GLI INIBITORI DEI COTRASPORTATORI DEL GLUCOSIO ANCHE NEL DIABETE DI TIPO 1?

I pazienti con diabete mellito di tipo 1 debbono costantemente assumere insulina per mantenere un adeguato controllo della glicemia. Non esistono in commercio farmaci somministrabili per via orale che possano aiutarli in questa complicata terapia. Lo studio che vi proponiamo oggi apre la strada all’approvazione per il trattamento di questa forma di diabete di una nuova molecola, il sotagliflozin.

Il sotagliflozin appartiene alla famiglia degli inibitori dei cotrasportatori del glucosio SGLT, come empagliflozin, canagliflozin e dapagliflozin, già approvati per il trattamento del diabete di tipo 2. In particolare, il sotagliflozin inibisce sia il cotrasportatore SGLT1 intestinale che l’SGLT2 renale, riducendo così il riassorbimento del glucosio nell’intestino e nel rene.

Lo studio clinico di fase 3, i cui risultati sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine, ha reclutato 1.402 pazienti con diabete di tipo 1 provenienti da 133 centri di ricerca dislocati in 19 Paesi del Mondo, ovviamente trattati con insulina. Metà di essi ha assunto anche sotagliflozin (400 mg/die per os) per un periodo di 24 settimane. L’aggiunta del sotagliflozin ha consentito di aumentare del 30% il numero di pazienti che ha raggiunto valori di emoglobina glicata inferiori al 7%, indice di un buon controllo del metabolismo glicemico. Ha permesso anche di ridurre in modo significativo il fabbisogno di insulina, le ipoglicemie, la pressione arteriosa (meno 3,5 mm Hg di sistolica) e il peso corporeo (meno 2,98 kg).

N Engl J Med (IF=72.406) September 13, 2017DOI:10.1056/NEJMoa1708337

DIABETE. IN ITALIA 3,2 MILIONI DI MALATI

L’ultimo rapporto ISTAT certifica che la prevalenza di diabete in Italia è quasi raddoppiata in trent’anni. Nel 1980 il 2,9% della popolazione soffriva di diabete, nel 2016 i malati sono il 5,3% dell’intera popolazione (il 16,5% fra le persone di 65 anni e oltre). Anche rispetto al 2000 i diabetici sono 1 milione in più. L’aumento è dovuto sia all’invecchiamento della popolazione che ad altri fattori, tra cui l’anticipazione della diagnosi (che porta in evidenza casi prima sconosciuti) e l’aumento della sopravvivenza dei malati di diabete. Confrontando le generazioni, nelle coorti di nascita più recente la quota di diabetici aumenta più precocemente che nelle generazioni precedenti, a conferma di una progressiva anticipazione dell’età in cui si diagnostica la malattia. Nell’ultimo decennio, poi, la mortalità per diabete si è ridotta di oltre il 20% in tutte le classi di età.
Il diabete è una malattia fortemente associata allo svantaggio socioeconomico. Tra le donne le disuguaglianze sono maggiori in tutte le classi di età: le donne diabetiche di 65-74 anni con laurea o diploma sono il 6,8%, le coetanee con al massimo la licenza media il 13,8% (i maschi della stessa classe di età sono rispettivamente il 13,2 e il 16,4%). Lo svantaggio socioeconomico si conferma anche nella mortalità ed è più evidente nelle donne, al contrario di quanto si osserva per le altre cause di morte: le donne con titolo di studio basso hanno un rischio di morte 2,3 volte più elevato delle laureate.
Il diabete è più diffuso nelle regioni del Mezzogiorno dove la prevalenza è del 5,8% contro il 4,0% del Nord. Anche per la mortalità il Mezzogiorno presenta livelli sensibilmente più elevati per entrambi i sessi.
Obesità e sedentarietà sono rilevanti fattori di rischio per la malattia diabetica. Tra i 45-64enni la percentuale di persone obese che soffrono di diabete è al 28,9% per gli uomini e al 32,8% per le donne (per i non diabetici rispettivamente 13,0% e 9,5%). Nella stessa classe di età il 47,5% degli uomini e il 64,2% delle donne con diabete non pratica alcuna attività fisica nel tempo libero.

BROCCOLI PER IL TRATTAMENTO DEL DIABETE? DALL’AGRICOLTURA ALLA NUTRACEUTICA

Il consumo di vegetali è un componente cruciale della dieta mediterranea, che come sapete costituisce il modello di alimentazione ideale per prevenire l’insorgenza di malattie cardiovascolari, ridurre la mortalità e promuovere la longevità. Qui si evidenzia il ruolo dei broccoli nel controllo del metabolismo glucidico e del diabete.

