STENOSI AORTICA NELL’IPERCOLESTEROLEMIA FAMILIARE

La stenosi della valvola aortica (SA) è la malattia valvolare cardiaca più comune. Livelli elevati di colesterolo-LDL (LDL-C) sono un fattore di rischio per lo sviluppo della malattia, ma il trattamento ipolipemizzante non sembra impedirne la progressione. L’importanza del LDL-C nello sviluppo della SA rimane quindi poco chiara. I pazienti con ipercolesterolemia familiare (FH) hanno livelli molto elevati di LDL-C dalla nascita fino all’inizio del trattamento ipolipemizzante. Pertanto, l’FH può servire come malattia-modello per studiare l’importanza del LDL-C nello sviluppo della SA.
A tal proposito ricercatori norvegesi hanno voluto confrontare l’incidenza di SA in tutti i pazienti con FH geneticamente diagnosticata in Norvegia con l’incidenza nella popolazione norvegese totale (circa 5 milioni di persone). Lo studio è basato sul registro norvegese dei pazienti con FH, esaminando i soggetti con riscontro di SA per la prima volta tra il 2001 e il 2009. In totale, sono stati riscontrati 53 casi di SA in 3.161 persone (1.473 uomini [46.6%]) con FH durante 18.300 persone-anni di follow-up. L’età media al momento dell’inclusione e al momento del riscontro di SA era di 39.9 anni (intervallo 8-91 anni) e 65.0 anni (intervallo 44-88 anni), rispettivamente. Il rapporto di incidenza di SA tra pazienti FH e popolazione generale è stato di 7.9 (95%CI 6.1-10.4) per uomini e donne combinati, 8.5 (95%CI 5.8-12.4) nelle donne e 7.4 (95%CI 5.0-10.9) negli uomini, indicando quindi un marcato aumento del rischio di SA nei pazienti FH rispetto alla popolazione generale, e corroborando il ruolo del LDL-C nello sviluppo della malattia.

JAMA Cardiol (IF=11.866) 4:1156,2019

MICRO-RNA NELL’IPERCOLESTEROLEMIA FAMILIARE

Dalla Dottoranda del Centro, co-autrice della pubblicazione, Chiara Pavanello

L’ipercolesterolemia familiare, come è già stato ricordato più volte su questa pagina, rappresenta una condizione ad alto rischio cardiovascolare, la cui espressione può essere molto variabile tra soggetto e soggetto. È pertanto rilevante dal punto di vista della gestione del paziente identificare fattori che possono modificare l’espressione clinica della malattia.
I microRNA (miRNA) sono piccoli frammenti di RNA non codificante in grado di regolare la produzione di centinaia di proteine del nostro organismo, modulando quindi le funzioni delle nostre cellule sia in senso protettivo che patogenetico. Alcuni di essi hanno un ruolo rilevante nella patogenesi dell’aterosclerosi.
Il Centro ha collaborato con il gruppo del Prof. Purrello del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Catania nell’analizzare l’espressione di una serie di miRNA in un gruppo di 138 pazienti con diagnosi genetica di ipercolesterolemia familiare eterozigote. I pazienti sono stati suddivisi in base alla mutazione del recettore-LDL (causa della malattia): “nulla”, che corrisponde al fenotipo più grave, poiché il recettore è del tutto assente, o “difettiva”, quando il recettore mantiene una parziale attività. Mentre l’espressione di alcuni miRNA è simile in entrambi i gruppi, i miRNA-486 e miR-92a sono maggiormente espressi nei pazienti con mutazione nulla rispetto a quelli con mutazione difettiva. I pazienti con malattia cardiovascolare e con mutazioni nulle (cioè i fenotipi più gravi) presentano livelli di miR-486 e miR-92a più elevati rispetto al gruppo con mutazione difettiva (cioè il fenotipo più lieve). I livelli di questi due miRNA si associano poi a un indice di rigidità arteriosa, la “pulse wave velocity”, a suggerire quindi una relazione con il grado di aterosclerosi.
La funzione di questi miRNA è ancora incerta, ma altri ricercatori hanno dimostrato un ruolo nella regolazione di alcune funzioni delle HDL e nella promozione di alcune attività proaterogene (come l’accumulo di colesterolo nei macrofagi). Ulteriori studi sono necessari per valutare la capacità predittiva dei miRNA per gli eventi cardiovascolari, ma i risultati di questo studio suggeriscono che essi possano rappresentare un nuovo possibile biomarker di rischio nei soggetti con ipercolesterolemia familiare.

