assunzione di tali medicinali non può prescindere dalla prescrizione medica.

10. In quali casi l’assunzione di vitamina D si è rivelata inefficace? Le evidenze scientifiche disponibili indicano come la somministrazione di vitamina D per la prevenzione cardiovascolare e cerebrovascolare e per la prevenzione dei tumori sia inefficace e, pertanto, inappropriata.

11. I medicinali a base di vitamina D possono essere acquistati senza prescrizione del medico? No, tali medicinali necessitano di prescrizione medica in quanto il medico curante deve essere a conoscenza dell’assunzione di tali farmaci in considerazione dei possibili eventi avversi.

Fonte: AIFA (Agenzia Italiana dal Farmaco)

SMETTERE DI FUMARE DOPO UN EVENTO CARDIOVASCOLARE RIDUCE NOTEVOLMENTE IL RISCHIO DI RECIDIVE E LA MORTALITÀ DA TUTTE LE CAUSE

Questo studio ha analizzato la relazione tra interruzione del fumo, rischio di recidive e mortalità in pazienti con un precedente evento cardiovascolare. Nello studio sono stati inclusi 4673 pazienti che avevano avuto un evento cardiovascolare nei precedenti 12 mesi; l’età media era di 61 ± 8.7 anni. Tra i pazienti arruolati, un terzo dei soggetti fumatori ha smesso di fumare dopo l’evento. Durante il follow-up, di durata mediana pari a 7.4 anni, 794 pazienti sono deceduti e 692 hanno avuto una recidiva cardiovascolare. Rispetto ai pazienti che hanno continuato a fumare, quelli che hanno smesso hanno mostrato un minor rischio di recidive cardiovascolari (HR 0.66, 95% CI 0.49–0.88) e di mortalità da tutte le cause (HR 0.63, 95% CI 0.48–0.82). Di conseguenza, i pazienti che hanno smesso di fumare hanno vissuto in media 5 anni di più e sono andati incontro a un secondo evento cardiovascolare 10 anni più tardi. Un miglioramento della sopravvivenza è stato osservato anche nei pazienti che avevano avuto il primo evento a un’età >70 anni. Pertanto, smettere di fumare dopo un evento cardiovascolare, indipendentemente dall’età del primo evento, riduce significativamente le recidive cardiovascolari e la mortalità. La riduzione delle recidive è più marcata di quella osservata con qualunque altro trattamento farmacologico dei fattori di rischio, per cui lo stop al fumo dovrebbe essere considerato un obiettivo fondamentale del trattamento di tutti i pazienti cardiovascolari.

Am Heart J (IF=4.023) 213:112,2019

LIVELLI ELEVATI DI LDL-COLESTEROLO E MALATTIA DI ALZHEIMER A ESORDIO PRECOCE

La malattia di Alzheimer a esordio precoce (EOAD) è una rara forma di AD che si presenta prima dei 65 anni di età, le cui basi genetiche sono ancora ampiamente sconosciute. Meno del 10% dei pazienti con EOAD presenta mutazioni note associate ad AD, quali mutazioni della proteina precursore dell’amiloide (APP) e della presenilina 1 (PSEN1) e 2 (PSEN2). È noto che elevati livelli di colesterolo in età adulta si associano a un aumento del rischio di AD a esordio senile, anche dopo aggiustamento per l’allele E4 dell’apolipoproteina E (APOE E4), gene che rappresenta un fattore di rischio sia per AD che per ipercolesterolemia LDL. Non è chiaro invece se i livelli di colesterolo influenzino anche il rischio di EOAD. Lo studio che proponiamo oggi ha analizzato 2125 soggetti arruolati nel periodo gennaio 1984 – dicembre 2015, di cui 654 pazienti con EOAD (età media 55.6±4.3 anni, vs 72.0±9.6 anni per i controlli). Dopo aggiustamento per l’allele APOE E4, i pazienti con EOAD presentavano livelli più elevati di colesterolo totale (differenza 21.9±5.2 mg/dL), colesterolo-LDL (differenza 22.0±4.5 mg/dL) e ApoB (differenza 12.0±2.4 mg/dL) rispetto ai controlli. Circa il 3% dei pazienti con EOAD era portatore di mutazioni note associate ad AD. I test finalizzati a indagare varianti genetiche più rare, condotti su 2066 campioni, hanno mostrato che varianti rare di APOB erano significativamente più frequenti nei pazienti con AD precoce rispetto ai controlli. Questi dati suggeriscono quindi un ruolo significativo del colesterolo-LDL nella patogenesi dell’EOAD e sembrano indicare una connessione diretta tra varianti genetiche del gene APOB e rischio di AD.

JAMA Neurol (IF=12.321) 76:809,2019

PERCHÉ LIMITARE IL CONSUMO DI BEVANDE ZUCCHERATE (SOFT DRINKS)?

Le bevande analcoliche, addolcite con zucchero o dolcificanti artificiali, aumentano la mortalità. È quanto emerge da un’analisi dei dati di uno studio multinazionale, l’European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition (EPIC), che ha seguito più di 400.000 adulti europei di 10 diversi Paesi per oltre 16 anni. I ricercatori hanno analizzato le abitudini alimentari di ciascun individuo, incluso il consumo di bevande analcoliche, all’inizio del periodo di osservazione. Dopo l’esclusione degli individui con patologie pregresse come tumori, cardiopatie e diabete, i ricercatori hanno valutato 451.743 soggetti (71.1% donne), età media al reclutamento di 50.8 anni. Durante il follow-up di 16.4 anni, 41.693 partecipanti sono deceduti.
La mortalità per tutte le cause è più elevata del 17% nei soggetti che bevono più di 2 bicchieri al giorno di bevande zuccherate, rispetto a coloro che bevono meno di un bicchiere al mese. In particolare aumenta del 52% la mortalità per malattie cardiovascolari e del 59% la mortalità per malattie digestive.
Questi risultati forniscono un ulteriore supporto alla limitazione del consumo di bevande zuccherate e alla loro sostituzione con altre bevande più salutari.

JAMA Intern Med (IF=20.768) 3 Sep 2019. doi: 10.1001/jamainternmed.2019.2478