LA METFORMINA: UN FARMACO ANTIDIABETICO…MA NON SOLO

Abbiamo già parlato della Metformina e della sua attività antidiabetica, dovuta all’attivazione del sistema LKB1/AMPK (Liver Kinase B1/AMP-activated protein Kinase). Negli organismi multicellulari il sistema LKB1/AMPK ha acquisito ruoli specializzati nella regolazione sistemica oltre che intracellulare del metabolismo energetico. Gli effetti dell’attivazione di questo sistema da parte della Metformina si traducono in numerose e favorevoli modificazioni metaboliche che vanno ben oltre l’effetto ipoglicemizzante: esse comprendono infatti, oltre al minor assorbimento e alla maggiore utilizzazione del glucosio, la riduzione dell’insulinemia, la diminuzione dell’appetito e del peso corporeo, l’aumento della β-ossidazione degli acidi grassi e la riduzione dello stress ossidativo. Queste potenzialità della Metformina contribuiscono, in aggiunta all’attività antidiabetica, alla protezione cardiovascolare esercitata da questo farmaco. Ma di questo parleremo in altra occasione.

Più di quaranta anni fa, sulla base di dati ottenuti in varie specie animali, l’uso della Metformina venne proposto per la prevenzione dell’invecchiamento. A questi dati sperimentali, peraltro non univoci e di entità variabile secondo le specie studiate, si è successivamente aggiunta l’osservazione che i pazienti diabetici trattati con Metformina presentano una minore letalità per tutte le cause, non solo quelle cardiovascolari. I benefici effetti della Metformina sulla sopravvivenza mostrano una stretta somiglianza con quelli indotti dalla restrizione calorica, che in tutti i mammiferi prolunga la durata della vita e riduce l’incidenza o ritarda la comparsa di malattie legate all’invecchiamento. Questo fenomeno ha trovato successivamente spiegazione nel rilievo che l’evento biologico fondamentale indotto dalla restrizione calorica è costituito dalla riduzione dei livelli di insulina e di Insulin Growth Factor-1 (IGF-1) e dall’aumento della sensibilità all’insulina, azioni queste condivise dalla Metformina.

Numerose ricerche hanno dimostrato che la Metformina è anche in grado di inibire la carcinogenesi sperimentale dei roditori, con un meccanismo indipendente dall’azione ipoglicemizzante. La Metformina, che agisce come “sensibilizzatore” all’insulina negli epatociti, nelle cellule neoplastiche svolge infatti una azione opposta, inibendo l’utilizzazione dell’energia e la proliferazione attraverso una serie di meccanismi molecolari, solo in parte LKB1/AMPK-dipendenti (figura). In fibroblasti embrionali murini e in linee cellulari umane provenienti da neoplasie di colon, mammella e prostata l’attivazione del sistema LKB1/AMPK porta all’inibizione della sintesi proteica e della differenziazione e proliferazione cellulare, così come dell’enzima mTOR (mammalian Target Of Rapamicin), una trasferasi che regola la sintesi proteica e la crescita cellulare. La Metformina inibisce poi direttamente STAT3 (Signal Transducer and Aactivator of Transcription 3) un fattore di trascrizione che modula l’espressione di numerosi geni coinvolti nella proliferazione cellulare e nell’apoptosi. In effetti, numerosi studi retrospettivi indicano che nei diabetici trattati con Metformina la letalità per neoplasie è significativamente minore (di circa il 40%) rispetto a quelli trattati con qualsiasi altro ipoglicemizzante.

Anche se le conoscenze finora acquisite su queste nuove potenzialità di Metformina appaiono molto promettenti, soprattutto in considerazione della maneggevolezza del farmaco anche in soggetti non diabetici, occorrerà certamente un lungo iter di ricerca per accertarne il reale valore.

COS’È LA SINDROME METABOLICA?

La sindrome metabolica è una situazione patologica caratterizzata dalla presenza simultanea nello stesso paziente di diversi disordini metabolici:
1) elevata circonferenza del giro vita, maggiore o uguale a 102 cm negli uomini e 88 cm nelle donne;
2) elevato livello di trigliceridi, maggiore o uguale a 150 mg/dl;
3) ridotto livello di colesterolo HDL, minore di 40 mg/dl negli uomini e 50 mg/dl nelle donne;
4) elevata pressione arteriosa, maggiore o uguale a 130 mmHg per la pressione sistolica e 85 mmHg per la pressione diastolica;
5) elevata glicemia a digiuno, maggiore o uguale a 100 mg/dl.

La diagnosi di sindrome metabolica viene fatta quando siano presenti 3 fattori su 5 di quelli sopra elencati. Colpisce circa il 20-25% degli individui sopra i 50 anni e raddoppia il rischio vascolare.

