LEADER TRIAL: NEI PAZIENTI CON DIABETE MELLITO DI TIPO 2 E ALTO RISCHIO CARDIOVASCOLARE, LA LIRAGLUTIDE HA RIDOTTO GLI EVENTI CARDIOVASCOLARI

Lo studio LEADER (Liraglutide and Cardiovascular Outcomes in Type 2 Diabetes) dimostra che nei pazienti con diabete mellito di tipo 2 e alto rischio cardiovascolare, la liraglutide, un analogo del GLP-1, riduce gli eventi cardiovascolari sia nei pazienti con storia di infarto miocardico/ictus sia in quelli con malattia cardiovascolare aterosclerotica senza infarto miocardico/ictus. Lo studio LEADER è un trial randomizzato che ha confrontato la liraglutide (1.8 mg/die o dose massima tollerata) con placebo in 9.340 pazienti con diabete mellito di tipo 2 e alto rischio cardiovascolare, con un follow-up medio di 3,8 anni. L’outcome primario era un composito di morte cardiovascolare, infarto miocardico non fatale o ictus non fatale (eventi cardiovascolari maggiori, ECM). I gruppi di rischio in questa analisi post hoc sono stati definiti in base ad una anamnesi positiva per infarto miocardico/ictus, malattia cardiovascolare aterosclerotica senza infarto miocardico/ictus o alla sola presenza di fattori di rischio cardiovascolari.

Dei 9.340 pazienti, 3692 (39.5%) avevano una storia positiva di IM/ictus, 3.083 (33.0%) avevano una malattia cardiovascolare aterosclerotica senza IM/ictus e 2.565 (27.5%) avevano solo fattori di rischio cardiovascolari. Il 18.8% dei pazienti con una storia di IM/ictus, l’11.6% dei pazienti con malattia cardiovascolare aterosclerotica senza IM/ictus e il 9.8% dei pazienti con fattori di rischio cardiovascolari ha sviluppato un ECM. La liraglutide ha ridotto gli eventi nei pazienti con storia di IM /ictus (322 su 1.865, 17.3% contro 372 su 1.827 pazienti, 20.4%, HR=0.85, IC 95% 0.73-0.99) e in quelli con malattia cardiovascolare aterosclerotica senza IM/ictus (158 su 1.538, 10.3% contro 199 su 1.545 pazienti, 12.9%, H=0.76, IC 95% 0.62-0.94) rispetto al placebo, ma non nei pazienti con fattori di rischio (HR =1.08, IC 95% 0.84-1.38).

Circulation (IF=18.881) 138:2884,2018

UNO SCARSO CONTROLLO GLICEMICO NEL DIABETICO DI TIPO 1 AUMENTA IL RISCHIO DI FRATTURE OSSEE

I pazienti diabetici di tipo 1 con scarso controllo glicemico hanno maggiori probabilità di procurarsi una frattura se cadono rispetto a quelli ben controllati. Non è così nei pazienti con diabete di tipo 2. L’evidenza giunge da uno studio su una popolazione britannica condotto dall’Università di Basilea. I ricercatori hanno esaminato i dati relativi a 47.000 diabetici, di cui 3.329 con diabete di tipo 1 e 44.275 con diabete di tipo 2, con diagnosi eseguita tra il 1995 e il 2015. Durante il periodo di studio, 672 pazienti con diabete di tipo 1 e 8.859 con diabete di tipo 2 hanno riportato fratture ossee.
Nei diabetici di tipo 1, il rischio di fratture è più elevato del 39% quando i il controllo glicemico non è adeguato (emoglobina glicata, HbA1c>8.0%), rispetto ai pazienti ben controllati dal punto di vista glicemico (HbA1c≤7.0%). Nei pazienti con diabete di tipo 2, invece,  un inadeguato controllo glicemico non aumenta il rischio di fratture.
Diverse complicanze del diabete possono contribuire a un aumento del rischio di cadute e fratture: il deterioramento cognitivo, la neuropatia, che riduce la capacità di mantenere una corretta postura, la retinopatia o altri danni agli occhi, che rendono più difficile individuare gli ostacoli. Nei pazienti con diabete di tipo 1 reclutati nello studio, la presenza di complicanze vascolari, come la retinopatia, e l’insufficienza renale hanno aumentato del 29% e del 100% la probabilità di incorrere in fratture.