https://www.nature.com/articles/s41598-019-56857-2

LIVELLI ELEVATI DI LDL-COLESTEROLO E MALATTIA DI ALZHEIMER A ESORDIO PRECOCE

La malattia di Alzheimer a esordio precoce (EOAD) è una rara forma di AD che si presenta prima dei 65 anni di età, le cui basi genetiche sono ancora ampiamente sconosciute. Meno del 10% dei pazienti con EOAD presenta mutazioni note associate ad AD, quali mutazioni della proteina precursore dell’amiloide (APP) e della presenilina 1 (PSEN1) e 2 (PSEN2). È noto che elevati livelli di colesterolo in età adulta si associano a un aumento del rischio di AD a esordio senile, anche dopo aggiustamento per l’allele E4 dell’apolipoproteina E (APOE E4), gene che rappresenta un fattore di rischio sia per AD che per ipercolesterolemia LDL. Non è chiaro invece se i livelli di colesterolo influenzino anche il rischio di EOAD. Lo studio che proponiamo oggi ha analizzato 2125 soggetti arruolati nel periodo gennaio 1984 – dicembre 2015, di cui 654 pazienti con EOAD (età media 55.6±4.3 anni, vs 72.0±9.6 anni per i controlli). Dopo aggiustamento per l’allele APOE E4, i pazienti con EOAD presentavano livelli più elevati di colesterolo totale (differenza 21.9±5.2 mg/dL), colesterolo-LDL (differenza 22.0±4.5 mg/dL) e ApoB (differenza 12.0±2.4 mg/dL) rispetto ai controlli. Circa il 3% dei pazienti con EOAD era portatore di mutazioni note associate ad AD. I test finalizzati a indagare varianti genetiche più rare, condotti su 2066 campioni, hanno mostrato che varianti rare di APOB erano significativamente più frequenti nei pazienti con AD precoce rispetto ai controlli. Questi dati suggeriscono quindi un ruolo significativo del colesterolo-LDL nella patogenesi dell’EOAD e sembrano indicare una connessione diretta tra varianti genetiche del gene APOB e rischio di AD.

JAMA Neurol (IF=12.321) 76:809,2019

L’IPERCOLESTEROLEMIA È UN FATTORE DI RISCHIO PER LA SLA

La SLA (sclerosi laterale amiotrofica) è una malattia degenerativa progressiva che colpisce i motoneuroni cerebrali e del midollo spinale che controllano il movimento muscolare volontario, compromettendo il movimento degli arti, la fonazione, la deglutizione. La SLA colpisce circa 5000 persone in Italia. Attualmente non esiste alcuna cura della SLA, ma vari fattori sono stati associati al suo sviluppo, come alcuni geni, lo stile di vita, i traumi e l’attività sportiva.
Lo studio che vi proponiamo oggi ha utilizzato la tecnica della randomizzazione mendeliana, che permette di valutare la relazione causale tra polimorfismi genetici che alterano variabili fenotipiche e rischio di malattia. Questa tecnica di analisi elimina i fattori confondenti e permette di studiare l’effetto predisponente a una malattia dell’esposizione a variabili genetiche-fenotipiche per l’intera vita dell’individuo, e non per un periodo limitato.
Le analisi sono state condotte su 20.806 casi di SLA e 59.804 controlli, e hanno esaminato 10.031.630 varianti geniche associate a 889 ‘tratti’, che includono un’ampia gamma di caratteristiche fisiologiche e di fenotipi di malattia. Ciascun tratto è stato analizzato separatamente per determinare la relazione causale con l’insorgenza di SLA.
Questa analisi metodologicamente molto complessa ha rivelato che elevati livelli di LDL-colesterolo sono un fattore di rischio indipendente per la SLA, e aumentano del 7.5% la probabilità di sviluppare la malattia. Il fumo di sigaretta e un’intensa attività fisica sono pure fattori di rischio per la SLA, mentre un’attività fisica moderata e un maggiore livello di istruzione sono fattori protettivi per la malattia.

Ann Neurol (IF=10.250) 2019 Feb 5. doi:10.1002/ana.25431.