MANGIARE VEGETARIANO? PER IL PAZIENTE DIABETICO È PIÙ FACILE PERDERE PESO

La dieta vegetariana non è soltanto amica dell’ambiente, ma anche della forma fisica: secondo un nuovo studio, pubblicato sul Journal of the American College of Nutrition, questo tipo di regime alimentare sarebbe due volte più efficace di una dieta convenzionale nel ridurre il peso corporeo.

I ricercatori del hanno analizzato la risposta di 74 pazienti con diabete di tipo 2 a una dieta ipocalorica (-500 kcal/giorno): metà hanno seguito una dieta vegetariana, metà una classica dieta per pazienti diabetici. Dopo sei mesi, i primi hanno perso in media 6,2 kg, mentre i secondi circa 3,2 kg. Entrambe le diete sono risultati efficaci per ridurre il tessuto adiposo sottocutaneo, ma quella vegetariana ha ridotto maggiormente la massa grassa totale. Entrambe le diete hanno ridotto i livelli di emoglobina glicata e aumentato la sensibilità all’insulina.

Rimane da verificare che mangiare vegetariano sia utile a perdere peso e migliorare il metabolismo glucidico anche nei soggetti non diabetici.

LA METFORMINA: UN FARMACO ANTIDIABETICO

Nel medioevo gli erboristi europei avevano notato che estratti di una pianta leguminosa, Galega officinalis (chiamata in Italia Capraggine) (figura), erano capaci di ridurre la diuresi in alcuni soggetti poliurici. Solo nel secolo corso si comprese che l’effetto benefico riguardava esclusivamente pazienti diabetici la cui poliuria osmotica veniva ridotta grazie all’azione ipoglicemizzante di un alcaloide, derivato della guanidina, contenuto nei semi e nei fiori della pianta.

Il derivato biguanidinico Metformina (N,N-Dimethylimidodicarbonimidic diamide) fu descritto nel 1922 tra le molecole ottenute nei tentativi di sintesi della N,N-Dimetilguanidina. Nel 1929 l’effetto ipoglicemizzante di Metformina fu descritto nel coniglio, ma la molecola fu dimenticata perché in quegli anni l’attenzione dei diabetologi era concentrata sull’insulina, da poco resa disponibile per l’uso clinico. Nel 1950 il medico filippino Eusebio Garcia, utilizzando Metformina nell’uomo come antibatterico e antipiretico, ne descrive l’efficacia ipoglicemizzante. Si deve però arrivare al 1957 perché, ad opera del diabetologo francese Jean Sterne, Metformina (con il nome Glucophage) venga utilizzata nei pazienti diabetici. Nell’anno successivo Metformina è inclusa nel British National Formulary, nel 1970 è approvata in Canada e solo nel 1994 accettata dalla FDA statunitense. Oggi è il farmaco di prima scelta, come riconosciuto da tulle le Società Scientifiche che si occupano di diabete, nel trattamento del diabete mellito di tipo 2.

Una volta assorbita la Metformina si distribuisce efficacemente nell’organismo e non subisce processi di biotrasformazione, così che il farmaco viene eliminato come tale dal rene. L’attività antidiabetica è dovuta all’inibizione della produzione di glucosio (gluconeogenesi) nel fegato e dell’assorbimento intestinale del glucosio, e all’aumento della sensibilità all’insulina con conseguente aumento della captazione e dell’utilizzazione periferica del glucosio. Queste azioni determinano riduzione della glicemia a digiuno e dopo pasto (20-40%) e dell’emoglobina glicata (HbA1c).

Il meccanismo molecolare dell’azione farmacologica di Metformina, ancora non completamente chiarito, consiste nella inibizione della sintesi mitocondriale di ATP, cui consegue l’attivazione di un sistema di kinasi (Liver Kinase B1/AMP-activated protein Kinase, LKB1/AMPK). Si tratta di un sistema primordiale, presente in tutte le forme viventi (dai lieviti all’uomo), che favorisce la sopravvivenza in condizioni di deficit energetico frenando i processi cellulari energia-dipendenti tra cui appunto la gluconeogenesi epatica e la captazione insulino-dipendente di glucosio nei tessuti extra-epatici. L’attivazione di questo sistema rallenta la sintesi di proteine e di acidi grassi, favorendo la restaurazione dei livelli di ATP.