J Clin Endocrinol Metab (IF=5.789) 2019 Jan 16. doi: 10.1210/jc.2018-01879

IL MICROBIOTA INTESTINALE È COINVOLTO NELL’AZIONE METABOLICA DELLA METFORMINA

La metformina è da quasi 60 anni il farmaco di prima scelta nella terapia del diabete mellito di tipo 2, grazie alla sua provata efficacia ipoglicemizzante e cardiovascolare, associata a una scarsa tossicità. L’effetto ipoglicemizzante è legato alla sua azione diretta sui processi di trascrizione genica negli epatociti, con riduzione della sintesi di glucosio (gluconeogenesi) nel fegato. Recentemente, tuttavia, è stato riportato che la metformina è in grado di alterare il microbiota intestinale nell’uomo. Ciò ha portato a ipotizzare che l’azione del farmaco sul metabolismo glucidico potesse derivare anche da una modulazione della biodiversità intestinale. Lo studio che vi proponiamo oggi descrive un possibile meccanismo dell’effetto farmacologico della metformina, che coinvolge, al contempo, metaboliti batterici e target molecolari dell’ospite. Lo studio è stato condotto su campioni biologici provenienti da pazienti con diabete di tipo 2 di nuova diagnosi, trattati per 3 giorni con metformina, mai assunta in precedenza. I risultati delle analisi metagenomica e metabolomica hanno mostrato una riduzione dei livelli di Bacteroides Fragilis e un aumento dell’acido glicourodesossicolico nelle feci di questi individui, unitamente all’inibizione del “signaling” del recettore degli acidi biliari FXR. In aggiunta, uno studio parallelo in vivo ha dimostrato che topi alimentati con una dieta ad alto contenuto di grassi e colonizzati con Bacteroides Fragilis diventano predisposti a sviluppare una grave intolleranza glucidica, non modificata dal trattamento con metformina. L’acido glicourodesossicolico è stato poi identificato come una molecola in grado di migliorare il profilo metabolico dei topi obesi tramite interazione con lo stesso recettore FXR. Questo studio dimostra il coinvolgimento del metabolismo batterico intestinale, nella fattispecie mediato dall’acido glicourodesossicolico e dalla sua interazione con il recettore intestinale FXR, nell’azione metabolica della metformina.

Nat Med (IF=32.621) 24:1919,2018

ECCO LE NUOVE LINEE GUIDA PER IL TRATTAMENTO DEL DIABETE DI TIPO 2

Sono state presentate dalle due più importanti società scientifiche del settore, l’European Association for the Study of Diabetes (EASD) e l’American Diabetes Association (ADA), le nuove linee guida congiunte per il trattamento del diabete di tipo 2. La nuova edizione rappresenta l’aggiornamento delle linee guida 2015.
Queste le principali novità della versione 2018.
Educazione alla malattia e alla sua terapia. A tutti i pazienti dovrebbe essere garantito un accesso continuo all’educazione relativa all’autocontrollo del diabete e alla gestione della malattia, attraverso suggerimenti e consigli su diagnosi della malattia, monitoraggio della glicemia, mantenimento di uno stile di vita appropriato, impatto della terapia.
Attenzione ai pazienti obesi o in sovrappeso. Tutti i pazienti dovrebbero ricevere adeguate informazioni e prescrizioni relative alla nutrizione. In particolare, i pazienti obesi o in sovrappeso dovrebbero essere informati dei benefici per la salute derivanti dalla perdita di peso e incoraggiati a impegnarsi in un programma di corretta alimentazione, che dovrebbe indicare anche quali alimenti sostituire con altri più salutari. Allo stesso tempo, andrebbero incoraggiati a mettere in atto programmi di implementazione dell’attività fisica, visto il loro effetto favorevole sul controllo della glicemia. La chirurgica metabolica è il trattamento raccomandato per i soggetti con diabete di tipo 2 e un indice di massa corporea (BMI) superiore a 40 oppure di 35-39.9, che non siano riusciti a ottenere un calo ponderale adeguato o a migliorare in maniera significativa le loro comorbilità.
Terapia sempre più a misura di paziente. Le preferenze del paziente devono diventare un fattore importante nella scelta della terapia e devono riguardare la via di somministrazione dei farmaci, gli effetti indesiderati e i costi (nel caso in cui sia il paziente stesso a doversi sobbarcare l’onere della spesa).
I farmaci: conferme e novità. La metformina continua a essere indicata come il primo farmaco da utilizzare nel trattamento del diabete di tipo 2 (salvo controindicazioni). Sulla scelta del secondo farmaco, da affiancare alla metformina, entrano in gioco le preferenze del paziente e le sue caratteristiche, in particolare per quanto riguarda la presenza di malattie cardiovascolari, scompenso cardiaco e insufficienza renale. Nel caso di pazienti con insufficienza renale cronica, scompenso cardiaco o patologie cardiovascolari su base aterosclerotica, la scelta dovrebbe cadere sugli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio 2 (SGLT2), in particolare su quelli con benefici provati in questi contesti di patologia.

