COLESTEROLO LDL. ACIDO BEMPEDOICO EFFICACE IN ENTRAMBI I SESSI. MEGLIO NELLE DONNE

L’acido bempedoico (Nilemdo®) riduce significativamente i livelli di colesterolo-LDL (LDL-C) nei pazienti di entrambi i sessi, sottoposti a terapia statinica o intolleranti alle statine, con una riduzione maggiore nelle partecipanti di sesso femminile. È quanto emerge dai risultati dei trial clinici di Fase III, presentati alla Sessione Scientifica virtuale dell’American Heart Association (AHA) 2020.
Lo studio ha incluso 3.621 pazienti con malattia cardiovascolare aterosclerotica e/o ipercolesterolemia familiare eterozigote (HeFH), in terapia ipolipemizzante di background, comprese le statine alla massima dose tollerata. Dopo 12 settimane di terapia, l’acido bempedoico, rispetto al placebo, ha ridotto il livello di LDL-C in entrambi i sessi: del 21,2% nelle donne e del 17,4% negli uomini (corretto per placebo; P=0,044). In una seconda analisi in pazienti intolleranti alle statine (pazienti che non assumevano statine o ne assumevano a basso dosaggio), il livello di LDL-C si è ridotto del 27.7% nelle donne e del 22,1% negli uomini (P=0,079). I livelli basali di LDL-C erano leggermente più alti nelle donne. L’acido bempedoico è stato generalmente ben tollerato da ambo i sessi in entrambi i gruppi.
Questi dati dimostrano i benefici dell’acido bempedoico nelle donne e negli uomini che lottano per mantenere bassi i livelli di LDL-C, molti dei quali stanno già assumendo altre terapie ipolipemizzanti per cercare di raggiungere gli obiettivi raccomandati. In Europa le malattie cardiovascolari causano una percentuale maggiore di decessi tra le donne (51%) rispetto agli uomini (42%), uccidendo il doppio delle donne rispetto a tutte le forme di cancro messe insieme. Nei trial clinici sulle terapie ipolipemizzanti, le pazienti sono spesso sottorappresentate e i dati di efficacia nei due sessi sono generalmente scarsi.

CAFFÈ APPENA SVEGLI DOPO AVER DORMITO MALE? NON È UNA BUONA IDEA

Dopo aver dormito male, bere un caffè forte per “svegliarsi” prima di colazione non è una buona idea. Perché? Il caffè a digiuno riduce la tolleranza al glucosio, aumentando il rischio di sviluppare un diabete mellito di tipo 2. Molto meglio fare prima colazione e poi prendere il caffè.
A questa conclusione è giunto un piccolo studio anglo-taiwanese, randomizzato in crossover, condotto in 29 giovani adulti (età 21±1 anni, BMI 24.4±3.3 kg/m2). I soggetti sono stati sottoposti a un test di tolleranza orale al glucosio (OGTT) dopo un ristoratore sonno notturno, dopo un sonno notturno disturbato (sveglia di 5 min ogni ora) e dopo un sonno notturno disturbato seguito dall’assunzione di un caffè nero (300 mg di caffeina).
La qualità del sonno non ha influenzato l’esito dell’OGTT. Al contrario, l’aggiunta del caffè al sonno disturbato ha causato un aumento significativo del picco glicemico medio (8.96 mmol/l  vs 8.20 mmol/l) e del picco insulinico medio (310 pmol/l vs 235 pmol/l).

Br J Nutr (IF=3.334)124:1114,2020. doi: 10.1017/S0007114520001865

GLI OMEGA 3 NON SONO SUPERIORI AL PLACEBO NEL RIDURRE GLI EVENTI CARDIOVASCOLARI NEL PAZIENTE AD ALTO RISCHIO CARDIOVASCOLARE

