QUANTO SALE NEGLI ALIMENTI?

Si può mangiare un po’ più ‘salato’ di quanto consiglia attualmente l’Organizzazione Mondiale della Sanità, senza esagerare, e bilanciando con un’adeguata assunzione di potassio. Lo stabilisce una ricerca condotta dal gruppo di ricerca PURE (Prospective Urban Rural Epidemiological), coordinato da Salim Yusuf, uno dei trialisti più famosi del mondo, che ha analizzato l’escrezione urinaria di sodio e potassio (utilizzata come surrogato dell’assunzione alimentare), correlandola agli eventi cardiovascolari e alla mortalità, in una popolazione di 103.570 adulti appartenenti a 18 diverse nazioni. L’analisi ha consentito di suddividere i partecipanti in sei categorie, in base all’escrezione di sodio e potassio combinate: escrezione di sodio bassa (<3 gr/die), moderata (3-5 g/die) e alta (> 5 g/die), con un’escrezione di potassio maggiore, uguale o inferiore a 2.1 g/die.
L’escrezione urinaria media di sodio e potassio è risultata rispettivamente di 4.93 g/die e di 2.12 g/die. Un’aumentata escrezione urinaria di sodio è risultata correlata positivamente con un’aumentata escrezione urinaria di potassio. Dopo un follow-up di 8.2 anni, il 6.1% (7.884) dei partecipanti è deceduto o ha subito un evento cardiovascolare maggiore.
Da questa complessa analisi emerge una relazione a curva J tra escrezione urinaria di sodio ed eventi cardiovascolari/mortalità, mentre si è evidenziata una relazione inversa tra l’escrezione di potassio ed eventi cardiovascolari/mortalità. Analizzando le diverse categorie definite dall’escrezione congiunta di sodio e potassio, emerge che quella associata al minor rischio di eventi cardiovascolari/mortalità, caratterizzata da escrezione moderata di sodio (3-5 g/die) ed elevata di potassio, è presente nel 21.9% della coorte esaminata. Rispetto a questa categoria a basso rischio, le categorie a maggior rischio di eventi cardiovascolari/mortalità sono quelle con bassa escrezione di sodio/bassa escrezione di potassio (+ 23%) e con alta escrezione di sodio/bassa escrezione di potassio (+ 21%). Il concetto generale è che una maggior escrezione urinaria di potassio attenuerebbe l’aumentato rischio cardiovascolare associato a un’elevata escrezione di sodio.
Secondo gli autori questi risultati suggeriscono che la ricetta vincente per la salute cardiovascolare e per ridurre il rischio di mortalità sia rappresentata da un’assunzione di sodio moderata (3-5 g/die*), associata a un elevato apporto alimentare di potassio. Le attuali raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono molto restrittive, poiché prevedono <2.0 grammi al giorno di sodio (l’assunzione media nella vita reale è di circa 4 gr/die) e 3.5 g al giorno di potassio (l’assunzione media nella vita reale è di circa 2 gr/die).
*1 grammo di sale da cucina contiene circa 0.4 grammi di sodio; quindi 1 grammo di sodio equivale a 2.5 grammi di sale da cucina.

Brit Med J (IF=23.562) 364:I772,2019

PERCHÉ MANGIARE PANE INTEGRALE PROTEGGE DAL DIABETE?