 

RISCHIO CARDIOVASCOLARE NEI PAZIENTI CON IPERCOLESTEROLEMIA FAMILIARE (ETEROZIGOTE) TRATTATI CON STATINA

Lo studio che vi proponiamo oggi si è proposto di valutare il rischio di infarto miocardico acuto (AMI) e malattia coronarica (CHD) in pazienti con FH, confrontandolo con quello della popolazione generale. Tutti i pazienti con FH geneticamente diagnosticata in Norvegia sono inclusi nel Registro nazionale UCCG (Unit for Cardiac and Cardiovascular Genetics); il registro include 4273 pazienti, di cui 8 omozigoti. Quelli diagnosticati nel periodo 2001-2009, non affetti da AMI o CHD sono stati inclusi nel campione di studio. La coorte complessiva includeva 2795 pazienti con FH senza CHD e 3071 pazienti con FH senza AMI. L’età media al momento della diagnosi genetica era di 32.7 anni. L’89.1% seguiva una terapia ipocolesterolemizzante, generalmente con statine.
L’età media del primo evento (AMI o CHD) è stata rispettivamente di 56.2 e 55.1 anni.
Il rischio di sviluppare un AMI è 2.3 volte superiore nei pazienti FH (identico per maschi e femmine), rispetto alla popolazione generale. È più elevato nella fascia d’età 25-39 anni, di 7.5 volte (CI 3.7-14.9) negli uomini e di 13.6 volte (CI 5.1-36.2) nelle donne, per poi diminuire con l’età (Figura).

Il rischio di sviluppare CHD è più elevato nelle pazienti FH (4.7 volte, CI 3.9-5.7, rispetto alla popolazione generale che nei maschi FH (4.2 volte, CI 3.6-5.0). Anche in questo caso, il rischio è più elevato nei pazienti giovani e diminuisce con l’età.

Lo studio ha quindi confermato l’aumento del rischio di AMI e CHD nei pazienti FH rispetto alla popolazione generale, particolarmente marcato nei pazienti più giovani. Data la natura genetica della malattia, l’effetto dell’FH sui vasi si estrinseca sin dalla giovane età, con esposizione a livelli elevati di colesterolo e consistente aumento del rischio cardiovascolare. È da notare che l’età media della diagnosi genetica nei pazienti esaminati era di 32,7 anni; se ne può dedurre che essi non siano stati adeguatamente trattati per almeno due decenni. Questi dati ribadiscono la necessità di una diagnosi precoce, e di un avvio tempestivo del trattamento ipocolesterolemizzante.

Heart (IF=5.42) 104:1600, 2018

GRUPPO ITALIANO PAZIENTI FH

Il Gruppo Italiano Pazienti FH, GIP-FH, costituito in associazione l’otto giugno 2015, ha come missione principale quella di garantire gli interessi dei pazienti malati di ipercolesterolemia familiare tramite la promozione di attività di informazione ed educazione mirate a incrementare e diffondere la conoscenza della patologia e delle terapie e trattamenti disponibili per la sua cura.

Per questo scopo l’associazione si propone di:
promuovere attività e progetti di ricerca scientifica focalizzati all’indagine delle cause, del trattamento e della terapia dell’ipercolesterolemia familiare e delle patologie ad essa collegate;
contribuire alla divulgazione delle problematiche relative all’ipercolesterolemia familiare, tramite attività educative e campagne informative e di sensibilizzazione, a livello dell’opinione pubblica e delle autorità istituzionali;
promuovere la diagnosi precoce dell’ipercolesterolemia familiare e della sua prevenzione attraverso l’informazione e l’identificazione di centri specializzati nella diagnosi e nel trattamento terapeutico delle dislipidemie familiari;
collaborare con altre associazioni e gruppi scientifici, in Italia ma anche a livello europeo ed internazionale, attivi nel campo delle dislipidemie familiari e che condividono gli scopi della nostra associazione;
promuovere attività educative e formative, rivolte a personale qualificato medico e paramedico e mirate al miglioramento dell’assistenza dei malati di ipercolesterolemia familiare.

www.gip-fh.it

ALIROCUMAB È EFFICACE ANCHE NELLA DISLIPIDEMIA DIABETICA

La classica triade lipidica nei pazienti diabetici è caratterizzata da bassi valori di HDL colesterolo (HDL-C), elevati valori di trigliceridi e spesso valori di LDL colesterolo (LDL-C) nella norma. In tempi recenti si è affermato l’uso del colesterolo non-HDL (colesterolo totale – HDL-C) come parametro per valutare l’efficacia di una terapia ipolipemizzante nei pazienti diabetici; considerando che il colesterolo non-HDL è indicato peraltro come obiettivo secondario dalle linee guida ESC/EAS 2016 nella dislipidemia diabetica.
In questo studio gli autori hanno arruolato 413 pazienti diabetici di tipo 2 ad alto rischio cardiovascolare, con dislipidemia mista non adeguatamente controllata nonostante terapia con statine ad alte dosi (colesterolo non-HDL ≥100 mg/dl e trigliceridemia ≥150 mg/dl ma <500 mg/dl). I pazienti, suddivisi in due gruppi, ricevevano, oltre alla massima dose di statina tollerata, Alirocumab, l’anticorpo monoclonale contro PCSK9, o una terapia standard (TS) che poteva comprendere vari farmaci (fenofibrato, ezetimibe, acidi grassi omega3, acido nicotinico).

