HDL E TUMORE ALLA PROSTATA

Massimilano Ruscica, Monica Gomaraschi

Il tumore prostatico rappresenta a oggi, nei Paesi occidentali, la seconda causa di morte per tumore nel sesso maschile. La prostata è una ghiandola delle dimensioni di una noce che con il passare degli anni oppure a causa di alcune patologie può ingrossarsi fino a dare disturbi soprattutto di tipo urinario (ipertrofia). Questa ghiandola è sensibile all’azione degli ormoni, in particolare il testosterone, che ne influenza la crescita. Il tumore prostatico, caratterizzato da cellule che crescono in modo incontrollato all’interno della ghiandola prostatica, evolve da una forma che risponde alla terapia di deprivazione ormonale ad una più aggressiva, dove le cellule tumorali acquisiscono un’autonomia di crescita indipendentemente dalla presenza degli androgeni. Ad oggi, le opzioni terapeutiche per la forma più aggressiva, cioè quella refrattaria alla terapia di deprivazione ormonale, sono limitate e la prognosi non è favorevole.

Al fine di identificare nuovi approcci terapeutici, è necessario comprendere quali fattori siano in grado di favorire la crescita delle cellule tumorali. uesto In questo studio è stato indagato il ruolo dello stress ossidativo: le cellule tumorali presentano una maggiore quantità di specie reattive dell’ossigeno (ROS) rispetto alle cellule normali e tale caratteristica potrebbe essere coinvolta nell’acquisizione di un fenotipo oncogenico. Le lipoproteine ad alta densità (HDL) sono state utilizzate come strumento per ridurre lo stress ossidativo, poiché il loro ruolo protettivo nello sviluppo dell’arteriosclerosi è dovuto anche alla loro azione antiossidante. Infatti, le HDL trasportano enzimi antiossidanti, come la paraoxonasi, possono legare le molecole ossidate per trasportarle al fegato per l’eliminazione e partecipano direttamente alla riduzione delle specie ossidate, grazie all’ossidazione delle loro componenti proteiche, le apolipoproteine A-I e A-II. Nello specifico, utilizzando due linee cellulari di tumore prostatico (LNCaP e PC-3), rappresentative del fenotipo rispondente agli androgeni e quello più aggressivo rispettivamente, è stato dimostrato come le HDL siano in grado di ridurre i livelli di ROS e conseguentemente di bloccare la crescita delle cellule tumorali. Tale attività antiossidante è esercitata anche da HDL sintetiche, particelle discoidali composte da apoA-I e fosfatidilcolina, oggi in fase di sviluppo clinico come agenti stabilizzanti della placca ateromasica. Pertanto, nella patologia tumorale prostatica, l’azione antiossidante delle HDL potrebbe essere utile per diminuire gli stimoli proliferativi presenti nel microambiente tumorale, favorendo così l’azione delle classiche terapie farmacologiche anti-tumorali.

Sci Rep (IF=4.259) 8:2236,2018

PERCHÉ IL COLESTEROLO HDL È “BUONO”? LE HDL PROTEGGONO DAL DANNO ENDOTELIALE

Per decenni l’endotelio, lo strato cellulare che riveste la superficie interna dei vasi sanguigni, è stato considerato come una barriera inerte atta a separare la parete vasale dal torrente circolatorio; recentemente è stato dimostrato che oltre a esercitare un ruolo strutturale l’endotelio è coinvolto nella regolazione della funzionalità vasale. In condizioni fisiologiche l’endotelio è un monostrato continuo con una superficie anti-adesiva per le cellule circolanti; inoltre produce e rilascia una serie di molecole vasoattive, quali ossido nitrico (NO) e prostaciclina (PGI2), che agiscono sulle cellule muscolari lisce sottostanti regolando il tono vasale. La perdita della funzionalità endoteliale è un evento chiave del processo aterosclerotico e si caratterizza per la ridotta disponibilità di molecole ad azione vasodilatante e per l’aumento di permeabilità, dovuto alla perdita di continuità del monostrato e all’espressione sulla superficie endoteliale di molecole favorenti l’adesione delle cellule circolanti.