Chi mangia pane integrale ha livelli di serotonina circolante inferiori rispetto a chi consuma pane bianco, a basso contenuto di fibre. Lo rivela uno studio realizzato dall’Università della Finlandia Orientale e dallo IARC (International Agency for Research on Cancer). La ricerca dimostra anche che il consumo di fibre derivanti dal frumento o dalla segale integrale riduce i livelli di serotonina nel colon degli animali da esperimento (topo). L’effetto salutare del consumo di fibre potrebbe dunque derivare in parte dalla ridotta sintesi di serotonina da parte dell’intestino, che è l’organo maggiormente responsabile della sua produzione.
È noto da tempo che il consumo di cereali integrali si associa a un minor rischio di diabete di tipo 2, di malattie cardiovascolari e di alcuni tumori, ma finora non erano noti i meccanismi alla base di questi effetti protettivi. Si ipotizza che potrebbe trattarsi di un effetto legato ad alcune sostanza bioattive presenti nei cereali integrali, di fitochimici e di fibre, a partire dalle quali i batteri intestinali producono una serie di metaboliti biologicamente attivi.
Nello studio clinico, ai partecipanti, finlandesi e napoletani con sindrome metabolica, è stato chiesto di consumare dalle 6 alle 10 fette di pane bianco, a basso contenuto di fibre per 4 settimane; quindi per altre 4 settimane, è stato chiesto loro di mangiare la stessa quantità di pane integrale (di segale o di frumento, supplementato di fibre di segale). Per il resto la loro dieta abituale non subiva variazioni. Al termine dei due periodi di studio veniva prelevato loro un campione di sangue, analizzato in cromatografia liquida e spettrometria di massa per fare il profiling dei metaboliti presenti nel sangue e valutare le differenze tra il primo e il secondo prelievo. Il consumo di segale integrale ha prodotto una significativa riduzione delle concentrazioni plasmatiche di serotonina, rispetto al consumo di pane bianco.
Nello studio sperimentale, i ricercatori hanno indagato nel topo se l’aggiunta di fibre (crusca di segale, di frumento o farina di cellulosa) alla dieta per 9 settimane comportasse variazioni nella produzione di serotonina da parte dell’intestino. I topi nutriti con crusca di segale o di frumento presentavano livelli di serotonina nel colon significativamente più bassi rispetto agli altri animali.
La serotonina è nota soprattutto per il ruolo di neurotrasmettitore a livello cerebrale, tuttavia la quota prodotta dall’intestino resta separata da quella prodotta nel cervello e svolge una serie di funzioni periferiche, compresa la regolazione della motilità intestinale e della produzione di mediatori dell’infiammazione e dell’immunità. Elevati livelli di serotonina circolanti sono poi associati ad elevati livelli di glicemia, mentre bassi livelli di serotonina riducono il rischio di diabete (e forse anche di tumore del colon).

Am J Clin Nutr (IF=6.549) 109:1630,2019

TUMORE DEL FEGATO. QUANTO CONTA QUELLO CHE MANGIAMO?

Cereali integrali e fibre possono ridurre il rischio di tumore del fegato? È questa la domanda alla quale ha cercato di rispondere uno studio osservazionale americano dopo aver seguito le abitudini alimentari di oltre 125mila individui per 24 anni. I ricercatori hanno analizzato caratteristiche (BMI, diabete di tipo 2) e stili di vita (attività fisica, abitudine al fumo, assunzione di alcool) di oltre 77 mila donne e 48 mila uomini di età media pari a 63 anni. E hanno focalizzato la loro attenzione in particolare sull’assunzione di alcuni alimenti come cereali, crusca, frutta e verdura, effettuando lungo tutta la durata della ricerca dei controlli ogni quattro anni. Nel corso del follow-up sono stati riscontrati 141 casi (70 donne e 71 uomini) di carcinoma epatocellulare, la forma più comune di tumore del fegato. Un maggior apporto alimentare di cereali integrali è associato a un minor rischio di sviluppare questo tipo di tumore (HR, 0.63; 95% CI, 0.41-0.96; P = .04); non è stata invece riscontrata un’associazione significativa tra assunzione di frutta e verdura e rischio di epatocarcinoma. L’assunzione di cereali integrali e fibre è stata già associata a un ridotto rischio di tumore al colon, verosimilmente perché il consumo di fibre determina una maggiore velocità del transito intestinale e quindi un minor contatto delle eventuali sostanze cancerogene presenti nei cibi con l’intestino.
Nel caso dell’epatocarcinoma, lo stile di vita alimentare non deve essere sottovalutato perché fattori come l’obesità, ma anche il sovrappeso e il colesterolo alto possono aumentare il rischio di accumulo di grasso nel fegato, con conseguente steatosi epatica e in alcuni casi steatoepatite, la forma più grave e uno dei principali fattori di rischio dell’epatocarcinoma. Mentre un paziente affetto da epatite è riconosciuto formalmente come paziente a rischio di carcinoma del fegato ed è quindi soggetto a una sorveglianza periodica dell’organo, molti pazienti obesi o diabetici sfuggono a questi controlli e la diagnosi del tumore al fegato avviene più tardivamente.

