L’assegnista del Centro Alice Ossoli vince il premio SIF-Farmindustria 2020 per ricerche farmacologiche con il lavoro:
“Recombinant LCAT (Lecithin:Cholesterol Acyltransferase) Rescues Defective HDL (High-Density Lipoprotein)-Mediated Endothelial Protection in Acute Coronary Syndrome” Pubblicato su Arteriosclerosis, Thrombosis, and Vascular Biology nel 2019
GIOVANI RICERCATRICI CRESCONO!
La nostra Marta Turri, con una brillante discussione del suo progetto di ricerca “Role of lecithin:cholesterol acyltransferase (LCAT) in brain cholesterol metabolism”, vince una Borsa di Studio del Dottorato in Scienze Farmacologiche Biomolecolari, Sperimentali e Cliniche dell’Università degli Studi di Milano. Che sia l’inizio di una brillante carriera… Buon lavoro!
NEGLI ULTIMI 40 ANNI I LIVELLI PLASMATICI DI COLESTEROLO SONO DIMINUITI IN OCCIDENTE, MA AUMENTATI IN ORIENTE E IN AFRICA
I ricercatori del NCD Risk Factor Collaboration (NCD-RisC), coordinati dalla School of Public Health dell’Imperial College di Londra, hanno condotto un’analisi sulla variazione dei livelli plasmatici di colesterolo “non-HDL” (colesterolo totale – colesterolo-HDL; un valore che corrisponde grossolanamente al colesterolo-LDL, difficile da misurare su grandi numeri) dal 1980 al 2018 in 200 Paesi. Si tratta di dati relativi a 102,6 milioni di individui. I ricercatori hanno riscontrato che nel mondo Occidentale, a partire dagli anni ’80, i livelli di colesterolo non-HDL hanno incominciato a diminuire, grazie, secondo gli autori della ricerca, a cambiamenti nell’alimentazione, specialmente la sostituzione dei grassi saturi con insaturi e la riduzione dei grassi trans, e più tardi all’uso su larga scala delle statine. In contrasto con quanto osservato nei Paesi occidentali, i livelli di colesterolo non-HDL sono aumentati nell’Est e Sud-Est dell’Asia, e in Africa, dove il consumo di cibo animale, carboidrati raffinati e olio di palma è aumentato, e l’utilizzo delle statine rimane basso.
In Italia, la riduzione del colesterolo non-HDL è stata meno pronunciata di quella osservata nei Paesi del nord Europa, e di conseguenza i livelli sono oggi più alti che in molti Paesi nord-Europei (Belgio, Svezia, Germania, Finlandia, Danimarca, Regno Unito). Nel 1980 i livelli di colesterolo non-HDL nelle donne italiane erano i 30° più alti del mondo e i 24° più alti d’Europa; nel 2018, erano gli 80° più alti nel mondo e i 22° più alti in Europa. Nei maschi, nel 1980 i livelli di colesterolo non-HDL erano i 21° più alti del mondo e i 18° più alti d’Europa; nel 2018, erano i 43° più alti nel mondo e i 21° più alti in Europa.
Nature (IF=42.778) 582:73,2020. doi: 10.1038/s41586-020-2338-1.
I RICERCATORI DEL CENTRO PUBBLICANO NUOVI IMPORTANTI RISULTATI DELLE RICERCHE SUL DEFICIT DI LCAT
Il deficit familiare di LCAT (FLD) è una malattia molto rara del metabolismo delle HDL, dovuta a mutazioni genetiche che causano la perdita di funzione dell’enzima lecitina:colesterolo aciltransferasi (LCAT). La più grave manifestazione clinica nella FLD è la malattia renale, che ne rappresenta la principale causa di morbilità e mortalità, per la quale l’attuale unica possibilità terapeutica è la dialisi o il trapianto di rene. La prognosi è ancora sconosciuta e la velocità di deterioramento della funzione renale può essere molto variabile da paziente a paziente. Uno dei limiti degli studi sulle malattie rare, come il deficit di LCAT, è il numero limitato di casi disponibili, spesso insufficiente per condurre analisi che abbiano un sufficiente potere statistico. Grazie però alla collaborazione di diversi gruppi di studio è possibile ottenere un numero di casi adeguato. I ricercatori del Centro hanno raccolto i dati di 18 pazienti con FLD provenienti da diversi Centri italiani e seguiti in media per 12 anni. Ne è emerso che l’insufficienza renale si presenta a un’età mediana di 46 anni. Il trapianto renale, pur efficace nel breve-medio termine, non è risolutivo perché la funzionalità del rene trapiantato inizia presto a deteriorarsi, fino a una nuova condizione di insufficienza renale, che può ripresentarsi in una decina di anni. È poi emerso che livelli plasmatici elevati di colesterolo non esterificato sono predittivi di un più rapido deterioramento della funzione renale. Emerge quindi la necessità di una diagnosi precoce di FLD e l’urgenza di trattamenti efficaci che prevengano o rallentino l’accumulo di colesterolo non esterificato e la conseguente progressione della malattia renale.