Numerosi studi condotti in vitro ed in vivo hanno dimostrato che le HDL contribuiscono a preservare l’omeostasi endoteliale, proteggendo l’endotelio dai danni che favoriscono il processo aterosclerotico. Le HDL inibiscono la produzione di molecole pro-infiammatorie e di adesione cellulare, promuovendo il rilassamento della parete vasale e il mantenimento dell’integrità della barriera endoteliale. Le HDL stimolano la produzione e il rilascio di molecole vasoattive quali NO e PGI2 da parte delle cellule endoteliali. L’aumentata produzione di NO è dovuta all’induzione dell’espressione e attivazione dell’enzima ossido nitrico sintasi endoteliale (endothelial nitric oxide synthase, eNOS); tale effetto è mediato dall’interazione dell’apoA-I con il recettore scavenger SR-BI e dalla conseguente attivazione della via di segnale PI3K/Akt, che porta alla fosforilazione di eNOS. Inoltre, la sfingosina-1-fosfato (S1P), uno sfingolipide presente in piccole quantità nelle HDL, può mediare l’attivazione di eNOS per interazione con il proprio recettore S1P3. Le HDL sono in grado di aumentare anche la biodisponibilità di PGI2 attraverso diversi meccanismi che coinvolgono sia la componente lipidica che proteica delle HDL. La PGI2 è prodotta dalle cellule endoteliali a partire dall’acido arachidonico per azione delle ciclossigenasi (Cox-1 e soprattutto Cox-2) e della PGI2 sintasi. Le HDL possono fornire alle cellule l’arachidonato contenuto nei loro fosfolipidi ed esteri del colesterolo oppure possono rendere disponibile l’arachidonato presente nelle membrane attivando fosfolipasi calcio-dipendenti; inoltre, le HDL aumentano il contenuto cellulare di Cox-2 mediante meccanismi trascrizionali e post-trascrizionali.

Le HDL, e in particolare le particelle più piccole HDL3, sono in grado di inibire l’espressione delle molecole di adesione cellulare (CAMs), prevenendo così l’adesione delle cellule circolanti e la loro transmigrazione attraverso la parete vasale. I meccanismi responsabili di questo effetto non sono ancora stati completamente chiariti e potrebbero comprendere l’inibizione da parte delle HDL dell’attività della sfingosina chinasi e della traslocazione nucleare di NF-kB, e l’aumento dell’espressione di eme-ossigenasi 1 mediata da SR-BI.

Il risultato di tutto questo è che soggetti con livelli di HDL bassi presentano una disfunzione endoteliale, con ridotta vasodilatazione endotelio-mediata e quindi irrigidimento della parete arteriosa, che favorisce l’insorgenza di eventi cardiovascolari.

PERCHÉ IL COLESTEROLO HDL È “BUONO”? LE HDL RIMUOVONO IL COLESTEROLO DALLE PLACCHE ATEROSCLEROTICHE

Numerosi studi epidemiologici (i primi risalgono agli anni ’60), che hanno coinvolto decine di migliaia di soggetti, hanno evidenziato, senza eccezioni, l’esistenza di una forte correlazione inversa tra livelli plasmatici di colesterolo HDL (HDL-C) e incidenza di malattie cardio- e cerebro-vascolari. Più è alto l’HDL-C, minore è il rischio di andare incontro a un evento cardio/cerebro vascolare, e viceversa. Questa relazione è indipendente da altri fattori di rischio cardiovascolare e in particolare dal livello di colesterolo LDL, e persiste in pazienti ipercolesterolemici che raggiungono valori anche molto bassi di colesterolo LDL in seguito a trattamento, p.es. con statine.