JAMA Oncol (IF=20.871) February 21, 2019. doi:10.1001/jamaoncol.2018.7159

IL COLESTEROLO ALIMENTARE AUMENTA IL RISCHIO DI INFARTO, ICTUS E MORTALITÀ

Le uova strapazzate con la fettina di bacon tutte le mattine a colazione non sono una buona abitudine; come non lo è il pane imburrato o il toast con affettati e formaggio.
Ricercatori americani hanno indagato l’impatto del colesterolo alimentare sull’incidenza di malattie cardiovascolari e di mortalità per tutte le cause. Dall’apparenza un po’ ‘vintage’, questo studio offre al contrario una puntualizzazione molto importante perché una dieta povera di colesterolo, inserita in un corretto stile di vita, ha la sua importanza nell’ambito della prevenzione.
Lo studio ha interessato circa 30 mila adulti americani (età media 51.6 anni, 44% maschi, 31.1% di colore), afferenti a 6 studi di coorte prospettici. Nel corso di un follow up mediano di 17.5 anni, si sono verificati 5.400 nuovi eventi cardiovascolari (2.088 casi di ischemia miocardica fatale e non fatale, 1.302 casi di ictus fatali e non fatali, 1.897 casi di scompenso cardiaco fatale e non fatale) oltre a 113 altri casi di morte per cause cardiovascolari e 6.123 decessi per tutte le cause.
Per ogni 300 mg di colesterolo alimentare consumati ogni giorno, il rischio di malattie cardiovascolari è aumentato del 17% e quello di mortalità per tutte le cause del 18%. Un mezzo uovo al giorno (circa 100 mg di colesterolo) in più è risultato associato in maniera significativa a un maggior rischio di malattie cardiovascolari e di mortalità per tutte le cause. L’associazione tra consumo alimentare di colesterolo e comparsa di malattie cardiovascolari è risultata più importante tra i partecipanti con indice di massa corporea inferiore a 25 (rischio +25% per 300 mg/die di colesterolo) che rispetto ai partecipanti in sovrappeso (rischio +5%) o agli obesi (rischio + 14%). L’associazione tra colesterolo alimentare e mortalità per tutte le cause è risultata più forte tra le femmine (rischio +28%) che tra i maschi (rischio +14%).

JAMA (IF=47.661) 321:1081,2019

EFFETTO DI UNA DIETA A BASSO CONTENUTO DI CARBOIDRATI SUL COLESTEROLO LDL

Gli autori dello studio che vi proponiamo oggi hanno esaminato l’impatto di una alimentazione a basso contenuto di carboidrati sui livelli di colesterolo LDL e sull’espressione di geni regolatori del metabolismo lipidico in una popolazione di giovani adulti in buona salute. I 15 partecipanti assegnati al gruppo d’intervento hanno seguito un regime alimentare a basso contenuto di carboidrati (meno di 20 g di carboidrati al giorno) per tre settimane, mentre i 15 soggetti di controllo hanno continuato la dieta abituale. Nel gruppo di intervento, i livelli medi di colesterolo LDL sono aumentati da 84.9 mg/dl a 119.7 mg/dl, mentre nel gruppo di controllo sono rimasti invariati. L’aumento individuale di colesterolo LDL variava da un minimo del 5% a un massimo del 107%, mostrando quindi un’elevata variabilità interindividuale. È stato anche riscontrato un significativo aumento nei livelli di apolipoproteina B, colesterolo totale, colesterolo HDL, acidi grassi liberi, acido urico ed urea nel gruppo di intervento rispetto al controllo. Non sono state, invece, registrate differenze significative nei livelli plasmatici di trigliceridi, lipoproteina(a), glucosio, C-peptide, proteina C-reattiva, nonché di pressione arteriosa, peso corporeo e composizione corporea tra i due gruppi. L’imprevedibilità dell’effetto di questo intervento dietetico sui livelli di colesterolo LDL, unita all’osservazione di un aumento medio di circa il 44% degli stessi, portano gli autori a concludere a favore di un attento monitoraggio dei livelli di colesterolo LDL nelle persone che si attengono a questo tipo di regime alimentare.