Diabetologia 61:2461,2018

ALIROCUMAB È EFFICACE ANCHE NELLA DISLIPIDEMIA DIABETICA

La classica triade lipidica nei pazienti diabetici è caratterizzata da bassi valori di HDL colesterolo (HDL-C), elevati valori di trigliceridi e spesso valori di LDL colesterolo (LDL-C) nella norma. In tempi recenti si è affermato l’uso del colesterolo non-HDL (colesterolo totale – HDL-C) come parametro per valutare l’efficacia di una terapia ipolipemizzante nei pazienti diabetici; considerando che il colesterolo non-HDL è indicato peraltro come obiettivo secondario dalle linee guida ESC/EAS 2016 nella dislipidemia diabetica.
In questo studio gli autori hanno arruolato 413 pazienti diabetici di tipo 2 ad alto rischio cardiovascolare, con dislipidemia mista non adeguatamente controllata nonostante terapia con statine ad alte dosi (colesterolo non-HDL ≥100 mg/dl e trigliceridemia ≥150 mg/dl ma <500 mg/dl). I pazienti, suddivisi in due gruppi, ricevevano, oltre alla massima dose di statina tollerata, Alirocumab, l’anticorpo monoclonale contro PCSK9, o una terapia standard (TS) che poteva comprendere vari farmaci (fenofibrato, ezetimibe, acidi grassi omega3, acido nicotinico).

Dopo 24 settimane, nei pazienti in terapia con Alirocumab il colesterolo non-HDL si è ridotto in media del 32.5% rispetto ai pazienti in TS. Una significativa differenza è stata osservata anche per colesterolo totale (-24.6%), LDL-C (-43,0%), apolipoproteina B (-32,3%) e numero di particelle LDL (-37,8%). La trigliceridemia si è ridotta in entrambi i gruppi di pazienti. Non è stata osservata nessuna variazione significativa dei valori di emoglobina glicata e in entrambi i gruppi non è stato necessario un aggiustamento della terapia ipoglicemizzante.
Gli autori concludono che Alirocumab è superiore alle terapie convenzionali nel ridurre il colesterolo non-HDL.

Diabetes Obes Metab (IF=6.715) 20:1479,2018

IL DIABETE ACCELERA IL DECLINO COGNITIVO

Il diabete o lo scarso controllo della glicemia accelerano l’invecchiamento del cervello. Uno studio pubblicato sulla rivista Diabetologia mostra che diabete o prediabete (condizione di scarso controllo della glicemia che precede l’esordio della malattia vera e propria) sono associati ad accelerato declino cognitivo.

Lo studio condotto da Wuxiang Xie dell’Imperial College London ha coinvolto 5139 soggetti (diabetici, prediabetici e sani, età media 65.6 anni) reclutati nell’English Longitudinal Study of Ageing (ELSA). La funzione cognitiva è stata analizzata ogni due anni, nell’arco di 10 anni.