Pavanello C, Ossoli A, Arca M, D’Erasmo L, Boscutti G, Gesualdo L, Lucchi T, Sampietro T, Veglia F, Calabresi L. Progression of chronic kidney disease in Familial LCAT Deficiency: a follow-up of the Italian cohort. J Lipid Res. 2020 Sep 30:jlr.P120000976. doi: 10.1194/jlr.P120000976.
DOLORE AL PETTO. L’OROLOGIO FA L’ECG E SCOPRE L’INFARTO
Lo smartwatch è sempre più utile per chi soffre di malattie cardiovascolari. Non solo può diagnosticare un’aritmia, ma permette anche di fare un elettrocardiogramma a nove derivazioni per la diagnosi precoce di infarto. La nuova funzione può essere per ora utilizzata esclusivamente dal medico o dall’infermiere in condizioni di emergenza, quando non è disponibile un elettrocardiogramma standard ma il paziente ha sintomi di un possibile attacco cardiaco. In un futuro non troppo lontano potrebbe essere disponibile un software che consenta la diagnosi automaticamente.
Stando ai risultati di uno studio dell’Università Magna Graecia di Catanzaro, un ‘orologio intelligente’ potrebbe contribuire a ridurre drasticamente i tempi di diagnosi dell’infarto e quindi migliorare la prognosi dei pazienti, che dipende moltissimo dal tempo che intercorre fra l’inizio dei sintomi e l’instaurarsi di una terapia. Per l’indagine sono stati esaminati 100 soggetti, di cui 80 con sintomi di infarto e 20 asintomatici di controllo, 67 maschi, con età media di 61 anni. Sono state effettuate registrazioni dell’ECG con un Apple Watch, collocato in nove posizioni sul torace, e contemporaneamente un esame elettrocardiografico standard. È stato utilizzato l’Apple Watch perché ad oggi è l’unico smartwatch le cui funzioni ‘cardiologiche’ (dalla serie 4 in poi) sono considerate dalle autorità sanitarie USA ed Europee come un vero e proprio dispositivo medico.
La sensibilità dello smartwatch, cioè la percentuale di diagnosi di infarto identificate correttamente, è stata dell’88% (95%CI 0.78-0.97); la specificità, percentuale di ECG normali identificati correttamente, è stata del 90% (95%CI 0.78-1.00).
La possibilità di individuare un infarto in corso con rapidità e semplicità grazie all’uso di un semplice smartwatch può essere di grande aiuto nel ridurre le conseguenze negative di un attacco cardiaco. In caso di dolore toracico, soprattutto se associato a sudorazione e difficoltà di respirazione, è indispensabile effettuare subito un ECG per verificare l’eventualità di un infarto in corso ed instaurare al più presto una terapia.
JAMA Cardiol (IF=12.794) 31:e203994,2020. doi: 10.1001/jamacardio.2020.3994
TUMORE AL SENO. LA DIETA MIMA-DIGIUNO MIGLIORA LA RISPOSTA ALLA CHEMIOTERAPIA
Sono circa 370 mila gli individui che ogni anno in Italia ricevono una diagnosi di cancro (dati Airtum 2019) e per ciascuno di essi si apre un mondo di dubbi, speranze e ricerca delle opzioni terapeutiche migliori. In questo scenario la nutrizione è uno degli elementi a cui si guarda con maggiore interesse dopo una diagnosi di tumore. È ormai indubbio infatti che i nutrienti abbiano un ruolo di modulatori nei processi patologici, di guarigione e di risposta alle terapie, con effetti importanti sulla prognosi.
Nello studio multicentrico Direct, 131 donne con carcinoma mammario HER-2 negativo allo stadio 2/3 sono state randomizzate in due gruppi: uno che avrebbe seguito il proprio regime alimentare 3 giorni prima e durante i 6 cicli di chemioterapia adiuvante (quella eseguita dopo l’intervento allo scopo di ridurre il rischio di recidiva della malattia), l’altro che avrebbe seguito un regime mima-digiuno (FMD, Fasting Mimicking Diet) prima e durante la chemioterapia, per un totale di 4 giorni. Alle pazienti del secondo gruppo è stata assegnata una dieta di circa 1200 kcal il primo giorno, ridotti poi a 200 kcal nei tre giorni successivi, derivate per l’80% da carboidrati complessi.