Il ruolo delle HDL nella protezione cardiovascolare è stato però recentemente messo in discussione dal fatto che soggetti con alterazioni genetiche che modificano anche marcatamente i livelli di HDL-C non sempre rispondono a questa regola, e che trial clinici con farmaci in grado di aumentare i livelli plasmatici di HDL-C non sempre hanno prodotto un beneficio sugli eventi cardiovascolari. Le ragioni di questa discrepanza non sono chiare. La concentrazione plasmatica di HDL-C potrebbe non descrivere la reale efficienza del sistema HDL, che è certamente complesso e coinvolge, come abbiamo visto nei giorni scorsi, particelle diverse con funzionalità variabile. Alterazioni genetiche o farmacologiche della concentrazione di HDL-C potrebbero produrre effetti diversi sulla distribuzione e funzione delle varie particelle HDL, influenzandone così le proprietà cardioprotettive (di questo parleremo in altra occasione). Ma quali sono queste funzioni? Oggi vi parlo della funzione antiaterogena più rilevante e nota delle HDL, ovvero la capacità di queste lipoproteine di rimuovere il colesterolo dai macrofagi della parete arteriosa e di trasportarlo al fegato per l’escrezione, in un processo chiamato trasporto inverso del colesterolo (RCT).

La rimozione del colesterolo non esterificato dal macrofago, tappa iniziale del RCT, costituisce il passaggio fondamentale nel determinare la velocità dell’intero processo e avviene tramite molteplici meccanismi, che coinvolgono sia processi di diffusione passiva che sistemi di trasporto attivi (Figura). Il rilascio di colesterolo per diffusione passiva avviene in tutti i tipi di cellule e risulta facilitato quando sulla membrana cellulare viene espresso il recettore scavenger BI (SR-BI). Sia la diffusione passiva che l’efflusso SR-BI-facilitato sono movimenti bidirezionali e vengono promossi da HDL mature e di grandi dimensioni. Il trasporto attivo è mediato dal trasportatore ATP-Binding Cassette A1 (ABCA1), espresso sulla membrana dei macrofagi, che promuove l’efflusso unidirezionale di fosfolipidi e colesterolo verso apolipoproteine povere in lipidi e HDL immature a forma discoidale (prebeta-HDL). I macrofagi possono inoltre rilasciare colesterolo attraverso il trasportatore ABCG1, che media l’efflusso di colesterolo a HDL mature, ma non permette il rilascio di colesterolo ad apolipoproteine scarsamente lipidate. Sebbene tutte le particelle HDL abbiano la capacità di promuovere l’efflusso di colesterolo cellulare interagendo con specifiche proteine di membrana, il contenuto plasmatico di prebeta-HDL, che promuovono principalmente l’efflusso di colesterolo attraverso il trasportatore ABCA1, sembra essere di primaria importanza nel determinare la capacità individuale nel rimuovere il colesterolo dal macrofago.

La capacità delle HDL (tutte le HDL nel loro insieme) di un individuo di rimuovere il colesterolo dai macrofagi viene oggi stimata valutando la “Capacità di promuovere Efflusso di Colesterolo” (CEC) del siero: i macrofagi vengono incubati con il siero dell’individuo e si misura la percentuale di colesterolo cellulare che viene rimossa in un certo tempo. È una misurazione complessa che può essere effettuata solo in pochi Centri specializzati. Il ruolo della CEC come indice di protezione cardiovascolare è stato inizialmente suggerito dalla dimostrazione di una relazione inversa tra questa variabile e l’ispessimento medio-intimale carotideo (un indice di aterosclerosi preclinica, ne parleremo presto), indipendente dai livelli plasmatici di HDL-C. Il valore predittivo della CEC è stato poi dimostrato da uno studio prospettico condotto su circa 3000 soggetti in prevenzione primaria, in cui la CEC è risultata inversamente correlata all’incidenza degli eventi, ancora in modo indipendente dai livelli plasmatici di HDL-C. Queste evidenze suggeriscono che la funzionalità delle HDL, misurata tramite la CEC, sia più rilevante del valore di HDL-C nel definire il rischio cardiovascolare di ogni individuo.