La ricerca dimostra che, indipendentemente dalla diagnosi di malattia, chi ha difficoltà a mantenere il controllo della glicemia a lungo termine presenta un accelerato declino delle funzioni mentali e in particolare di abilità quali memoria, orientamento e funzioni esecutive (abilità di pianificazione, risoluzione dei problemi, etc) rispetto a coetanei che hanno un buon controllo glicemico. Più sono elevati i valori di emoglobina glicata (indice di un cattivo controllo glicemico), più rapido è il declino cognitivo. Significa che ritardare il più possibile l’esordio del diabete o comunque gestire bene la malattia con un impeccabile controllo glicemico nel tempo possono essere strategie utili a rallentare il declino cognitivo.

Diabetologia (IF=6.080) 61:839, 2018

DIABETE MELLITO NELL’ADULTO. RICERCATORI SCANDINAVI PROPONGONO NUOVA CLASSIFICAZIONE A 5 GRUPPI

Un gruppo di ricercatori scandinavi coordinato da Leif Groop, della Lund University di Malmo, propone una rivoluzione nella classificazione delle varie forme di diabete mellito nell’adulto (quello comunemente detto di tipo 2). Secondo gli autori, mentre la diagnosi di diabete si basa sulla misurazione della glicemia, i pazienti presentano diverse manifestazioni cliniche della malattia, diversi tassi di progressione e complicanze. Per sviluppare la loro proposta, gli autori hanno esaminato quasi 9000 pazienti con nuova diagnosi di diabete mellito, e preso in considerazione sei caratteristiche comunemente misurate nei pazienti diabetici: età alla diagnosi, indice di massa corporea, livello di emoglobina glicata e di anticorpi anti decarbossilasi dell’acido glutammico (GADA), la stima di funzionalità delle cellule beta attraverso l’homeostatic model assessment 2 (HOMA-2), e la resistenza all’insulina. Hanno quindi confrontato i risultati ottenuti con quelli di diverse popolazioni di pazienti diabetici, dalla Svezia alla Finlandia.

L’analisi delle diverse caratteristiche ha consentito di identificare cinque gruppi di pazienti. Il gruppo 1 è caratterizzato da malattia a insorgenza precoce, indice di massa corporea relativamente basso, scarso controllo metabolico, carenza di insulina e presenza di GADA, un cosiddetto “grave diabete autoimmune”. Il gruppo 2 è simile al precedente, ma con GADA negativi, ed  è stato classificato come “grave diabete insulino-carente”. Il gruppo 3 è caratterizzato da insulino-resistenza e alto indice di massa corporea, ed è stato classificato come “diabete insulino-resistente”. Il gruppo 4 è caratterizzato da obesità non accompagnata da marcata insulino-resistenza, ed è stato classificato come” lieve diabete correlato all’obesità”. Infine, il gruppo 5, che includeva pazienti più anziani con una modesta alterazione metabolica, è stato classificato come “diabete lieve correlato all’età”.
I gruppi 1 e 2 hanno mostrato livelli di emoglobina glicata sostanzialmente più elevati e una maggior prevalenza di chetoacidosi al momento della diagnosi. Il rischio di sviluppare una retinopatia diabetica è più elevato nel gruppo 2, mentre il gruppo 3 ha mostrato una più alta prevalenza di steatosi epatica non alcoolica e un maggior rischio di sviluppare una malattia renale cronica. Gli autori propongono questa nuova classificazione nel tentativo di ottimizzare l’approccio terapeutico a pazienti con quadri dismetabolici diversi.

Lancet Diabetes Endocrinol (IF=19.742) 2018 Mar 1. pii: S2213-8587(18)30051-2.

UN’AUMENTATA ESPRESSIONE INTESTINALE DEL TRASPORTATORE SGLT-1 FAVORISCE l’IPERGLICEMIA POSTPRANDIALE NEL PREDIABETICO

Nelle persone con prediabete, nelle quali il controllo del metabolismo glucidico è già compromesso ma la malattia non è ancora conclamata, la glicemia si impenna dopo i pasti; un fenomeno da tenere sotto controllo, visto che queste oscillazioni verso l’alto dei livelli di glucosio nel sangue aumentano il rischio di sviluppare un diabete di tipo 2 e si associano nel tempo a importanti danni a livello del sistema cardiovascolare.