I broccoli, come cavoli e cavolini di Bruxelles, contengono una sostanza, il sulforafano appartenente alla famiglia degli isotiacianati, che è in grado di interagire con vari bersagli biologici, proponendosi quindi come nutraceutico per il trattamento di varie patologie, come cancro, broncopneumopatia cronica ostruttiva e malattie infiammatorie croniche.

Il sulforafano è in grado di ridurre la glicemia nei ratti diabetici. Ora un team di ricercatori svedesi e statunitensi dimostra che un estratto di broccoli contenente un’elevata concentrazione di glucorafanina, il precursore del sulforafano, è in grado di ridurre la produzione di glucosio in vitro nelle cellule del fegato. Lo stesso estratto è stato poi somministrato giornalmente, alla dose giornaliera corrispondente a 5 kg. di broccoli (ecco la differenza tra alimento e nutraceutico!) per un periodo di12 settimane, a 97 pazienti con diabete di tipo 2 trattati con metformina, il farmaco d’elezione per questa malattia. L’estratto ha ridotto la glicemia del 10%, con efficacia maggiore nei pazienti obesi con scarso controllo glicemico. L’estratto, che è stato ben tollerato, non è ancora in commercio, ma il suo debutto sugli scaffali delle farmacie non è lontano. Ecco un altro fulgido esempio di come un alimento può trasformarsi in nutraceutico.

Sci Transl Med (IF=16.761) Jun 14 2017; 9(394). doi: 10.1126/scitranslmed.aah4477

INIBITORI DEL TRASPORTATORE SGLT2 E INSUFFICIENZA CARDIACA: CONFERME DAL “MONDO REALE” NELLO STUDIO CVD-REAL

L’empagliflozin, un inibitore del riassorbimento renale di glucosio mediato dal trasportatore SGLT2, ha ridotto l’incidenza di morte cardiovascolare e di ospedalizzazione per insufficienza cardiaca in pazienti con diabete di tipo 2 e malattia aterosclerotica cardiovascolare. Questa evidenza è stata ora estesa agli altri inibitori di SGLT2 oggi disponibili in clinica. Lo studio CVD-REAL ha infatti confrontato l’incidenza di questi stessi endpoints in pazienti sottoposti a trattamento con qualsiasi inibitore di SGLT2 rispetto ad altri farmaci ipoglicemizzanti, con lo scopo di verificare se tale beneficio cardiovascolare è confermato anche nella pratica reale e se si tratta o meno di un effetto di classe. I dati sono stati raccolti tramite i registri nazionali di Stati Uniti, Norvegia, Danimarca, Svezia, Germania e Regno Unito. Sono stati analizzati 309.056 pazienti diabetici, metà dei quali trattati con un inibitore di SGLT2. Canagliflozin, dapagliflozin ed empagliflozin erano utilizzati rispettivamente nel 53%, 42% e 5% dei pazienti trattati con un inibitore di SGLT-2. L’uso degli inibitori di SGLT-2, rispetto agli altri farmaci ipoglicemizzanti, ha prodotto una riduzione del 40% delle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco (HR 0.61; P<0.001) e del 50 % della mortalità totale (HR 0.49; P<0.001). L’effetto sulla combinazione dei due endpoints, morte e ospedalizzazioni, è stato di -46% (HR 0.54, P<0.001) (Figura). Si conferma quindi il beneficio cardiovascolare di una terapia con inibitori del riassorbimento renale di glucosio nel paziente diabetico.

Circulation (IF=19.309) 136:249,2017

 

METFORMINA E ATEROSCLEROSI PRECLINICA NEL PREDIABETE

Il Diabetes Prevention Program and its Outcome Study (DPPOS), che ha coinvolto 3.234 persone con prediabete, aveva evidenziato come la metformina e l’adozione di corretti stili di vita avessero permesso di ridurre il rischio di sviluppare il diabete rispetto al placebo (N Engl J Med. 346:393, 2002). Una nuova analisi dei dati del DPPOS dimostra che la metformina rallenta la crescita delle calcificazioni aorto-coronariche (CAC). Nel nuovo studio, Ronald Goldberg della University of Miami e il suo team hanno esaminato i dati di 2.029 partecipanti al DPPOS. Al follow-up (14 anni) i ricercatori non hanno riscontrato differenze nella formazione di CAC tra il gruppo placebo e i gruppi che si sono sottoposti solo a un cambiamento dello stile di vita. È stato invece osservato che solo il 75% degli uomini in trattamento con metformina mostrava CAC, rispetto all’84% degli uomini del gruppo placebo; inoltre, la gravità delle CAC era inferiore nel gruppo di pazienti trattati con metformina (39,5 vs. 66,9 AU). Tali differenze sono state registrate solo nei soggetti di sesso maschile, mentre non è stato osservato nessun effetto nelle donne.