53 pazienti su 65 (81,5%) hanno completato il primo ciclo di FMD, il 50% ne ha completati due, il 33,8% è arrivato a 3 cicli e il 20% ha completato 6 cicli. L’FMD ha sensibilmente migliorato l’efficacia della chemioterapia. La malattia definita ‘stabile’ o ‘progressiva’ era marcatamente inferiore nel gruppo mima-digiuno rispetto a quello di controllo: 11,3% contro 26,9%.
I risultati di questa ricerca, per quanto estremamente preliminari sono certamente interessanti. È possibile che la restrizione calorica protegga le cellule sane da fattori di rischio e stress come la chemioterapia, mentre le cellule malate non sono in grado di proteggersi e adattarsi alla scarsità energetica.
Nat Commun (IF=12.121) 11:3083,2020. DOI: 10.1038/s41467-020-16138-3
IL DIABETE DI TIPO 2 AUMENTA IL RISCHIO DI DEMENZA VASCOLARE
I pazienti con diabete mellito di tipo 2 sono maggiormente a rischio di sviluppare una demenza vascolare rispetto ad altri tipi di demenza. Lo sostiene una ricerca presentata in al 56° congresso annuale dell’Associazione Europea per lo Studio del Diabete (EASD). Lo studio, basato su una analisi di dati dello Swedish National Diabetes Register, ha esaminato 378.299 individui con diabete di tipo 2, confrontati con 1.886.022 controlli non diabetici, abbinati per età (media: 64 anni) e genere.
Dopo un follow-up medio di 7 anni, 10.143 individui con diabete di tipo 2 e 46.479 controlli hanno sviluppato una demenza. La demenza non vascolare era il tipo più comune, seguito dal morbo di Alzheimer e dalla demenza vascolare. Rispetto alla popolazione di controllo non diabetica, il rischio di sviluppare demenza vascolare e non vascolare negli individui con diabete di tipo 2 era aumentato del 35% e dell’8%, rispettivamente. Non si registrava, invece, un aumentato rischio di malattia di Alzheimer. Tuttavia, rispetto agli individui con emoglobina glicata (HbA1c) <7%, il rischio di demenza vascolare, non vascolare e di malattia di Alzheimer negli individui con HbA1c >10.1% aumentava del 93%, 67% e 34%. La presenza nei diabetici di fattori di rischio modificabili, quali ipertensione arteriosa, obesità, fumo e scarsa attività fisica spiegava oltre il 40% dell’aumento del rischio di demenza. L’eccesso di demenza vascolare riscontrato nello studio, concludono gli autori, rappresenta di per sé un valido argomento per aderire con convinzione a misure preventive consolidate, come uno stile di vita più sano, che rappresenta una strategia vincente contro possibili comorbidità nel paziente diabetico.
LA VARIABILITÀ DELLA PRESSIONE ARTERIOSA È ASSOCIATA AD ALTERAZIONI SFAVOREVOLI DELLA STRUTTURA E DELLA FUNZIONE CARDIACA
Queste sono le conclusioni a cui sono giunti i ricercatori della John Hopkins University di Baltimora, Maryland, che hanno utilizzato i dati dello studio CARDIA, studio di coorte basato su una comunità di 5.115 partecipanti dai 18 ai 30 anni all’arruolamento (dal 25 marzo 1985 al 7 giugno 1986) e seguito per un intervallo di 30 anni. A 2.400 partecipanti dello studio CARDIA è stata misurata la PA in 8 visite in un intervallo di 25 anni; al 25° anno (dal 1 giugno 2010 al 31 agosto 2011) è stato eseguito un ecocardiogramma . Le misure di variabilità della PA sistolica e diastolica da visita a visita includevano deviazione standard (DS), variabilità reale media e variabilità indipendente dalla media. Dei 2.400 partecipanti, 1.024 erano uomini (42,7%) e 976 erano afroamericani (40,7%); l’età media (DS) al 25° anno era di 50,4 (3,6) anni. L’aumento della variabilità della PA sistolica o diastolica (1 DS) era associato a un aumento della massa del ventricolo sinistro (LV), a un peggioramento della funzione diastolica e a pressioni di riempimento LV più elevate.
È quindi opportuno mantenere valori pressori normali nel lungo termine, al fine di prevenire alterazioni della struttura e funzione miocardica compatibili con uno stato di insufficienza cardiaca.
JAMA Cardiol (IF=12.794) 5:795,2020. doi: 10.1001/jamacardio.2020.0799.
L’AMILOIDOSI CARDIACA. 5. TERAPIA
Lo scopo della terapia per tutte le forme d’amiloidosi è quello di ridurre la concentrazione plasmatica del precursore proteico al fine di favorirne il riassorbimento e, al contempo, di ridurre la formazione di fibrille e la loro infiltrazione negli organi bersaglio. Nelle amiloidosi AL tale scopo si può raggiungere contrastando e possibilmente eradicando il clone plasmacellulare responsabile della produzione di catene leggere. Il trapianto di cellule staminali autologhe è il trattamento più efficace, possibile tuttavia solo in unnumero limitato di soggetti affetti. Per coloro i quali non possono eseguire il trapianto, a causa delle co-morbilità e/o delle caratteristiche personali, la terapia di scelta è il trattamento chemioterapico.