Dopo 24 settimane, nei pazienti in terapia con Alirocumab il colesterolo non-HDL si è ridotto in media del 32.5% rispetto ai pazienti in TS. Una significativa differenza è stata osservata anche per colesterolo totale (-24.6%), LDL-C (-43,0%), apolipoproteina B (-32,3%) e numero di particelle LDL (-37,8%). La trigliceridemia si è ridotta in entrambi i gruppi di pazienti. Non è stata osservata nessuna variazione significativa dei valori di emoglobina glicata e in entrambi i gruppi non è stato necessario un aggiustamento della terapia ipoglicemizzante.
Gli autori concludono che Alirocumab è superiore alle terapie convenzionali nel ridurre il colesterolo non-HDL.

Diabetes Obes Metab (IF=6.715) 20:1479,2018

ANCHE UN COLESTEROLO-HDL MOLTO ALTO NON FA PROPRIO BENE!

I grandi studi epidemiologici degli anni ‘60-‘80 dimostrano l’esistenza di un’associazione inversa tra la concentrazione di colesterolo-HDL (HDL-C) nel sangue e malattia cardiovascolare e mortalità. Più è basso il valore di HDL-C, maggiore è il rischio di malattie cardiovascolari e morte. D’altro canto, più è elevato il valore di HDL-C, minore è il rischio (di qui la nozione di “colesterolo buono”). Tuttavia, studi più recenti condotti in soggetti con polimorfismi genetici che determinano concentrazioni elevate di HDL-C hanno paradossalmente riscontrato un aumento del rischio cardiovascolare. La relazione tra HDL-C elevato e mortalità rimane quindi poco chiara. Una risposta chiarificatrice (e definitiva?) viene da uno studio danese, che ha analizzato l’associazione tra valori elevati di HDL-C e mortalità da tutte le cause in 52268 uomini e 64240 donne arruolati in due grandi studi prospettici di popolazione – il Copenhagen City Heart Study e il Copenhagen General Population Study.

I ricercatori hanno così dimostrato che, in entrambi i sessi, esiste una relazione a U tra valori di HDL-C e mortalità da tutte le cause: se, come atteso, valori ridotti di HDL-C si associavano a un’elevata mortalità, lo stesso valeva anche per valori elevati di HDL-C (Figura 1). La concentrazione di HDL-C associata al più basso tasso di mortalità era di 54-77 mg/dl nei maschi e di 69-97 mg/dl nelle femmine. La mortalità aumentava del 36% e 106% nei maschi con HDL-C di 97-115 mg/dl e con HDL-C>115 mg/dl, e del 10% e 68% nelle femmine con HDL-C di 116-134 mg /dl e con HDL-C>134 mg/dl.

 

Un’analisi successiva sugli stesi dati ha dimostrato che valori ridotti ed elevati di HDL-C si associano a un’aumentata incidenza di malattie infettive (Figura 2).

 

 

Come sempre avviene in epidemiologia, l’esistenza di un’associazione tra due variabili (HDL-C e mortalità, o malattie infettive in questo caso) non necessariamente implica una relazione causa-effetto tra le stesse variabili. In altre parole, non è detto che valori molto ridotti o molto elevati di HDL-C causino un aumento della mortalità e delle malattie infettive. L’ipotesi meccanicistica più semplicistica a sostegno di una relazione causa-effetto tra HDL-C e malattie cardiovascolari (e di conseguenza mortalità totale) deriva da studi sperimentali che dimostrano come le HDL perdano in parte le proprietà “cardioprotettive” quando la loro concentrazione nel sangue diminuisce o aumenta in modo importante. Che questo valga anche per protezione dalle malattie infettive (contribuendo così anche all’aumento della mortalità totale) rimane da dimostrare.