La Metformina è un farmaco generalmente ben tollerato. Gli effetti collaterali più comuni sono di natura gastrointestinale: nausea, dolori addominali, diarrea. Possono essere sensibilmente ridotti assumendo il farmaco durante i pasti. Talora si può sviluppare acidosi lattica, condizione clinica con elevata letalità caratterizzata da aumento della concentrazione plasmatica di acido lattico. L’acidosi lattica, ripetutamente osservata con l’uso di un analogo della Metformina, la Fenformina, che per questo motivo è stata ritirata dal commercio, è molto rara nei pazienti trattati con Metformina. Con quest’ultima l’acidosi lattica si sviluppa solo in concomitanza di condizioni predisponenti, rappresentate soprattutto da insufficienza renale o epatica, o da grave ipossia tissutale per insufficienza cardiaca o respiratoria. Altra condizione di rischio può essere rappresentata dall’alcolismo, in cui vi è iperlattacidemia per deficit di NAD+. In una recente revisione di 347 studi clinici relativi a 70.490 diabetici/anni di trattamento non è stato registrato alcun caso di acidosi lattica. Osservazioni attendibili indicano che anche nell’insufficienza renale la Metformina, a dosi appropriate – cioè rapportate al filtrato glomerulare di ciascun diabetico –  può essere impiegata con rischi inferiori rispetto ad altri ipoglicemizzanti.

COME GESTIRE IL DIABETE NELL’ANZIANO

La prevalenza del diabete tipo 2 aumenta con l’aumentare dell’età; 1 persona su 5 oltre i 75 anni è affetta da questa condizione. E visto che nei 65enni con diabete l’aspettativa di vita può essere di oltre 15 anni, è bene essere rigorosi nella gestione di questa condizione, per evitare di incorrere nelle sue temibili complicanze. Ma la gestione del diabete tipo 2 nell’anziano deve seguire regole ad hoc. Fondamentale è l’attenzione alla dieta e all’attività fisica; i farmaci vanno somministrati tenendo sempre presente il grado di funzionalità renale; gli obiettivi glicemici, soprattutto in presenza di fragilità o di utilizzo di farmaci a rischio ipoglicemia devono essere meno stringenti. Infatti, se un diabete mal controllato aumenta del 48% il rischio di demenza, particolarmente temibile in questa fascia d’età, l’ipoglicemia (nell’anziano intesa come valori inferiori a 70 mg/dl) può provocare cadute, fratture, aumenta il deficit cognitivo, il rischio cardiovascolare e quello di essere ricoverati.

Dieta mediterranea e attività fisica aerobica, alternata a esercizi di resistenza e di stretching sono parte fondamentale del trattamento; necessario anche evitare la sedentarietà, alzandosi dal letto o dalla sedia ogni 90 minuti al massimo. L’educazione all’automonitoraggio della glicemia è  molto importante anche in questa fascia d’età, ma andranno scelti glucometri con numeri grandi o con messaggio vocale per le persone con problemi di vista. L’obiettivo da raggiungere anche nell’anziano è un’emoglobina glicata inferiore al 7 per cento, ma in caso di fragilità o di impiego di farmaci a rischio ipoglicemia, si può alzare l’asticella fino all’8 per cento. La metformina resta il farmaco di prima scelta, a meno che non ci sia un’insufficienza renale di grado elevato o uno scompenso cardiaco importante. Tra gli altri anti-diabetici orali la scelta dovrebbe cadere su quelli non a rischio ipoglicemia, quali gli inibitori di DDP-4, da preferire alla repaglinide e alle sulfoniluree, che andrebbero al contrario evitate perché possono dare ipoglicemie gravi (soprattutto la glibenclamide). In un position paper scritto a quattro mani dalla Società Italiana di Diabetologia (Sid) e dalla Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (Sigg), tutte le raccomandazioni su come gestire al meglio questa condizione nell’anziano.

IL TESSUTO ADIPOSO “PARLA” CON ALTRI ORGANI. NUOVE PROSPETTIVE PER LA TERAPIA DEL DIABETE E DELL’OBESITÀ?

 Per lungo tempo si è ritenuto che il tessuto adiposo fungesse solo da tessuto inerte di deposito per sostanze grasse, da mobilizzare e utilizzare per fornire energia all’organismo al momento del bisogno. Poi si è compreso che il tessuto adiposo è una vera e propria fabbrica biologica, che produce e libera in circolo una serie di sostanze che partecipano attivamente alla regolazione di importanti funzioni in altri organi, come la leptina che regola assunzione di cibo e consumo energetico nel cervello.
Si scopre ora che il tessuto adiposo produce e invia ad altri organi anche piccoli frammenti di RNA, chiamati microRNA o più semplicemente miRNA. Questi micro-frammenti di RNA circolano nel sangue e raggiungono organi distanti dal tessuto che li produce, dove partecipano alla regolazione della trascrizione genica e quindi della produzione di proteine.
Ricercatori dell’Harvard Medical School in Boston, hanno creato dei topi geneticamente modificati, che non hanno l’enzima necessario per la produzione di miRNA nel tessuto adiposo. Questi topi non producono miRNA, sono più magri dei topi normali e sviluppano insulino-resistenza e intolleranza al glucosio. C’è ancora una lunga strada da percorrere, ma le ricerche degli studiosi di Harvard suggeriscono che in futuro terapie basate sull’utilizzo di miRNA possano rivelarsi utili nel trattamento di malattie complesse come il diabete e l’obesità.