Una volta accumulatosi nelle HDL, il colesterolo di origine macrofagica viene esterificato nel plasma dall’enzima lecitina:colesterolo aciltransferasi (LCAT), con formazione di esteri del colesterolo. Come abbiamo già visto, la maggior parte degli esteri del colesterolo viene poi trasferita, in cambio di trigliceridi, dalla Cholesteryl Ester Transfer Protein (CETP) alle VLDL e LDL, che vengono poi captate dal fegato. Una frazione minore di esteri del colesterolo (e di colesterolo non esterificato) viene invece trasportata direttamente al fegato dalle HDL e rilasciata in seguito a interazione col recettore SR-BI espresso sulla membrana degli epatociti. L’intero processo produce un trasporto netto di colesterolo dai macrofagi (inclusi quelli presenti nelle placche ateromasiche) al fegato, che lo eliminerà poi con la bile.

METABOLISMO DELLE HDL

Le apolipoproteine A-I e A-II, che come abbiamo già visto sono le proteine strutturali delle HDL, sono sintetizzate nel fegato. Una volta secrete dall’epatocita acquisiscono fosfolipidi (PL) e colesterolo non esterificato (UC) per interazione con il trasportatore ATP Binding Cassette A1 (ABCA1), espresso sulla membrana dell’epatocita stesso. Si formano così le HDL nascenti (o prebeta-HDL perché migrano in posizione prebeta all’elettroforesi), di forma discoidale.

Una volta in circolo, le prebeta-HDL fungono da substrato per l’enzima lecitina:colesterolo aciltransferasi (LCAT), che utilizzando PL e UC sintetizza esteri del colesterolo (CE). I CE, più idrofobici di PL e UC, non possono stare a contatto con il plasma, e vengono immagazzinati all’interno della lipoproteina, che acquisisce una forma sferica di dimensioni relativamente piccole e migra ora in posizione alfa all’elettroforesi (alfa-HDL3).

I CE così sintetizzati hanno un duplice destino. Vengono trasportati da una proteina plasmatica, la Cholesteryl Ester Transfer Protein (CETP) dalle alfa-HDL3 alle VLDL e LDL, in scambio con trigliceridi (TG); in questo modo le alfa-HDL3 si trasformano in alfa-HDL2, particelle più grandi e leggere, relativamente povere di CE e ricche di TG. TG e PL delle alfa-HDL2 vengono idrolizzati da due enzimi lipolitici, le lipasi epatica (HL) ed endoteliale (EL), con rigenerazione di prebeta-HDL. In questo passaggio, parte dell’apoA-I si dissocia dalle alfa-HDL2 e viene eliminata per via renale.

I CE sintetizzati dall’LCAT (e l’UC presente nelle alfa-HDL3) possono anche essere captati dal fegato attraverso il recettore Scavenger Receptor type B1 (SRBI), espresso sulla membrana degli epatociti. In questo passaggio le alfa-HDL3 non vengono internalizzate dall’epatocita, ma vengono deprivate di CE e riconvertite a prebeta-HDL.

Le HDL hanno quindi origine prevalentemente epatica e, una volta secrete nel plasma, subiscono una serie di trasformazioni per interazione con enzimi, proteine di trasporto e recettori, che ne modificano continuamente forma, dimensioni e composizione. Vedremo come queste trasformazioni influenzino la funzione delle varie forme di HDL.

COSA SONO LE HDL?

Le lipoproteine sono le macromolecole costituite, come dice il nome, da lipidi e proteine altamente specializzate (le apolipoproteine), che hanno la funzione di trasportare i lipidi, insolubili in acqua, nel sangue. Le lipoproteine, come abbiamo già visto, si distinguono in cinque classi, chilomicroni, VLDL, IDL, LDL e HDL, in funzione della loro densità, che correla con le dimensioni, per cui le lipoproteine meno dense (i chilomicroni) sono quelle più grandi e le lipoproteine più dense (le HDL) sono quelle più piccole.

