
I disturbi respiratori durante il sonno sono stati associati a una peggiore salute cardiovascolare. Sebbene sia nota la relazione tra sonno e malattie/fattori di rischio cardiovascolari, quali fossero le caratteristiche del sonno associate con la salute cardiovascolare rimaneva ignoto. Per chiarie l’argomento, gli autori di uno studio appena pubblicato su Journal of the American Heart Association hanno esaminato 1.826 individui, studiandone le caratteristiche del sonno mediante questionari e polisonnografia, nonché lo stato di salute cardiovascolare in maniera multiparametrica secondo le linee guida dell’American Heart Association. Regressioni logistiche multiple hanno evidenziato forti associazioni dose-risposta tra le variabili connesse alla saturazione di ossigeno (indice di desaturazione dell’ossigeno; saturazione media di ossigeno; percentuale del tempo totale di sonno trascorso con una saturazione di ossigeno inferiore al 90%) e all’apnea ostruttiva notturna (categorie di gravità; indice di apnea/ipopnea) con la salute cardiovascolare globale, comportamentale e biologica. La saturazione media di ossigeno ha mostrato la più forte associazione positiva, mentre l’indice di desaturazione dell’ossigeno la più forte associazione negativa, con la salute cardiovascolare globale (RRR, relative risk ratio: 1.31-1.78 nel primo caso, 0.45-0.71 nel secondo). Non altrettanto decisivo l’impatto dell’architettura del sonno e della frammentazione del sonno sulla salute cardiovascolare. Gli autori concludono affermando che i disturbi respiratori durante il sonno e la relativa (de)saturazione di ossigeno sono più importanti per una buona salute cardiovascolare rispetto all’architettura del sonno o alla relativa frammentazione. È importante che i medici riconoscano i disturbi del sonno per accelerarne la diagnosi e il trattamento, poiché intervenire sull’apnea ostruttiva notturna potrebbe migliorare la salute cardiovascolare.
J Am Heart Assoc (IF=4.450) 8:e011372, 2019

Le uova strapazzate con la fettina di bacon tutte le mattine a colazione non sono una buona abitudine; come non lo è il pane imburrato o il toast con affettati e formaggio.
Fu Linneo a classificare per primo l’asparago come “Aspearagus officinalis” per evidenziare le proprietà medicamentose di questo ortaggio. Se ne conoscono diverse qualità, che si differenziano per dimensioni, colore e gusto. Uno dei più prelibati è l’asparago bianco di Bassano: viene coltivato in una zona ben circoscritta nella provincia di Vicenza che raggruppa soltanto dieci comuni. Solo questa zona gode del microclima particolare capace di produrre, se pure in quantità limitata (non rispondendo alla grande richiesta del mercato) un prodotto di ottima qualità certificata dal marchio DOP. Il consorzio che raggruppa tutti i produttori stabilisce le caratteristiche che questo ortaggio, per potersi fregiare del marchio DOP deve avere: il turione (la parte edibile dell’asparago) di una lunghezza tra i 18-22 cm, con un diametro centrale di 11 mm con apice serrato. La raccolta avviene ad aprile e deve essere consumato entro pochi giorni perché facilmente deteriorabile. Il sapore dell’asparago bianco è particolare, dolce-amaro risultando piacevolmente croccante al palato. Ha un apporto calorico molto basso (24 Kcal per 100 grammi) ed è ricco di vitamine e di fibra.
Secondo uno studio danese, tre quarti dei pazienti diabetici obesi sottoposti a bypass gastrico Roux-en-Y (Rygb) mostrano una remissione del diabete entro un anno dall’intervento. I ricercatori hanno esaminato i dati relativi a 1.111 pazienti con diabete di tipo 2 sottoposti a intervento Rygb tra il 2006 e il 2015. A sei mesi dall’intervento, il 65% dei pazienti era guarito dal diabete; la percentuale è salita al 74% nei successivi sei mesi ed è rimasta invariata per il resto del periodo di studio. I pazienti avevano più probabilità di eliminare il diabete con l’intervento chirurgico quando erano più giovani, convivevano da meno tempo con il diabete e avevano una forma di malattia meno grave; gli uomini hanno ottenuto risultati migliori delle donne. Rispetto ai 1.074 pazienti obesi con diabete di tipo 2 non trattati chirurgicamente, quelli che si sono sottoposti all’intervento hanno avuto meno probabilità di sviluppare complicanze microvascolari, come malattie ai reni o agli occhi. Con la chirurgia, il rischio di retinopatia si è ridotto del 48% e la probabilità di malattia renale si è ridotta del 46%. Entro 30 giorni dall’intervento, il 7.5% dei pazienti è stato ricoverato per complicazioni correlate alle procedure di bypass gastrico.
I ricercatori della Connecticut University, guidati da Yin Wu, hanno analizzato i dati provenienti da 49 studi clinici per un totale di 3.517 partecipanti. Generalmente, si trattava di uomini e donne sovrappeso, di mezza età e ipertesi (pressione arteriosa media 129.3/80.7 mmHg). È stata misurata la pressione arteriosa prima e dopo l’assegnazione a caso dei partecipanti a fare yoga o a essere parte di un gruppo di controllo senza programmi di esercizio fisico. I partecipanti hanno fatto in media 5 sedute settimanali di yoga da 60 min per un periodo di 14 settimane. Nel complesso, chi ha praticato yoga ha mostrato riduzioni medie della pressione sistolica superiori ai 5 mmHg rispetto ai gruppi di controllo, mentre la pressione diastolica si è ridotta di 3.9 mmHg. Quando i soggetti ipertesi hanno fatto yoga tre volte a settimana in sessioni che hanno incluso anche esercizi di respirazione e rilassamento, i valori medi sono calati di 11 mmHg per quanto riguarda la pressione sistolica e di 6 mmHg per quella diastolica. Lo yoga è apparso meno efficace quando la pratica yoga non era accompagnata da esercizi di respirazione e rilassamento o meditazione; in queste circostanze, lo yoga è stato associato a riduzioni medie di 6 mmHg nella pressione sistolica e di 3 mmHg in quella diastolica.