Nella forma ATTR wild-type sono ad oggi impiegati farmaci capaci di stabilizzare la struttura terziaria della transtiretina così da ridurre la produzione di monomeri di transtiretina e rallentare il processo di fibrillogenesi. Nella forma mATTR il trapianto di fegato appare, almeno nelle forme iniziali, il trattamento di scelta, essendo la quasi totalità della transtiretina mutata prodotta dal fegato. Nei pazienti che non possono essere sottoposti a trapianto è possibile l’impiego di farmaci in grado di silenziare il gene TTR; sono molecole RNA anti-senso in grado di bloccare la traduzione dell’mRNA nel precursore proteico. Stabilizzatori e anti-senso hanno dimostrato di migliorare la qualità della vita e di ritardare la progressione della neuropatia nei pazienti con amiloidosi ATTR ereditaria.
L’AMILOIDOSI CARDIACA. 4. DIAGNOSI DIFFERENZIALE
L’amiloidosi cardiaca, essendo una malattia infiltrativa e sistemica, presenta caratteristiche assenti in altre condizioni cliniche ad essa simili. Le manifestazioni cliniche del coinvolgimento cardiaco in corso d’amiloidosi cardiaca, quali la dispnea, il cardiopalmo, l’astenia, la congestione periferica, sono aspecifiche e non aiutano nella diagnosi differenziale. Il riscontro di manifestazioni cliniche del coinvolgimento d’organo al di fuori del sistema cardiovascolare può invece facilitarla. Nella forma AL è comune l’interessamento renale e gastro-intestinale per cui è frequente il riscontro d’insufficienza renale con proteinuria, anoressia e cachessia, e difficoltà alla deglutizione. Nella forma ATTR l’interessamento nervoso è frequente e può essere accompagnato da interessamento oculare: segni e sintomi di neuropatia periferica e disautonomica (ipotensione ortostatica, sincope, perdita del controllo sfinteriale) associati a opacità del vitreo, sono comuni nell’ATTR. Merita una menzione speciale la sindrome del tunnel carpale che, specie quando bilaterale, rappresenta un segno specifico d’amiloidosi ATTRwt, in grado d’anticipare le manifestazioni cardiache di una decade. L’infiltrazione del miocardio può determinare quadri elettrocardiografici suggestivi d’amiloidosi cardiaca. Ma l’ecocardiogramma rappresenta il principale esame strumentale per la diagnosi non invasiva d’amiloidosi cardiaca. L’infiltrazione miocardica determina disfunzione sistolica già dalle fasi precoci di malattia; la frazione d’eiezione (FE), tuttavia, resta preservata fino alle fasi avanzate di malattia mentre l’evidenza di una deformazione miocardica consente il riscontro di disfunzione sistolica già dalle fasi precoci di malattia. Tra le metodiche di imaging non invasive riveste un ruolo sempre più importante la Risonanza Magnetica Cardiaca, per la sua capacità di caratterizzazione tissutale e per l’elevata risoluzione spaziale che permette una valutazione morfologia e funzionale.
La diagnosi definitiva richiede la conferma istologica della presenza di sostanza amiloide su campione bioptico ottenuto da tessuti coinvolti nel processo infiltrativo (grasso periombelicale e ghiandole salivari in prima battuta per la facile accessibilità, o in alternativa il tessuto miocardico da biopsia endomiocardica) e la sua successiva tipizzazione con metodiche immunoistochimiche. In tempi recenti l’imaging nucleare ha rivoluzionato la diagnosi d’amiloidosi ATTR. I radioisotopi osseo-specifici impiegati nella scintigrafia ossea total body legano i depositi di amiloide da transtiretina, e solo in misura minore ii depositi da catene leggere. Il grado d’accumulo a livello miocardico è variabile e determinato visivamente dallo score di Perugini (da 0 = nessun accumulo a 3 = accumulo miocardico patologico, superiore a quello osseo). Nei pazienti con score 2-3, in assenza di segni laboratoristici suggestivi per amiloidosi AL, la diagnosi non invasiva d’amiloidosi ATTR è possibile con specificità e sensibilità superiori al 99%. La successiva analisi genetica consentirà la distinzione tra forme mutant e wild-type. Nei casi non diagnostici o dubbi (score di Perugini 2-3 in presenza di screening ematologico per discrasie plasmacellulari positivo, score di Perugini 0-1 in presenza di un sospetto d’amiloidosi ATTR ancora alto), la diagnosi definitiva resta invasiva e necessita di biopsia dei tessuti coinvolti.