Le lipoproteine ad alta densità (HDL) (densità 1.063–1.21 g/mL) rappresentano un gruppo eterogeneo di macromolecole di piccole dimensioni con diametro compreso tra 7 e 12 nm. La componente proteica principale delle HDL è rappresentata dall’apolipoproteina A-I (apoA-I), che gioca un ruolo fondamentale nella biogenesi e nella funzione delle HDL; l’apoA-II rappresenta la seconda proteina strutturale delle HDL. Oltre ad apoA-I e apoA-II, le HDL trasportano numerose proteine, tra cui enzimi, proteine di trasporto dei lipidi e proteine di fase acuta.

Le HDL possono essere separate in sottoclassi in funzione di densità, dimensioni, composizione e mobilità elettroforetica. In base alla densità le HDL possono essere distinte in HDL2 (1.063–1.125 g/ml), più grandi e leggere, e HDL3 (1.125–1.21 g/ml), più piccole e dense. Le HDL2 e le HDL3 possono essere ulteriormente separate in base alla dimensione in cinque sottoclassi: HDL3c, diametro 7.2-7.8 nm; HDL3b, 7.8-8.2 nm; HDL3a, 8.2-8.8 nm; HDL2a, 8.8.-9.7 nm; HDL2b, 9.7-12.0 nm in HDL2a e HDL2b. La gran parte delle HDL circolanti ha forma sferica e presenta la tipica migrazione in posizione alfa all’elettroforesi su gel di agarosio, da cui il nome di alfa lipoproteine. Una piccola porzione di HDL ha invece forma discoidale con conseguente migrazione in posizione pre-beta all’elettroforesi.

Il sistema HDL è molto dinamico e le particelle HDL sono sottoposte a un continuo rimodellamento nel plasma, grazie all’azione di numerosi enzimi e proteine di trasferimento dei lipidi, di cui vi parlerò nei prossimi giorni.

DIETA IPOCALORICA E Lp(a)

Abbiamo già visto come livelli elevati di lipoproteina(a) [Lp(a)] siano un fattore di rischio indipendente dai fattori più convenzionali (colesterolo, pressione…) per lo sviluppo di malattia cardiovascolare. Ciò sembra particolarmente rilevante nei pazienti con diabete di tipo 2. È poi noto che la perdita di peso nel paziente diabetico influenza positivamente molti fattori di rischio, ma non se ne conoscono gli effetti sui livelli di Lp(a). Per rispondere a questo quesito, ricercatori olandesi hanno misurato i livelli plasmatici di Lp(a) prima e dopo 3-4 mesi di dieta ipocalorica in tre coorti indipendenti. La coorte primaria era costituita da 131 pazienti prevalentemente obesi con diabete tipo 2 (coorte 1), partecipanti allo studio Prevention Of Weight Regain in diabetes type 2 (POWER). Le coorti secondarie consistevano di 30 pazienti obesi e diabetici (coorte 2) e di 37 individui obesi non diabetici (coorte 3). Una quarta coorte di controllo consisteva di 26 individui obesi non diabetici sottoposti a chirurgia bariatrica, ma non a dieta ipocalorica.