Questi risultati forniscono la prima prova che la metformina può proteggere dall’aterosclerosi coronarica negli uomini con prediabete, anche se è necessaria una dimostrazione che la metformina riduce anche gli eventi cardiovascolari in questi soggetti (come avviene nei pazienti diabetici) prima di poter formulare qualsiasi ipotesi terapeutica. Come osservano i ricercatori in una nota, la metformina potrebbe contribuire a ridurre le CAC migliorando la funzionalità endoteliale e migliorando il profilo lipidico dei pazienti, nonché riducendo l’infiammazione. Il differente effetto tra uomini e donne potrebbe essere riconducibile a interazioni ormonali; è stato infatti dimostrato che la metformina riduce i livelli di testosterone negli uomini, ma non nelle donne.

Circulation (IF=19.309) 136:52, 2017

FARMACI INCRETINO-MIMETICI PER IL TRATTAMENTO DEL DIABETE – 2

Come vi dicevo la scorsa settimana, sono due le famiglie di farmaci che agiscono con azione incretino-mimetica: ormoni naturali simil-GLP-1 e analoghi sintetici del GLP-1. Tutti questi farmaci aumentano la secrezione pancreatica glucosio-dipendente di insulina, interagendo con il recettore del GLP-1 (GLP1R) espresso sulla membrana delle cellule beta-pancreatiche, riducono la glicemia e l’emoglobina glicata e sono indicati per il trattamento del paziente con diabete mellito di tipo 2. Gli effetti indesiderati sono rappresentati soprattutto da nausea e vomito, peraltro in progressiva diminuzione con il proseguimento del trattamento, reazioni allergiche e ipoglicemia (quando utilizzati in associazione con insulina o sulfaniluree).

Appartiene alla prima famiglia l’Exenatide, forma sintetica dell’exendin-4, un peptide naturale di 39 aminoacidi prodotto dal Gila Monster, un rettile che vive nel deserto dell’Arizona. Exendin-4 è codificato da un gene distinto da quello del GLP-1 e mostra un’omologia di sequenza del 52% con il GLP-1. L’Exenatide ha una struttura identica alla molecola naturale exendin-4, mostra un’affinità di legame al GLP1R identica al GLP-1 umano, è resistente alla degradazione ad opera della DPP-IV (Figura), viene rapidamente assorbita dopo iniezione sc e si presta a schemi di trattamento basati su due somministrazioni giornaliere. Di Exenatide è stata sviluppata, una forma ritardo (LAR) che viene somministrata una volta alla settimana.

La famiglia degli analoghi sintetici del GLP-1 include quattro prodotti oggi in commercio. Il primo a essere introdotto in terapia, nel 2010, è la Liraglutide: rispetto alla sequenza del GLP-1 umano presenta una sostituzione (arginina al posto di lisina) in posizione 34 e l’aggiunta di un acido grasso a 16 atomi di carbonio ancorato a un residuo di glutammato a sua volta legato alla lisina in posizione 26 (Figura). L’acilazione e la diversa sequenza della molecola ne modificano la farmacocinetica, determinandone un più lento assorbimento dal deposito sottocutaneo, una più lunga emivita per il legame dell’acido grasso con l’albumina circolante e una più lenta degradazione da parte della DPP-IV. Grazie a queste caratteristiche, Liraglutide può essere somministrata per via sc una volta al giorno. Gli altri analoghi sintetici di GLP-1 sono Albiglutide (un dimero del GLP-1 fuso all’albumina), Dulaglutide (il GLP-1 legato covalentemente al frammento Fc dell’IgG4 umana) e Lixisenatide (un derivato dell’exendin-4).