Atherosclerosis (IF=4.467) 279:52,2018

DIABETE TIPO 2. MINOR RISCHIO DI CARDIOPATIE SE SI MANGIA FRUTTA SECCA

Secondo uno studio statunitense, i pazienti diabetici che mangiano regolarmente frutta secca hanno minori probabilità di sviluppare una cardiopatia rispetto a pazienti che lo fanno raramente, se non mai.
I ricercatori hanno somministrato questionari sull’alimentazione a 16.217 pazienti diabetici di tipo 2 di entrambi i sessi, seguiti per diversi anni. Le domande riguardavano il consumo di arachidi e frutta a guscio. Durante lo studio, 3.336 pazienti hanno sviluppato una malattia cardio- o cerebro-vascolare; 5.682 sono deceduti, di cui 1.663 per una patologia cardiovascolare e 1.297 per neoplasia. Dopo correzione per altri fattori di rischio, è emerso che nei pazienti diabetici che mangiavano almeno cinque porzioni a settimana da 28 grammi di frutta secca la probabilità di sviluppare una cardiopatia era ridotta del 17% rispetto ai pazienti che non consumavano più di una porzione a settimana. La mortalità cardiovascolare era ridotta del 34% e la mortalità totale del 31%. Non è stata riscontrata alcuna associazione tra consumo di frutta secca e incidenza di ictus o mortalità per cancro. Il consumo di frutta a guscio come noci, mandorle, noce brasiliana, anacardi, pistacchi, noci pecan, noci macadamia, nocciole e pinoli era più strettamente correlata a un minor rischio di cardiopatia rispetto alle arachidi, che in realtà sono legumi che crescono sottoterra.
È possibile che il consumo di frutta secca contribuisca a migliorare il controllo della glicemia e l’infiammazione grazie, almeno in parte, alla presenza di nutrienti quali acidi grassi insaturi, fibra, vitamina E e folati e di minerali come calcio, potassio e magnesio.
Un motivo per cui la frutta a guscio potrebbe essere più protettiva delle arachidi è che tende ad essere consumata con la buccia o con la scorza esterna, dove si trovano la maggior parte degli antiossidanti, mentre le arachidi vengono generalmente ingerite senza il guscio; le arachidi di solito vengono tostate e salate, e il sale aggiunto potrebbe contrastare il beneficio dei componenti originari del frutto. Questi dati forniscono nuove evidenze a sostegno del consiglio di integrare la frutta secca nei modelli alimentari salutari per la prevenzione delle complicazioni cardiovascolari e dei decessi prematuri nei pazienti diabetici.

Circ Res (IF=15.211) 2019 Feb 19. doi: 10.1161/CIRCRESAHA.118.314316.

USARE LO SMARTPHONE (O LEGGERE) A TAVOLA FA INGRASSARE

Mangiare buttando un occhio allo smartphone – che sia per chattare, leggere le notizie o cercare qualcosa in rete – si traduce in un aumento del 15% dell’apporto calorico, con un maggiore consumo di cibi grassi. Il che significa ingrassare senza nemmeno rendersene conto, anche se la sensazione è quella di consumare dei pasti normali.

A questa conclusione è giunto un gruppo di ricercatori della Federal University di Lavras (Brasile) e dell’University Medical Center di Utrecht (Olanda), dopo aver filmato i comportamenti di 62 adulti fra i 18 e i 28 anni, a cui era stato chiesto di mangiare in tre situazioni diverse (senza distrazioni, mentre consultavano lo smartphone o leggevano una rivista), scegliendo fra una varietà di opzioni che spaziavano dai cibi sani a quelli cosiddetti “spazzatura”. Dall’analisi dei risultati è emerso che le persone che non si distraevano durante il pasto consumavano in media 535 kcal; coloro che guardavano lo smartphone consumavano 591 kcal (che salivano a 616 per gli individui in sovrappeso) e il 10% in più di cibi grassi. E anche chi si distraeva leggendo una rivista tendeva a fare il pieno di calorie, consumandone 636.