Nella coorte primaria, la dieta ipocalorica ha determinato una perdita di peso di 10.2 kg (9.9%) e un miglioramento nei fattori di rischio convenzionali, ma ha aumentato i livelli di Lp(a). Un analogo aumento dei livelli di Lp(a) è stato osservato nelle coorti 2 e 3, in concomitanza con una perdita di peso dell’8.5% e del 6.5%. Combinando i dati di queste tre coorti di pazienti, l’aumento di Lp(a) correlava con la perdita di peso; in altre parole più il soggetto perdeva peso con la dieta ipocalorica, più la sua concentrazione di Lp(a) nel sangue aumentava. Inoltre, l’aumento dell’Lp(a) correlava con la concentrazione basale: tanto maggiore era la concentrazione di Lp(a) prima della dieta, tanto maggiore l’aumento dopo la dieta. Nei soggetti sottoposti a chirurgia bariatrica e non a dieta (coorte 4), che pure dimostravano la maggiore perdita di peso (14%), i livelli di Lp(a) non cambiavano, a suggerire che l’aumento dell’Lp(a) sia imputabile alla dieta e non alla perdita di peso. Le caratteristiche dello studio non permettono di identificare i meccanismi che sottendono l’effetto della dieta ipocalorica sull’Lp(a), ma i risultati fanno suonare un campanello d’allarme sui benefici che una dieta ipocalorica può produrre sul rischio cardiovascolare globale di un individuo, in particolare se esso è diabetico con un elevato livello di Lp(a).

Berk et al, Diabetologia 60:989,2017

LA LIPOPROTEINA(a): COME RIDURLA?

Da Chiara Pavanello

Elevate concentrazioni di Lp(a) (> 50 mg/dL) rappresentano un fattore di rischio cardiovascolare ormai riconosciuto, come abbiamo spiegato la scorsa settimana. Ma quali sono i farmaci in grado di ridurle? Ad oggi non esistono prodotti in commercio con questa indicazione specifica e nessun trial clinico è stato condotto a tal fine. Analisi post hoc di trials clinici con farmaci ipolipidemizzanti già in uso clinico hanno rivelato addirittura un effetto peggiorativo delle statine sulle concentrazioni di Lp(a) (+ 10-20%) [Yeang, J Clin Lipidol 2016], mentre dati positivi sono stati individuati in studi con acido nicotinico (e derivati), mipomersen e gli inibitori di PCSK9. Tra questi solo gli ultimi sono effettivamente in commercio in Europa e sebbene consentano di ottenere riduzioni di Lp(a) intorno al 20%, la prescrivibilità è ridotta e limitata alle ipercolesterolemie genetiche o resistenti [Tsimikas JACC 2017].

Lo studio HERS (Heart and Estrogen/Progestin Replacement Study) ha individuato un effetto benefico della terapia combinata di estrogeni e progestinici nella riduzione della Lp(a) di circa 15-20%, con un maggior beneficio nelle donne in post-menopausa con concentrazioni di Lp(a) nel quartile superiore (55-236 mg/dL) [Shlipak et al JAMA 2000]. In ogni caso generalmente il trattamento con estrogeni non rappresenta un’opzione terapeutica perché aumenta il rischio di trombosi.

Negli ultimi anni però lo sviluppo scientifico e tecnologico ha consentito la messa a punto di farmaci davvero innovativi, da poco entrati in sperimentazione clinica. Si tratta di “oligonucleotidi antisenso” (ASO), che agiscono bloccando la sintesi epatica dell’apo(a), indispensabile per la formazione della lipoproteina (nel dettaglio la prossima settimana). Dati preliminari hanno dimostrato una riduzione superiore all’80%, dipendente dalla dose e dalle concentrazioni plasmatiche basali di Lp(a); inoltre hanno dimostrato la capacità di ridurre la concentrazione di fosfolipidi ossidati sulla lipoproteina stessa: i veri responsabili della sua aterogenicità [Viney et al Lancet 2016].

Come la storia del colesterolo LDL insegna, una volta individuata la Lp(a) come fattore di rischio cardiovascolare, solo studi clinici con farmaci che siano in grado di ridurla potranno confermare che questo porti effettivamente a un miglioramento della condizione cardiovascolare. Ma per questo dovremo aspettare ancora un po’!