Eur Heart J (IF=20.212) 21 Aug e 8 Dec, 2017

MALATTIE GENETICHE DELLE HDL – DEFICIT DI LCAT

La lecitina:colesterolo aciltransferasi (LCAT) è una glicoproteina di 416 aminoacidi, sintetizzata nel fegato e secreta nel plasma, dove catalizza la reazione di esterificazione del colesterolo. L’LCAT trasferisce l’acido grasso in sn-2 della lecitina all’ossidrile in 3 del colesterolo, con formazione di colesterolo esterificato e lisolecitina. Circa il 75% del colesterolo plasmatico è in forma esterificata, che deriva quasi interamente dall’azione dell’LCAT. L’LCAT gioca anche un ruolo fondamentale nella maturazione delle HDL, e contribuisce a determinarne composizione, struttura, metabolismo e concentrazione plasmatica.

Nell’uomo, il gene che codifica per l’LCAT è localizzato sul cromosoma 16 (regione 16q22). Sono state identificate quasi 100 diverse mutazioni nel gene LCAT (www.lcat.it), che in omozigosi causano due malattie rare delle HDL: Familial LCAT Deficiency (FLD, OMIM# 245900) e Fish-Eye Disease (FED, OMIM# 136120), entrambe caratterizzate da livelli plasmatici di HDL fortemente ridotti (ipoalfalipoproteinemia). Nei pazienti con FLD, l’LCAT non viene sintetizzato o è completamente inattivo, e la quasi totalità del colesterolo plasmatico è in forma non esterificata. L’accumulo di colesterolo non esterificato in vari tessuti è responsabile delle manifestazioni cliniche, che includono opacità corneale progressiva (figura), anemia e glomerulosclerosi focale, che progredisce rapidamente a insufficienza renale (dalla terza-quarta decade d’età), con necessità di terapia emodialitica ed eventualmente trapianto renale. Nei pazienti con FED, l’attività dell’LCAT è parzialmente ridotta e la concentrazione di colesterolo esterificato nel plasma è solo lievemente diminuita rispetto alla norma. Il fenotipo clinico è generalmente meno grave che nei casi di FLD. Nonostante la grave ipoalfalipoproteinemia, i pazienti con FLD, ma non quelli con FED, non sembrano esposti a un elevato rischio cardiovascolare.

MALATTIE GENETICHE DELLE HDL – DEFICIT DI ABCA1 (MALATTIA DI TANGIER)

Esistono due gruppi di malattie genetiche rare a carico del sistema HDL: l’ipoalfalipoproteinemia familiare, caratterizzata da una riduzione o completa assenza di HDL nel sangue, e l’iperalfalipoproteinemia familiare, caratterizzata invece da marcato aumento delle HDL nel sangue. Entrambe sono geneticamente eterogenee, causate cioè da mutazioni in geni diversi, che codificano per proteine coinvolte nel metabolismo delle HDL.

Il gene ABCA1 è localizzato sul cromosoma 9 (9q31) e codifica per il trasportatore ABCA1, una proteina di membrana di 2261 residui aminoacidici appartenente alla famiglia dei trasportatori ABC (ATP Binding Cassette), coinvolta nel processo di rimozione del colesterolo dalle cellule (vedi articolo del 17/07).

Ad oggi sono state descritte più di 170 mutazioni del gene ABCA1, che aboliscono la capacità del trasportatore di promuovere la rimozione di colesterolo cellulare. Nella condizione di omozigosi (quando un individuo eredita due alleli mutati), mutazioni del gene ABCA1 causano un’ipoalfalipoproteinemia familiare a trasmissione recessiva chiamata malattia di Tangier (TD, OMIM #205400), dal nome dell’isola al largo delle coste della Virginia (USA) da dove proveniva il primo caso identificato nel 1960.
Nei soggetti affetti la perdita di funzionalità di ABCA1 provoca l’accumulo di colesterolo (soprattutto esteri del colesterolo) in molti tessuti, principalmente tonsille (che appaiono ingrossate e con una tipica colorazione giallo-arancio, figura), fegato, milza e linfonodi. Il profilo lipidico si caratterizza per un’assenza quasi completa di HDL e una moderata ipertrigliceridemia; in particolare, le HDL sferiche e mature sono totalmente assenti, e le poche HDL presenti nel plasma sono discoidali, immature, di tipo pre-beta. Il rischio cardiovascolare è elevato.

Nei soggetti eterozigoti, che quindi hanno ereditato un solo allele mutato, il valore di HDL colesterolo nel sangue è pressoché dimezzato rispetto alla norma, con particelle HDL di piccole dimensioni. Tale condizione non si associa a un fenotipo clinico, e il rischio cardiovascolare è modestamente aumentato.