Il lievito madre o pasta acida, è un composto formato da acqua e farina, che si ottiene dalla reazione di fermentazione lattica operata da batteri e miceti. Questi microorganismi, nutrendosi degli zuccheri presenti nella farina, innescano una reazione che produce anidride carbonica, acido lattico, etanolo. Questa risposta naturale è indispensabile per ottenere la panificazione e conferisce ai prodotti lievitati un aroma particolare. Il lievito madre aumenta la digeribilità e la conservabilità del prodotto, evitando la formazione di muffe. Le caratteristiche di un buon lievito madre sono il colore, che deve essere bianco avorio, la consistenza soffice, l’alveolato fine, il sapore e l’odore dolce tendenti all’acido. Può essere facilmente preparato anche a casa. Spesso, per velocizzare la fermentazione si usa aggiungere mosto d’uva o polpa di frutta, dando così maggior nutrimento ai microrganismi. Si ottiene un lievito maturo se ha un pH di 4.3-4.5 e un lieve sentore alcoolico. Per poterlo conservare nel tempo è necessario operare dei rinfreschi: ogni 2, 3 giorni il lievito deve esser fatto ossigenare e rimpastato con acqua a 25 gradi circa e farina fino a ottenere un composto omogeneo. Solo a questo punto il lievito può essere utilizzato immediatamente oppure nuovamente conservato in frigorifero.
In particolare, la percentuale di pazienti positivi per ≥1, ≥2 e ≥3 diversi tipi di autoanticorpi cardiaci nel gruppo con emoglobina glicata ≥9.0% era pari al 46%, 22% ed 11%, rispetto a 2%, 1% e 0% nel gruppo con emoglobina glicata ≤7.0%. La positività per ≥2 autoanticorpi era associata a un aumentato rischio di eventi cardiovascolari (HR 16.1, IC 95%, 3.0-88.2) e, nell’analisi multivariata, alla presenza di calcificazione coronarica (OR 60.1; 95% CI, 8.4-410.0). I pazienti con ≥2 autoanticorpi, inoltre, mostravano livelli più elevati di proteina C-reattiva (6.0 mg/L contro 1.4 mg/L in pazienti con ≤1 autoanticorpi). In base a queste evidenze, lo scarso controllo glicemico nel diabete mellito di tipo 1 sembra associarsi ad autoimmunità cardiaca. Gli autori dello studio concludono suggerendo un ruolo per i meccanismi autoimmuni nello sviluppo di malattia cardiovascolare nel diabete mellito di tipo 1, possibilmente mediato da fenomeni infiammatori.
L’esposizione a lungo termine al particolato fine (con un diametro inferiore a 2,5 μm; PM2.5) si associa a un incremento significativo nell’incidenza di eventi cardiovascolari, specialmente nel sud-est asiatico, dove la maggior parte dei Paesi è alle prese con il problema di un serio inquinamento dell’aria. Lo studio che vi proponiamo oggi ha indagato gli effetti a lungo termine dell’esposizione a PM2.5 sull’incidenza di diabete di tipo 2 in una popolazione di adulti in Taiwan. 147.908 individui non diabetici, di almeno 18 anni di età, sono stati reclutati tra il 2001 e il 2014 in uno studio longitudinale di coorte in cui venivano sottoposti a visite mediche periodiche e ad almeno due misurazioni della glicemia a digiuno. L’incidenza di diabete di tipo 2 è stata definita come riscontro di glicemia a digiuno ≥7 mmol/L (≥125 mg/dL) o come diagnosi medica di diabete segnalata nei successivi appuntamenti. La concentrazione di PM2.5 nell’abitazione di ciascun partecipante è stata stimata utilizzando misurazioni satellitari con una risoluzione di 1×1 km2. La media biennale delle concentrazioni di PM2.5, ottenuta stimando i relativi valori nell’anno della visita di riferimento e in quello antecedente, è stata considerata un indicatore dell’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico da PM2.5. Dopo correzione per una vasta gamma di covariate (età, genere, scolarità, stagionalità, anno, abitudine al fumo, consumo di alcool, attività fisica, assunzione di verdura e frutta, esposizione professionale, BMI, ipertensione e dislipidemia), il rischio di diabete tra i partecipanti esposti al secondo, terzo e quarto quartile di PM2.5 ambientale era significativamente più elevato rispetto a quello dei partecipanti nel primo quartile (HR rispettivamente pari a 1.28, IC 95% 1.18-1.39; 1.27, IC 95% 1.17-1.38; 1.16, IC 95% 1.07-1.26). I partecipanti che riferivano un consumo alcolico occasionale o regolare (più di una volta alla settimana), o che avevano un BMI <23 kg/m2 risultavano più sensibili agli effetti a lungo termine dell’esposizione a PM2.5 ambientale. Gli autori concludono a favore di un rischio più elevato di sviluppare diabete di tipo 2 tra individui esposti a lungo termine a PM2.5 ambientale. L’impatto sulla salute dell’inquinamento atmosferico, specchio di precisi modelli economici, non deve essere trascurato.