Shlipak MG, Simon JA, Vittinghoff E, et al. Estrogen and progestin, lipoprotein(a), and the risk of recurrent coronary heart disease events after menopause. JAMA 2000, 283:1845–1852.
Tsimikas S. A test in context: Lipoprotein(a): diagnosis, prognosis, controversies, and emerging therapies.J Am Coll Cardiol 2017, 69:692-711.
Viney NJ, van Capelleveen JC, Geary RS et al. Antisense oligonucleotides targeting apolipoprotein(a) in people with raised lipoprotein(a): two randomised, double-blind, placebo-controlled, dose-ranging trials. Lancet 2016, 388:2239-2253.
Yeang C, Hung MY, Byun YS, et al. Effect of therapeutic interventions on oxidized phospholipids on apolipoprotein B100 and lipoprotein(a) J Clin Lipidol 2016, 10:594–603.

LA LIPOPROTEINA(a) COME FATTORE DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Da Chiara Pavanello

La settimana scorsa vi abbiamo già anticipato l’associazione tra lipoproteina(a), una lipoproteina molto simile alle LDL, e malattia cardiovascolare. Chi ha una concentrazione plasmatica di Lp(a) elevata (superiore a 50 mg/dL) presenta infatti un rischio per infarto del miocardio, ictus e arteriopatia periferica 4 volte superiore rispetto a chi ha basse concentrazioni [Clarke et al., NEJM 2009, Kamstrup et al. JAMA 2009], anche quando il livello di colesterolo LDL è normale! Recentemente, è stato riconosciuto un ruolo causale di questa lipoproteina nella patogenesi della calcificazione della valvola aortica [Vongpromek et al. J Int Med 2015]. Ulteriori conferme arrivano dallo studio CardiogramPlus4CD: in quasi 64000 soggetti con infarto miocardico, il gene LPA, che determina le concentrazioni plasmatiche di Lp(a), era quello con l’associazione più forte con la patologia coronarica (anche più delle LDL!) [CardiogramPlus4CD Consortium, Nat Genet 2013].

La Lp(a) quando in elevate concentrazioni infatti sembra essere patologica principalmente mediante due meccanismi (figura): come le LDL, viene ossidata facilmente e questo la porta ad accumularsi nella parete dei vasi, promuovendo la risposta infiammatoria e il processo aterosclerotico; si sostituisce al plasminogeno, al quale è strutturalmente simile, e ne limita la funzione, cioè quella di “sciogliere” i coaguli di sangue nei vasi sanguigni.

Le linee guida della Società Europea dell’Aterosclerosi considerano livelli ottimali di Lp(a) < 50 mg/dL, anche se alcuni studi epidemiologici, ad esempio il Copenhagen Heart Study, hanno dimostrato un rischio elevato anche a concentrazioni inferiori (20-30 mg/dL).

CARDIoGRAMplusC4D Consortium, Deloukas P, Kanoni S, et al. Large-scale association analysis identifies new risk loci for coronary artery disease. Nat Genet 2013;45:25–33.
Clarke R, Peden JF, Hopewell JC, et al., PROCARDIS Consortium. Genetic variants associated with Lp(a) lipoprotein level and coronary disease. N Engl J Med 2009;361:2518–28.
Kamstrup PR, Tybjærg-Hansen A, Steffensen R, et al. Genetically elevated lipoprotein(a) and increased risk of myocardial infarction. JAMA 2009;301:2331–9.
Vongpromek R, Bos S, Ten Kate GJ, et al. Lipoprotein(a) levels are associated with aortic valve calcification in asymptomatic patients with familial hypercholesterolaemia. J Intern Med 2015; 278:166–73.

IL “TERZO COLESTEROLO”: LA LIPOPROTEINA (a)

Da Chiara Pavanello

Nel 1963 il medico norvegese Kåre Berg, docente di genetica all’Università di Oslo ha scoperto che nel plasma circolava una nuova lipoproteina, strutturalmente analoga alle LDL: la lipoproteina (a) (si legga “lipoproteina a piccola”). Così come le LDL è sintetizzata dal fegato e trasporta colesterolo, ma possiede in aggiunta una grande glicoproteina chiamata apolipoproteina(a), molto simile al plasminogeno (una proteina coinvolta nell’emostasi).