Si tratta di un fenomeno noto da tempo, che trova ora una possibile spiegazione scientifica: alcune persone assorbono più rapidamente e in maggior quantità di altre gli zuccheri alimentari a causa di un’aumentata espressione intestinale del co-trasportatore sodio/glucosio 1 (SGLT1). L’assorbimento intestinale del glucosio introdotto con gli alimenti avviene prevalentemente nella prima porzione dell’intestino, cioè nel duodeno. A tale livello il glucosio attraversa la parete intestinale grazie ai trasportatori SGLT-1 e GLUT2, raggiungendo così la circolazione sanguigna (Figura).

Ricercatori dell’Università ‘Magna Graecia’ di Catanzaro hanno esaminato una popolazione di 54 individui, normoglicemici, prediabetici e diabetici di tipo 2, sottoposti a curva da carico orale di glucosio e ad esofago-gastro-duodenoscopia con biopsie della mucosa duodenale sulle quali è stata valutata l’espressione del trasportatore SGLT-1. I soggetti pre-diabetici, con elevata risposta glicemica al carico di glucosio, hanno aumentati livelli del trasportatore SGLT-1 nel duodeno, paragonabili a quelli riscontrati nei pazienti con diabete di tipo 2, rispetto agli individui con risposta glicemica normale. Nell’intera casistica, l’espressione di SGLT-1 nel duodeno correla con la glicemia dopo carico orale di glucosio, a indicare che l’aumento dei livelli duodenali del trasportatore SGLT-1 (e il conseguente eccessivo assorbimento intestinale del glucosio) rappresenta uno dei meccanismi responsabili dell’iperglicemia post-prandiale nel pre-diabetico.
Tenendo in considerazione che l’attività del trasportatore SGLT-1 può essere inibita da alcuni composti fenolici presenti nella frutta e che sono attualmente in fase di sviluppo farmaci con una doppia azione inibitoria sui trasportatori SGLT-1 e SGLT-2 (quest’ultimo presente a livello renale), è possibile ipotizzare che la correzione dell’eccessivo assorbimento intestinale del glucosio potrà rappresentare una strategia terapeutica utile non solo per trattare l’iperglicemia post-prandiale, ma anche per prevenire lo sviluppo del diabete nei soggetti a rischio.

J Clin Endocrinol Metab (IF=5.455) 102:3979,2017

CHIRURGIA BARIATRICA: EFFICACIA A LUNGO TERMINE SU PERDITA DI PESO, PREVENZIONE E REMISSIONE DEL DIABETE

La chirurgia bariatrica si propone sempre più come una valida opzione terapeutica per contrastare il carico di morbilità, disabilità e mortalità causato dall’obesità. Essendo l’esperienza ormai pluridecennale, si può cominciare a ragionare sugli esiti a lungo termine di questo approccio terapeutico.

Il New England Journal of Medicine ha pubblicato un lavoro di Ted Adams e coll. sul follow-up a 12 anni di 418 pazienti gravemente obesi sottoposti a bypass gastrico Roux-en-Y, in cui lo stomaco viene diviso in due parti: una sacca superiore più piccola (circa il 10% dello stomaco), che viene congiunta al digiuno, e una sacca inferiore più grande (circa il 90% dello stomaco), che viene completamente esclusa dal passaggio degli alimenti. Lo studio ha preso in considerazione gli effetti di tale intervento su peso corporeo, incidenza e remissione di diabete di tipo 2, ipertensione, e dislipidemia. Due gruppi di pazienti (rispettivamente di 417 e 321 soggetti) con obesità grave, non sottoposti a intervento sono serviti da controllo.