I risultati dello STRENGTH trial sono stati presentati al congresso dell’American Heart Association 2020, svoltosi quest’anno in modalità virtuale, per le ben note ragioni.
Lo scopo dello studio è stato di valutare l’efficacia della combinazione EPA+DHA (omega-3) verso placebo in pazienti con dislipidemia e alto rischio cardiovascolare. Si tratta di uno studio randomizzato, in doppio cieco, in cui sono stati arruolati 6.539 pazienti nel gruppo omega-3 e 6.539 nel gruppo placebo. La mediana del follow-up è stata di 42 mesi. L’età media dei pazienti era di 63 anni. Il 35% dei pazienti era di sesso femminile e il 70% aveva un diabete mellito. Il trial è stato interrotto precocemente perché un’analisi ad interim programmata ha rivelato una bassa probabilità di beneficio nel gruppo omega-3. L’outcome primario composito di morte cardiovascolare, infarto del miocardio, stroke, rivascolarizzazione percutanea, o ospedalizzazione per angina instabile si è verificato nel 12,3% dei pazienti del gruppo omega-3 e nel 12,2% dei pazienti del gruppo placebo (p=0,84). Per quanto riguarda gli outcomes secondari si è evidenziato: fibrillazione atriale nel 2,2% dei pazienti nel gruppo omega-3 e 1,3% nel gruppo placebo (p<0,001); eventi avversi gastrointestinali nel 24,7% (omega-3) e 14,7% (placebo); sanguinamenti maggiori nel 0,8% (omega-3) e 0,7% (placebo).
Chi di voi è interessato agli effetti degli acidi grassi omega-3 sul rischio cardiovascolare noterà che i risultati dello STRENGHT sono diversi da quelli del REDUCE-IT e del JELIS, che invece hanno dimostrato un beneficio degli omega-3 sugli eventi cardiovascolari. La differenza è probabilmente imputabile alla diversa formulazione di omega-3 utilizzata nei tre studi. Il REDUCE-IT e il JALIS hanno utilizzato EPA puri, mentre lo STRENGTH ha utilizzato una combinazione di EPA e DHA. Emergerebbe quindi un chiaro beneficio dell’EPA nei confronti della miscela.

LOMITAPIDE PER LA TERAPIA DELL’IPERCOLESTEROLEMIA FAMILIARE OMOZIGOTE

La Lomitapide (Lojuxta®) è il primo inibitore della proteina di trasferimento microsomiale dei trigliceridi (MTP) approvato come farmaco innovativo per la terapia di pazienti con ipercolesterolemia familiare omozigote (HoFH). Agisce legandosi direttamente e selettivamente all’MTP riducendo così l’assemblaggio e la secrezione delle lipoproteine contenenti apo-B sia nel fegato che nell’intestino.

L’efficacia e la sicurezza della Lomitapide sono stati valutati in diversi studi clinici, che hanno dimostrato una riduzione media dei livelli plasmatici di colesterolo-LDL superiore al 50%. La Lomitapide presenta generalmente una buona tollerabilità; gli eventi avversi più comuni sono, come atteso sulla base del meccanismo d’azione, a livello gastrointestinale ed epatico.
Per valutare la sicurezza e l’efficacia a lungo termine della Lomitapide nella pratica clinica  “real life”, è stato istituito il registro europeo LOWER, che raccoglie dati sui pazienti con HoFH europei trattati con Lomitapide. L’analisi dei dati relativi ai primi 5 anni (dall’istituzione del registro al febbraio 2019) conferma l’efficacia di Lomitapide utilizzando dosaggi più bassi rispetto al trial di Fase III (dose mediana: 10 mg vs 40 mg). Inoltre non sono stati segnalati eventi avversi inattesi e l’incidenza di eventi avversi seri e di ipertransaminasemia è stata più bassa di quella registrata nei trials di Fase III.

J Clin Lipidol (IF=3.860) 2020 Aug 18. doi: 10.1016/j.jacl.2020.08.006

LE DONNE GIOVANI CON INFARTO DEL MIOCARDIO HANNO UNA MORTALITÀ A LUNGO TERMINE MAGGIORE RISPETTO AGLI UOMINI

In cardiologia si parla spesso, soprattutto ultimamente, di differenze di genere nella presentazione e nella prognosi delle malattie cardiovascolari. Un recente studio del Brigham and Women’s Hospital, Harvard Medical School, ha analizzato dati relativi a pazienti che hanno avuto un infarto miocardico (IMA) in giovane età (≤ 50 anni) nel 2000-2016. In totale sono stati inclusi 2097 pazienti (404 donne, 19%; età media 44,0±5,1 anni). Il profilo dei fattori di rischio era simile tra maschi e femmine, sebbene le donne diabetiche fossero più degli uomini (23,7% vs 19,9%). Le donne venivano in media sottoposte meno frequentemente a coronarografia e rivascolarizzazione percutanea.

Non sono state osservate differenze significative nella mortalità intraospedaliera, ma le donne che superavano l’evento acuto presentavano un mortalità da tutte le cause più elevata rispetto agli uomini (HR 1,63; p=0,01; follow up mediano di 11 anni). Questo studio rappresenta la più vasta analisi ad aver esaminato le differenze nell’outcome a lungo termine tra uomini e donne che hanno avuto un infarto del miocardio.