La concentrazione plasmatica di questa lipoproteina varia da individuo a individuo secondo una predisposizione genetica e può andare da valori molto bassi (< 0,2 mg/dL) a valori anche superiori a 300 mg/dL e non è modificata né da fattori dietetici né ambientali. La variabilità dipende dalle diverse forme in cui l’apolipoproteina(a) può esistere e che si differenziano l’una dall’altra per la dimensione, definita dal numero di ripetizioni di una struttura chiamata kringle, perché ricorda la forma di un dolcetto scandinavo (Figura). Più la molecola di apo(a) è piccola, più la concentrazione di lipoproteina(a) è elevata.

Il gene LPA codifica per le dimensioni dell’apo(a) ed è quindi responsabile del 40-70% della variabilità dei livelli plasmatici di lipoproteina(a). Mentre la funzione fisiologica della lipoproteina(a) non è ancora stata chiarita, numerosi studi hanno dimostrato il suo ruolo come fattore di rischio cardiovascolare. In primis lo studio PROCARDIS (Precocious Coronary Artery Disease) ha infatti individuato due varianti genetiche responsabili della produzione di una lipoproteina(a) piccola (quindi in elevate concentrazioni) e fortemente associate ad una maggior incidenza di eventi coronarici.

Così come le LDL, infatti, la lipoproteina (a) può rimanere intrappolata a livello della tonaca intima dei vasi sanguigni contribuendo allo sviluppo dell’aterosclerosi e allo stesso tempo sembra promuove la trombosi, poiché sostituendosi al plasminogeno impedisce la dissoluzione dei coaguli di sangue.

Tsimikas S. A test in context: Lipoprotein(a): diagnosis, prognosis, controversies, and emerging therapies. J Am Coll Cardiol. 2017; 69:692-711.

COLESTEROLO HDL BASSO E INFARTO MIOCARDICO NEL GIOVANE

Fin dagli anni ’60 tutti i grandi studi epidemiologici hanno dimostrato che una ridotta concentrazione di colesterolo HDL (il colesterolo “buono”) nel sangue si associa a un aumentato rischio di malattia cardiovascolare. I risultati di un nuovo studio, presentati pochi giorni fa al 66° congresso dell’American College of Cardiology, sono l’ennesima conferma. Gli Autori hanno analizzato retrospettivamente i dati clinici di donne con meno di 50 anni e uomini con meno di 45 anni che hanno avuto un primo infarto miocardico nel corso degli ultimi 16 anni. Analizzando i profili lipidici prima dell’infarto sono stati identificati 813 pazienti (età 48 ± 8 anni; 38% donne) con un pannello lipidico completo; 736 (91%) avevano almeno una anormalità dei lipidi prima dell’infarto. L’anomalia lipidica più diffusa era rappresentata da una riduzione della concentrazione di colesterolo HDL (HDL-C) nel sangue, con un HDL-C < 40 mg / dL nel 92% degli uomini e un HDL-C < 50 mg / dL nel 77% delle donne. Decisamente meno frequente l’aumento del colesterolo LDL.

Se quindi l’epidemiologia fornisce una risposta univoca sull’importanza dell’associazione tra colesterolo HDL e rischio cardiovascolare, genetica e farmacologia forniscono evidenze contrastanti. Malattie genetiche che determinano concentrazioni molto ridotte di HDL colesterolo non sempre si associano a una maggiore incidenza di malattia cardiovascolare. Farmaci, in commercio o sperimentali, che aumentano la concentrazione di colesterolo HDL nel sangue raramente riducono gli eventi cardiovascolari. Come mai questa dissonanza tra epidemiologia e genetica/farmacologia? Nel parleremo presto.