OBESITÀ E MORTALITÀ NEL DIABETICO

L’obesità è un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari e si associa a un’aumentata mortalità per tutte le cause. Quest’ultima relazione non è però del tutto chiara nel paziente diabetico, con alcuni studi che dimostrano addirittura il contrario, ovvero che nel diabetico l’obesità riduce la mortalità rispetto al normopeso. Per cercare di chiarire questo paradosso studiosi sudcoreani hanno condotto un’enorme indagine prospettica in cui hanno esaminato l’associazione tra indice di massa corporea (BMI) e mortalità in soggetti normoglicemici (glicemia a digiuno <100 mg dL), o con alterata glicemia a digiuno (IFG) (100-125 mg dl), diabete di nuova diagnosi (≥126 mg dL), e diabete prevalente (auto-riferito). Quasi 13 milioni di adulti sono stati monitorati per più di 10 anni, durante i quali 454.546 uomini e 239.877 donne sono deceduti.

È stata osservata un’associazione a forma di U tra BMI e mortalità, indipendentemente dalla condizione della glicemia, sesso, età e storia di fumo; la mortalità aumentava al variare del BMI al di sotto o al di sopra di un valore ideale, diverso per ciascuna delle quattro categorie esaminate. Il valore di BMI ideale, associato alla mortalità più bassa, andava aumentando con l’aggravarsi della condizione metabolica: 23,5-27,9 kg/m2 nei soggetti normoglicemici, 25-27,9 kg/m2 in quelli con IFG, 25-29,4 kg/m2 nei diabetici di nuova diagnosi, e 26,5-29,4 kg/m2 in quelli con diabete prevalente. La mortalità aumentava con l’aggravarsi della condizione metabolica negli individui a basso BMI, ma la relazione si invertiva all’aumento del BMI, a conferma che nel paziente diabetico il sovrappeso favorisce la longevità.

Diabetes Care (IF=11.857) April 2017, DOI: https://doi.org/10.2337/dc16-1458

FARMACI INCRETINO-MIMETICI PER IL TRATTAMENTO DEL DIABETE – 1

Il concetto di incretina si sviluppa a partire dagli anni ‘30 del secolo scorso e definisce l’insieme di sostanze endogene, successivamente identificate come ormoni, responsabili del fenomeno per cui la risposta della secrezione di insulina a una dose standard di glucosio è significativamente superiore se lo stesso glucosio viene somministrato per via orale rispetto alla via endovenosa (Figura). Si è successivamente osservato che questo effetto incretinico dipendeva in larga misura dalla secrezione di due ormoni peptidici prodotti nel tratto gastroenterico: il GIP (gastric inhibitory polipeptide), prodotto dalle cellule K di duodeno e digiuno, e il GLP-1 (glucagon-like peptide-1), prodotto dalle cellule L dell’ileo.

GIP e GLP-1 sono simili in quanto la loro produzione viene stimolata dalla ingestione di cibo, aumentano la secrezione pancreatica di insulina in risposta al glucosio, e vengono rapidamente (emivita di 1-2 minuti) degradati a peptidi inattivi dall’enzima DPP-IV (dipeptidil peptidasi-IV). Il GLP-1 ha funzioni aggiuntive, come il rallentamento dello svuotamento gastrico, la soppressione della secrezione pancreatica di glucagone e la riduzione dell’assunzione di cibo. Il GLP-1 svolge anche un’azione diretta sulla cellula beta pancreatica, con stimolo della proliferazione e neogenesi dalle cellule duttali, e riduzione dell’apoptosi, favorendo così la crescita della massa beta-cellulare. Un ulteriore elemento di distinzione tra i due ormoni riguarda la secrezione nel diabete di tipo 2, ridotta per il GLP-1, inalterata per il GIP.

Con l’identificazione del GLP-1 nei primi anni ’80 e la progressiva dimostrazione dei suoi effetti metabolici si è reso attraente un suo possibile impiego terapeutico, soprattutto nel diabete di tipo 2. In effetti il GLP-1, ottenuto in forma ricombinante, si è dimostrato in grado di migliorare significativamente il controllo glicemico in pazienti con diabete di tipo 2.

Tuttavia un trattamento con GLP-1 non poteva rappresentare una terapia applicabile su larga scala a causa della necessità di ricorrere a una infusione continua per ovviare alla breve emivita. Si sono pertanto esplorate diverse possibilità terapeutiche alternative all’infusione di GLP-1, incentrate sul principio di riprodurne l’azione; di qui il termine di incretino-mimetici. Alcuni composti sono recentemente approdati alla pratica clinica, altri sono in fase avanzata di sperimentazione. Sono due le famiglie di farmaci che agiscono con azione incretino-mimetica: ormoni naturali simil-GLP-1 e analoghi sintetici del GLP-1. Una terza famiglia include molecole, non propriamente incretino-mimetiche, che prolungano l’azione del GLP-1 endogeno, inibendo l’enzima DPP-IV. Ve ne parlerò presto.