Eur Heart J (IF=22.673) 2020 Oct 13:ehaa662. doi:10.1093/eurheartj/ehaa662

OBESITÀ INFANTILE. IN ITALIA 1 BAMBINO SU 5 È IN SOVRAPPESO, 1 SU 10 È OBESO

A scattate la fotografia del peso dei bambini italiani nel 2019 è OKkio alla Salute (https://www.epicentro.iss.it/okkioallasalute/indagine-2019-dati), il sistema di sorveglianza nazionale coordinato dal Centro nazionale per la Prevenzione delle malattie e Promozione della Salute (CNaPPS) dell’ISS che è stato di recente designato come centro di riferimento OMS sull’obesità infantile.
Qualche piccolo passo in avanti c’è stato, ma l’Italia continua a essere, tra i paesi europei, quello con i valori più elevati di eccesso ponderale nella popolazione in età scolare: la percentuale di bambini in sovrappeso è del 20,4% (era del 23,2% nel 2008/2009) e di bambini obesi del 9,4% (era 12,0% nel 2008/2009), compresi i gravemente obesi che rappresentano il 2,4%. A livello regionale la Campania guida la classifica dei bambini in sovrappeso o obesi, tallonata dalla Calabria (più del 40%). Anche in Puglia, Sicilia, Basilicata, Abruzzo, Molise e Lazio sovrappeso e obesità colpiscono più del 30% della popolazione infantile. Solo Bolzano e Valle d’Aosta sono al di sotto della media nazionale.

Secondo l’indagine dell’ISS, che ha coinvolto, come negli anni precedenti, più di 50mila bambini e altrettante famiglie, i genitori hanno riportato che quasi un bambino su due non fa una colazione adeguata al mattino, uno su 4 beve quotidianamente bevande zuccherate/gassate e consuma frutta e verdura meno di una volta al giorno. I legumi sono consumati meno di una volta a settimana dal 38% dei bambini e quasi la metà dei bambini mangia snack dolci più di 3 giorni a settimana. Anche su l’attività fisica sarebbe necessario maggiore impegno: un bambino su 5 non ha fatto attività fisica il giorno precedente l’intervista, più del 70% non si reca a scuola a piedi o in bicicletta e quasi la metà trascorre più di 2 ore al giorno davanti alla TV, al tablet o al cellulare. Quasi il 15% dorme meno di 9 ore per notte.
Ma è il percepito delle mamme che colpisce: il 59,1% delle mamme di bambini fisicamente poco attivi ritiene che il proprio figlio svolga attività fisica adeguata; il 40,3% dei bambini in sovrappeso o obesi è percepito dalla mamma come sotto- normo-peso. E tra le mamme di bambini in sovrappeso o obesi, il 69,9% pensa che la quantità di cibo assunta dal proprio figlio non sia eccessiva.
Questi dati, pur mostrando alcuni miglioramenti, ribadiscono che bisogna insistere con le strategie di prevenzione e promozione dei corretti stili di vita, anche nell’attuale contesto pandemico. Costretti a stare in casa possiamo cogliere l’occasione per trasformare questa situazione in una nuova opportunità di salute, modificando in meglio le abitudini alimentari e facendo attività fisica anche in ambienti confinati.

IPERTENSIONE ARTERIOSA E CONTROLLO PRESSORIO: NEGLI USA UNA PERICOLOSA INVERSIONE DI TENDENZA

Una preoccupante inversione di tendenza nella capacità di controllare l’ipertensione emerge da uno studio sull’andamento temporale del controllo pressorio negli Stati Uniti d’America, che descrive i risultati di un’analisi dei dati dell’US National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES), un progetto coordinato dal Centro Nazionale per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (Centers for Disease Control and Prevention) che, con scadenza biennale, si propone di rappresentare incidenza, prevalenza e andamento temporale delle principali patologie. Il caso in questione tratta della prevalenza di ipertensione arteriosa e i risultati sono desunti dall’analisi di una popolazione di 51.761 individui, di cui 18.262 ipertesi.
Il dato più eclatante emerso dallo studio è che la proporzione di ipertesi controllati, rispetto al totale degli ipertesi, che era aumentata in modo costante nel periodo compreso tra gli anni 2000 e 2014, passando dal 32% al 54%, ha segnato una significativa flessione negli ultimi 5 anni, fino a ridursi al 44% nel 2018. Gli ipertesi controllati sono coloro che raggiungono l’obiettivo pressorio prefissato (<140/90 mmHg) con trattamenti non farmacologici e farmacologici.