Physiol Behav (IF=2.885) 204:93,2019

FEGATO GRASSO NELL’ANZIANO. ATTENZIONE ALLE PROTEINE ANIMALI

Un elevato consumo di proteine animali aumenta la probabilità di avere un eccesso di grasso nel fegato e il rischio di malattia epatica rispetto al consumo di proteine vegetali. È quanto emerge da uno studio olandese, che ha messo in relazione il consumo di macronutrienti (proteine, carboidrati, grassi e fibre) con dati ultrasonografici sul grasso epatico in 3.882 adulti con un’età media pari a 70 anni. Le scansioni hanno mostrato che 1.337 partecipanti (il 34%) avevano una NAFLD (Non Alcoholic Fatty Liver Disease); di questi 132 erano normopeso e 1.205 sovrappeso. Tra i partecipanti sovrappeso, quelli che assumevano soprattutto proteine animali hanno fatto registrare il 54% di probabilità in più di avere il fegato grasso rispetto a coloro che consumavano quantitativi inferiori di carne,
indipendentemente dall’assunzione calorica totale. I risultati dello studio  confermano l’importanza di abitudini alimentari sane nel ridurre il rischio di malattia del fegato grasso. La carne, in particolare quella rossa e quella lavorata, è particolarmente insidiosa perché può generare infiammazione e insulino-resistenza, che fanno accumulare grasso nel fegato. I risultati dello studio suggeriscono che si dovrebbe limitare la carne rossa e lavorata e provare a mangiare più pesce, seguendo una dieta mediterranea ricca di cereali integrali, verdure e olio d’oliva.

Gut (IF=17.016) 2018 Jul 31. doi:10.1136/gutjnl-2017-315940

MANGIARE CIBI FRITTI ACCORCIA LA VITA

L’ennesima conferma che i cibi fritti danneggiano la salute viene da un’analisi dei dati raccolti nel corso del programma “Women’s Health Initiative”, avviato negli Stati Uniti anni 1993-1998 e che ha coinvolto più di 100.000 donne (età 50-79 anni al momento del reclutamento). Dall’inizio dello studio al 2017 sono stati registrati 31.558 decessi. Il consumare almeno una porzione di “fritto” al giorno aumenta dell’8% la mortalità totale e di altrettanto la mortalità cardiovascolare. La mortalità totale aumenta del 13% se si mangia pollo fritto, e del 7% se si mangia pesce fritto. Non esiste alcuna relazione tra consumo di cibi fritti e mortalità per cancro.

Brit Med J (IF=23.562) 364:k5420,2019

FIBRE E CEREALI INTEGRALI FANNO BENE ALLA SALUTE

La prestigiosa rivista Lancet ha pubblicato pochi giorni fa un imponente lavoro di revisione sistematica e metanalisi sull’impatto di carboidrati di diversa qualità sulla salute. Gli autori hanno preso in esame tutti gli studi prospettici pubblicati a partire dal 30 aprile 2017 e tutti i trial clinici randomizzati pubblicati a partire dal 28 febbraio 2018 che riportavano l’indicazione della qualità dei carboidrati e dell’incidenza di patologie non trasmissibili, mortalità e fattori di rischio (sono stati esclusi gli studi su pazienti con patologie croniche o i trial su calo ponderale o quelli riguardanti la somministrazione di supplementi). Sono stati così selezionati dati relativi a circa 135 milioni di anni-paziente, provenienti da 185 studi prospettici e 58 trials clinici su 4.635 partecipanti.
I dati osservazionali suggeriscono che i soggetti che riferiscono un elevato consumo di fibre alimentari, rispetto ai bassi consumatori, presentano una riduzione del 15-30% nella mortalità cardiovascolare e per tutte le cause, nell’incidenza di coronaropatie, di incidenza e mortalità per ictus, di diabete mellito di tipo 2 e di cancro del colon retto. Il beneficio maggiore si riscontra in chi consuma 25-29 gr fi fibre al giorno (Figura).

Risultati simili emergono dai dati relativi al consumo di cereali integrali, mentre non sono state riscontrate differenze significative confrontando diete a basso ed elevato indice o carico glicemico.
L’implementazione di raccomandazioni volte ad aumentare il consumo di fibre alimentari e a sostituire i cereali raffinati con quelli integrali potrebbe dunque apportare notevoli benefici alla salute.

Lancet (IF=53.254) 2019 Jan 10. doi: 10.1016/S0140-6736(18)31809-9.