A 2 anni dall’intervento i pazienti operati hanno perso in media più di 45 kg di peso. Dopo 12 anni, il 93% dei pazienti ha mantenuto una perdita di peso di almeno il 10%, rispetto al peso iniziale; il 70% ha mantenuto un calo ponderale di almeno il 20% e nel 40% degli operati la riduzione di peso è stata di almeno il 30%. Solo l’1% dei pazienti sottoposti a intervento chirurgico ha riguadagnato tutti i chili persi con l’intervento. Sul fronte del diabete, l’incidenza di questa condizione a 12 anni dall’intervento è stata del 3% (8 pazienti su 303), contro il 26% in entrambi i gruppi di controllo. Tra coloro che erano diabetici prima dell’intervento, a due anni dal bypass gastrico risultavano in remissione 66 pazienti su 88 (il 75%), a 6 anni 54 pazienti su 87 (il 62%) e a 12 anni 43 pazienti su 84 (il 51%); il 69% dei pazienti operati che risultava in remissione dal diabete a due anni dall’intervento, lo era ancora a distanza di 12 anni. Nei pazienti operati, l’incidenza di ipertensione e dislipidemia era inferiore rispetto ai controlli.

N Engl J Med (IF=72.406) 377:1143,2017

GUARIRE IL DIABETE PERDENDO PESO

È a voi noto che il sovrappeso e l’obesità predispongono all’insorgenza del diabete mellito di tipo 2. Ma vale anche il contrario? Perdendo peso si guarisce dal diabete? La risposta è sì. Lo dimostra lo studio DIRECT, i cui risultati sono stati appena pubblicati sulla prestigiosa rivista Lancet.

Lo studio ha reclutato 306 inglesi e scozzesi ai quali era stato diagnosticato un diabete di tipo 2 nei precedenti 6 anni, con età compresa tra 20 e 65 anni e indice di massa corporea (BMI) tra 27 e 45 Kg/m2 (quindi sovrappeso-obesi). Un gruppo (controllo) è stato trattato con terapia anti-diabetica convenzionale; nell’altro (intervento), la terapia anti-diabetica è stata sospesa e sostituita con un’alimentazione liquida ipocalorica (825-853 Kcal/die) per 3-5 mesi, seguita da una reintroduzione graduale di cibi solidi con supporto dietetico mirato al mantenimento del peso corporeo raggiunto con la dieta liquida. L’obiettivo primario consisteva in una perdita di peso di almeno 15 kg con remissione del diabete [definita come il raggiungimento di un’emoglobina glicata inferiore a  6,5% (< 48 mmol/mol)].

Dopo 12 mesi dal reclutamento, 36 pazienti (24%) del gruppo intervento hanno perso almeno 15 kg di peso (nessuno nel gruppo controllo); 68 pazienti (46%) del gruppo intervento e 6 (4%) del gruppo controllo sono guariti dal diabete. Nell’intera popolazione esaminata, la remissione del diabete è direttamente correlata alla perdita di peso: nessuno dei 76 pazienti che hanno aumentato il peso corporeo durante lo studio è guarito dal diabete, mentre una remissione della malattia è stata osservata in 6 degli 89 pazienti (7%) che hanno perso 0-5 kg, in 19 dei 56 pazienti (34%) che hanno perso 5-10 kg, in 16 dei 28 pazienti (57%) che hanno perso 10-15 kg, e in 31 dei 36 (86%) pazienti che hanno perso più di 15 kg. Quindi si conferma che perdere peso in modo consistente e duraturo non è semplice, ma il beneficio che si ottiene per la salute, in questo caso con la remissione del diabete e l’abbandono di qualsiasi terapia anti-diabetica, è considerevole.

Ovviamente lo studio DIRECT non si proponeva di studiare i meccanismi che sottendono alla relazione perdita di peso-remisssione del diabete, ma le conoscenze accumulate negli ultimi decenni dicono che la perdita di peso migliora la sensibilità insulinica nei muscoli e nel fegato, riduce il grasso viscerale e potrebbe migliorare la secrezione insulinica; nel lungo periodo, il calo ponderale potrebbe anche contribuire a preservare la massa beta-cellulare.

Lancet (IF=47.831) 05 Dic 2017, DOI: http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(17)33102-1