Le stime derivate dal NHANES dicono che essi rappresentano poco meno della metà di tutti gli ipertesi, essendo ampia la percentuale di ipertesi che non sono a conoscenza di tale condizione (circa il 20%) oppure che assume trattamenti che, per vari motivi, risultano inefficaci (circa il 30%). Vi è poi un altro risultato sul quale gli autori hanno soffermato la loro attenzione: la percentuale di ipertesi non noti e non controllati risulta essere molto ampia nella fascia di età tra i 18 ed i 44 anni, cioè tra i giovani adulti. E’ probabile che la ragione di ciò sia da ricondurre a una scarsa percezione del rischio cardiovascolare futuro, spesso alla base di comportamenti errati quale quello di interrompere arbitrariamente il trattamento anti-ipertensivo.
In Italia la situazione sembra migliore. Un’analisi, condotta nel 2016 a partire dai dati contenuti nei database elettronici gestiti dai medici di famiglia su una popolazione di 940.800 pazienti, dimostra che la prevalenza di ipertensione arteriosa è del 26%, e che il 61% degli ipertesi è “controllato”, percentuale in deciso incremento rispetto a quanto registrato nel 2005, quando la percentuale di ipertesi controllati raggiungeva solamente il 43%.

JAMA (IF=45.540) 324:1190,2020. doi:10.1001/jama.2020.14545.

OBESITÀ. GASTROPLASTICA ENDOSCOPICA EFFICACE A 5 ANNI

In uno studio di follow-up monocentrico la gastroplastica endoscopica (ESG) si è dimostrata sicura ed efficace per la perdita di peso a lungo termine. Durante l’intervento, della durata di circa 30 min, l’endoscopista inserisce un dispositivo di sutura attraverso la bocca e nello stomaco; vengono così create cuciture a tutto spessore lungo la grande curva dello stomaco, determinando una riduzione del volume gastrico.
I ricercatori della Weill Cornell Medicine di New York hanno esaminato 216 pazienti sottoposti a ESG dal 2013 al 2019 (età media 46 anni; 68% donne). I partecipanti avevano un BMI>30 kg/m2 (o >27 con comorbilità) e non erano riusciti a raggiungere una perdita di peso di almeno il 5% con misure non invasive (dieta e farmaci). Tutti gli interventi sono stati eseguiti dallo stesso endoscopista e i pazienti sono stati seguiti fino a cinque anni dalla procedura. Dei 216 partecipanti, i dati sul follow-up a uno, tre e cinque anni sono stati disponibili per 203, 96 e 68 pazienti.
A un anno, la riduzione media del peso è stata del 15.6%, con l’89% e il 77% dei pazienti che hanno perso almeno il 5% e il 10% del peso. A tre anni, la riduzione media era del 14.9%, con l’85% e il 63% dei pazienti che hanno perso almeno il 5% e il 10% del peso. A cinque anni, la riduzione media del peso è stata del 15.9%, con il 90% e il 61% dei pazienti che hanno perso almeno il 5% e il 10% del peso. Il 32% dei pazienti ha manifestato eventi avversi lievi, come pirosi, nausea e vomito; 3 (1.3%) hanno avuto eventi avversi moderati e nessuno ha presentato eventi gravi o fatali.

