
È a voi ben nota la relazione esistente tra valori di pressione arteriosa e morbilità e mortalità cardiovascolare. Negli anni sono andate consolidandosi modalità differenti per la misurazione dei valori pressori. Tra esse, la pressione misurata nello studio del medico o “office”, la pressione misurata dal paziente al proprio domicilio o “home” e la pressione misurata con il monitoraggio continuo ambulatoriale o “ambulatory”. A tutt’oggi, le informazioni sugli effetti dannosi a livello cardiovascolare di valori pressori elevati e, di converso, dei benefici associati alla riduzione dei valori pressori con il trattamento farmacologico sono state ottenute in studi epidemiologici e clinici che hanno impiegato prioritariamente la misurazione della pressione office. Un’analisi recente ha preso peraltro in esame la possibilità, già presa in considerazione in studi precedenti, che vi sia una relazione più stretta con gli eventi e la mortalità cardiovascolare dei valori pressori ottenuti con il monitoraggio ambulatoriale. Lo studio IDACO ha considerato i dati di una popolazione di oltre 11.000 soggetti (età media 54.7 anni, 49.3% donne) di provenienza Europea, Asiatica e Sud-Americana, raccolta tra il 1988 e il 2010 e seguita per un follow-up medio di 13.8 anni, in cui oltre alla misurazione “office” era stato effettuato il monitoraggio ambulatoriale. Entrambi i valori pressori sono significativamente associati alla mortalità e all’incidenza di eventi cardiovascolari. Peraltro, i valori medi notturni e delle 24 ore derivati dal monitoraggio ambulatoriale sono più strettamente associati con la mortalità e con gli eventi cardiovascolari (CVE) rispetto alla misurazione “office”, sia per la pressione sistolica [mortalità: HR 1.23 (notte), 1.22 (24h), 1.12 (office); CVE: HR 1.36, 1.45, 1.20] che diastolica (mortalità: 1.16, 1.14, 1.07; CVE: 1.26, 1.30, 1.14). Pertanto, la pressione media notturna e delle 24 ore misurate con il monitoraggio ambulatoriale dovrebbero essere quelle ottimali per la definizione del rischio cardiovascolare correlato ai valori pressori. Peccato che lo studio non includesse anche la misurazione “home”, oggi consigliata dalle principali linee guida.
JAMA (IF=51.273) 322:409,2019




L’ipertensione arteriosa in età adulta è senza dubbio un fattore di rischio per lo sviluppo di decadimento cognitivo in età avanzata. Questa affermazione vale sia per la demenza vascolare che per la demenza di Alzheimer. I dati più importanti relativi a un’associazione tra ipertensione e decadimento cognitivo provengono dagli studi longitudinali. Un primo risultato di questo tipo è stato ottenuto nel 1993 sui dati della coorte di Framingham, relativi a soggetti di età compresa tra i 55 e gli 88 anni, arruolati tra il 1956 e il 1964, quando la gran parte dei soggetti affetti da ipertensione arteriosa non era sottoposta a trattamento. In tale studio si è osservato come livelli elevati di pressione arteriosa, in particolare se mantenuti negli anni, si associassero a una peggiore performance cognitiva a 15 anni dall’arruolamento. Di notevole importanza è la conferma fornita in questo senso da uno studio condotto in Svezia, dove è stata analizzata la relazione tra valori di pressione arteriosa e demenza in una popolazione di soggetti anziani (70 anni di media) senza decadimento cognitivo. Mediante osservazioni a intervalli regolari, per un periodo complessivo di 15 anni, gli autori hanno potuto dimostrare che valori basali elevati di pressione arteriosa sistolica e diastolica si associavano a un rischio significativo di sviluppare demenza, sia di tipo vascolare che Alzheimer, a 79-85 anni.
I ricercatori della Connecticut University, guidati da Yin Wu, hanno analizzato i dati provenienti da 49 studi clinici per un totale di 3.517 partecipanti. Generalmente, si trattava di uomini e donne sovrappeso, di mezza età e ipertesi (pressione arteriosa media 129.3/80.7 mmHg). È stata misurata la pressione arteriosa prima e dopo l’assegnazione a caso dei partecipanti a fare yoga o a essere parte di un gruppo di controllo senza programmi di esercizio fisico. I partecipanti hanno fatto in media 5 sedute settimanali di yoga da 60 min per un periodo di 14 settimane. Nel complesso, chi ha praticato yoga ha mostrato riduzioni medie della pressione sistolica superiori ai 5 mmHg rispetto ai gruppi di controllo, mentre la pressione diastolica si è ridotta di 3.9 mmHg. Quando i soggetti ipertesi hanno fatto yoga tre volte a settimana in sessioni che hanno incluso anche esercizi di respirazione e rilassamento, i valori medi sono calati di 11 mmHg per quanto riguarda la pressione sistolica e di 6 mmHg per quella diastolica. Lo yoga è apparso meno efficace quando la pratica yoga non era accompagnata da esercizi di respirazione e rilassamento o meditazione; in queste circostanze, lo yoga è stato associato a riduzioni medie di 6 mmHg nella pressione sistolica e di 3 mmHg in quella diastolica.