MANGIARE VEGETARIANO? PER IL PAZIENTE DIABETICO È PIÙ FACILE PERDERE PESO

La dieta vegetariana non è soltanto amica dell’ambiente, ma anche della forma fisica: secondo un nuovo studio, questo tipo di regime alimentare sarebbe due volte più efficace di una dieta convenzionale nel ridurre il peso corporeo nel paziente diabetico.

I ricercatori del hanno analizzato la risposta di 74 pazienti con diabete di tipo 2 a una dieta ipocalorica (-500 kcal/giorno): metà hanno seguito una dieta vegetariana, metà una classica dieta per pazienti diabetici. Dopo sei mesi, i primi hanno perso in media 6,2 kg, mentre i secondi circa 3,2 kg. Entrambe le diete sono risultati efficaci per ridurre il tessuto adiposo sottocutaneo, ma quella vegetariana ha ridotto maggiormente la massa grassa totale. Entrambe le diete hanno ridotto i livelli di emoglobina glicata e aumentato la sensibilità all’insulina.

Rimane da verificare che mangiare vegetariano sia utile a perdere peso e migliorare il metabolismo glucidico anche nei soggetti non diabetici.

J Am Coll Nutr. (IF=2.107) 36:364, 2017

DIETA IPOCALORICA E Lp(a)

Abbiamo già visto come livelli elevati di lipoproteina(a) [Lp(a)] siano un fattore di rischio indipendente dai fattori più convenzionali (colesterolo, pressione…) per lo sviluppo di malattia cardiovascolare. Ciò sembra particolarmente rilevante nei pazienti con diabete di tipo 2. È poi noto che la perdita di peso nel paziente diabetico influenza positivamente molti fattori di rischio, ma non se ne conoscono gli effetti sui livelli di Lp(a). Per rispondere a questo quesito, ricercatori olandesi hanno misurato i livelli plasmatici di Lp(a) prima e dopo 3-4 mesi di dieta ipocalorica in tre coorti indipendenti. La coorte primaria era costituita da 131 pazienti prevalentemente obesi con diabete tipo 2 (coorte 1), partecipanti allo studio Prevention Of Weight Regain in diabetes type 2 (POWER). Le coorti secondarie consistevano di 30 pazienti obesi e diabetici (coorte 2) e di 37 individui obesi non diabetici (coorte 3). Una quarta coorte di controllo consisteva di 26 individui obesi non diabetici sottoposti a chirurgia bariatrica, ma non a dieta ipocalorica.

Nella coorte primaria, la dieta ipocalorica ha determinato una perdita di peso di 10.2 kg (9.9%) e un miglioramento nei fattori di rischio convenzionali, ma ha aumentato i livelli di Lp(a). Un analogo aumento dei livelli di Lp(a) è stato osservato nelle coorti 2 e 3, in concomitanza con una perdita di peso dell’8.5% e del 6.5%. Combinando i dati di queste tre coorti di pazienti, l’aumento di Lp(a) correlava con la perdita di peso; in altre parole più il soggetto perdeva peso con la dieta ipocalorica, più la sua concentrazione di Lp(a) nel sangue aumentava. Inoltre, l’aumento dell’Lp(a) correlava con la concentrazione basale: tanto maggiore era la concentrazione di Lp(a) prima della dieta, tanto maggiore l’aumento dopo la dieta. Nei soggetti sottoposti a chirurgia bariatrica e non a dieta (coorte 4), che pure dimostravano la maggiore perdita di peso (14%), i livelli di Lp(a) non cambiavano, a suggerire che l’aumento dell’Lp(a) sia imputabile alla dieta e non alla perdita di peso. Le caratteristiche dello studio non permettono di identificare i meccanismi che sottendono l’effetto della dieta ipocalorica sull’Lp(a), ma i risultati fanno suonare un campanello d’allarme sui benefici che una dieta ipocalorica può produrre sul rischio cardiovascolare globale di un individuo, in particolare se esso è diabetico con un elevato livello di Lp(a).

Berk et al, Diabetologia 60:989,2017