Clin Gastroenterol Hepatol (IF=8.549). 2020 Oct 1. doi:10.1016/j.cgh.2020.09.055

INSULINA ICODEC IN MONOSOMMINISTRAZIONE SETTIMANALE NEL DIABETE DI TIPO 2

Sono stati divulgati al meeting annuale dell’Associazione Europea per lo Studio del Diabete (EASD) e pubblicati sul New England Journal of Medicine i dati di fase 2 relativi a insulina Icodec, analogo sperimentale dell’insulina in monosomministrazione settimanale. L’insulina Icodec si lega all’albumina per creare una forma di deposito circolante con un’emivita di 196 ore (8.1 giorni); quindi l’iniezione una volta alla settimana è progettata per coprire il fabbisogno basale di insulina di un individuo per un’intera settimana.
Lo studio in questione, della durata di 26 settimane, ha randomizzato in doppio cieco 247 pazienti con diabete mellito di tipo 2, che non avevano precedentemente ricevuto trattamento con insulina e il cui diabete non era adeguatamente controllato (livello di emoglobina glicata: da 7.0 a 9.5% nonostante metformina con o senza un inibitore della DPP 4). Ad essi sono stati somministrati insulina Icodec settimanale più placebo giornaliero (n=125) o insulina Glargina 100 UI giornaliera più placebo settimanale (n = 122). L’endpoint primario era rappresentato dalla variazione del livello di emoglobina glicata dal basale alla settimana 26. Sono stati valutati anche gli endpoint di sicurezza, inclusi gli episodi di ipoglicemia e gli eventi avversi correlati alla terapia insulininica.
Le caratteristiche dei partecipanti erano simili nei due gruppi:  il livello basale medio di emoglobina glicata era 8.09% nel gruppo Icodec e 7.96% nel gruppo Glargina. L’emoglobina glicata si è ridotta dell’1.33% nel gruppo Icodec e dell’1.15% nel gruppo Glargine, scendendo rispettivamente al 6.7% e al 6.9% (P=0.08 per la differenza tra gruppi rispetto al basale). I livelli di glucosio plasmatico a digiuno sono diminuiti di 58 mg/dL con Icodec e di 54 mg/dL con Glargina (P=0.34). L’ipoglicemia lieve era più comune con Icodec che con Glargina (509 vs 211 eventi per 100 pazienti-anno), ma l’ipoglicemia moderata/clinicamente significativa (52.5 vs 46 per 100 pazienti-anno) e l’ipoglicemia grave (1.4 vs 0 per 100 pazienti-anno) non differivano in modo significativo tra i due gruppi. Non vi era alcuna differenza tra i gruppi in termini di altri eventi avversi, inclusa l’ipersensibilità e le reazioni al sito di iniezione, con la maggior parte degli eventi avversi comunque di lieve entità.
I risultati mostrati indicano che il trattamento monosettimanale con insulina Icodec ha un’efficacia ipoglicemizzante e un profilo di sicurezza simili a quelli dell’insulina Glargina somministrata giornalmente. La riduzione della frequenza delle iniezioni di insulina basale con tale trattamento potrebbe facilitare l’accettazione e l’aderenza terapeutica.

New Engl J Med (IF=74.699) September 22, 2020 DOI:10.1056/NEJMoa2022474

DOPO UN INFARTO IL RISCHIO DI UN NUOVO EVENTO È SIMILE NELLE DONNE E NEGLI UOMINI

Le donne hanno un vantaggio biologico sugli uomini in termini di cardiopatia: ne soffrono meno frequentemente e a un’età più avanzata. Ma il vantaggio si attenua notevolmente dopo un infarto miocardico (MI).
Un team internazionale ha esaminato i dati delle assicurazioni sanitarie statunitensi dal 2015 al 2016, individuando 171.897 donne e 167.993 uomini sopravvissuti a MI. Questi pazienti sono stati appaiati in base a età e anno solare a oltre 1.3 milioni di soggetti senza malattia coronarica (CHD).
Durante il follow up fino al 2017, si sono verificati 21.052 eventi cardiovascolari nella coorte di controllo (38% nelle donne) e 40.878 eventi ricorrenti nella coorte sopravvissuta a MI (46% nelle donne). Nei controlli, l’incidenza standardizzata per età di MI su 1.000 persone-anno era significativamente inferiore nelle donne rispetto agli uomini: 4.5  vs 5.7 (HR=0.64; 95%CI 0.62-0.67). Nei sopravvissuti a MI, l’incidenza ovviamente aumentava notevolmente, ma la differenza tra uomini e donne si invertiva a favore degli uomini: 60.2 nelle donne e 59.8 negli uomini (HR=0.94; 95%CI 0.92-0.96). L’incidenza di CHD era di 6.3 nelle donne e 10.7 negli uomini di controllo (HR=0.53; 95%CI 0.51-0.54); saliva a 84.5 vs 99.3 in donne e uomini sopravvissuti a MI (HR=0.87; 95%CI 0.85-0.89). La mortalità totale (sempre standardizzata per età su 1.000 persone-anno) era di 63.7 vs 59.0 in donne e uomini di controllo (HR=0.72; 95%CI 0.71-0.73) e di 311.6 vs 284.5 nelle controparti con MI.

Chiaramente lo studio non fornisce spiegazioni per l’assottigliarsi della differenza di genere nei sopravvissuti a MI. Gli autori suggeriscono che potrebbe essere spiegata dal tradizionale ‘modello maschile’ per gli infarti del miocardio, al punto che l’intervento potrebbe essere ritardato o meno incisivo nelle donne.

J Amer Coll Cardiol (IF=20.589) 76:1751,2020