INCLISIRAN: IL CAPOSTIPITE DI UNA NUOVA CLASSE DI FARMACI PER LA TERAPIA DELL’IPERCOLESTEROLEMIA?

Come già ricordato, PCSK9 è un importante regolatore della concentrazione di colesterolo LDL nel sangue, essendo in grado di promuovere la degradazione del recettore-LDL, che media la captazione epatica delle LDL, rimuovendole dal sangue. Ne consegue che il blocco di PCSK9 previene la degradazione dei ricettori, aumenta l’eliminazione epatica delle LDL e ne riduce la concentrazione nel sangue. PCSK9 è diventata quindi un bersaglio privilegiato per lo sviluppo di farmaci innovativi per il trattamento dell’ipercolesterolemia. Due di questi, evolocumab (Repatha) e alirocumab (Praluent), anticorpi monoclonali che inattivano PCSK9, sono da pochi giorni in commercio anche in Italia (ve ne ha parlato Chiara Pavanello).

Inclisiran è invece un siRNA (small interfering RNA, abbiamo visto cosa sono) che, interferendo con il mRNA che codifica per PCSK9, ne impedisce la sintesi. La mancata produzione di PCSK9 preserva i recettori LDL, aumentando l’eliminazione epatica di LDL. Nell’Inclisiran il siRNA è coniugato con dei carboidrati che lo veicolano selettivamente al fegato attraverso il recettore per le asialoglicoproteine.

In questo studio di Fase 1 (la prima fase dello sviluppo clinico di un farmaco prima della sua immissione in commercio), una singola iniezione di Inclisiran ha ridotto la concentrazione plasmatica di PCSK9 del 75% e la concentrazione di LDL colesterolo del 50%. L’effetto su entrambi i parametri si è protratto per più di 6 mesi. Non sono stati rilevati aventi avversi importanti.

TERAPIA DELL’IPERCOLESTEROLEMIA: ARRIVANO GLI INIBITORI DI PCSK9

Da Chiara Pavanello

Ormai in commercio e in pratica clinica da molto tempo, le statine hanno permesso di ridurre considerevolmente i valori di colesterolo LDL e quindi il rischio di eventi cardiovascolari. Nelle forme severe e resistenti di ipercolesterolemia primaria o di dislipidemia mista, o nei casi di intolleranza alle statine non si sono però rivelate sufficienti, prospettando il bisogno di nuovi farmaci.

La richiesta può dirsi esaudita dal momento che da pochissimo sono stati approvati in regime di rimborsabilità dall´Agenzia Italiana del Farmaco due nuovi farmaci: Alirocumab (Praluent) ed Evolocumab (Repatha). Si tratta di due anticorpi monoclonali diretti contro PCSK9 (proteina di cui abbiamo già parlato in precedenza) che impediscono la degradazione del recettore per le LDL, aumentando la capacità del fegato di eliminare le LDL dal sangue. Entrambi vengono somministrati per iniezione sottocutanea una o due volte al mese, tramite l’impiego di siringhe preriempite.

L’efficacia è stata documentata da studi clinici dove, utilizzati in combinazione alle statine per 12 o 24 settimane, hanno portato a riduzioni intorno al 60% del colesterolo LDL rispetto alle statine da sole. La riduzione era limitata a circa il 25% nei soggetti affetti da ipercolesterolemia familiare omozigote, una grave forma di dislipidemia determinata su base genetica. L’azione positiva di questi nuovi farmaci sembra però andare anche oltre: è stato infatti dimostrato che oltre al colesterolo, evolocumab e alirocumab, riducono di circa il 25% la concentrazione plasmatica della lipoproteina (a), una lipoproteina molto simile alle LDL, che rappresenta un ulteriore fattore di rischio cardiovascolare (ne parleremo presto).

 E gli eventi avversi? I due farmaci sono stati generalmente ben tollerati in tutti gli studi clinici condotti. Gli eventi avversi più comuni sono stati reazioni nel sito di iniezione e reazioni allergiche, nasofaringiti, influenza e infezioni alle alte vie respiratorie. Solo nel 6% dei casi queste hanno comportato la sospensione della terapia, una percentuale che però è risultata non differente da quella del gruppo controllo. Sebbene molto rari, in alcuni studi di fase 3 è stata riportata un’incidenza più elevata di eventi neurocognitivi, come confusione e perdita di memoria in confronto al gruppo trattato con placebo o con terapia standard (0.9% e 1.2% con evolocumab e alirocumab rispettivamente). A tal proposito la Food and Drug Administration, l´autorità competente in materia di regolamentazione dei farmaci, ne ha richiesto una valutazione più approfondita. I dati sono stati presentati recentemente al congresso dell´American College of Cardiology. Ne parleremo presto.

LA SOSPENSIONE DELLA STATINA NEI PAZIENTI CHE HANNO SUBITO UN INFARTO MIOCARDICO AUMENTA DEL 50% LA PROBABILITÀ DI REINFARTO

I ricercatori coordinati da R.S. Rosenson, del Mount Sinai Hearth, Icahn School of Medicine di New York, hanno esaminato 105.329 assistiti da Medicare dopo aver subito un infarto miocardico, ai quali era stata prescritta una terapia con statine, atorvastatina o simvastatina. 55.567 pazienti (52.8%) hanno seguito con ottima aderenza (>80% delle compresse assunte) la terapia, che invece non è stata tollerata da 1.741 pazienti (1.65%).

Nell’arco di circa 2 anni dal primo infarto, 4.450 dei pazienti esaminati ha subito un secondo infarto miocardico. La percentuale di reinfarto è stata maggiore del 50% nei pazienti che non hanno tollerato la statina rispetto a quelli con ottima aderenza alla terapia.
Lo studio ribadisce l’importanza del mantenimento nel tempo di un’adeguata aderenza alla terapia con statine nei soggetti che sono sopravvissuti a un infarto miocardico, e sono pertanto ad altissimo rischio di subirne un altro. I pazienti che non tollerano le dosi ottimali di statina, e devono quindi interrompere la terapia, esistono alternative efficaci per la prevenzione di un secondo evento cardiovascolare, come l’associazione statina ed ezitimibe, o i nuovi anticorpi monoclonali anti-PCSK9 (di cui parleremo prossimamente).

QUANDO UTILIZZARE I FARMACI PER RIDURRE IL COLESTEROLO?

Gli esperti delle Società Europee dell’Aterosclerosi (EAS) e di Cardiologia (ESC) affermano che il livello di colesterolo LDL  (il colesterolo “cattivo”) deve essere il più basso possibile, in particolare nei soggetti che hanno già avuto un infarto o un ictus, o sono diabetici. Hanno poi sottolineato ancora una volta quanto sia importante per ciascuno di noi conoscere il proprio rischio cardiovascolare totale. Consigliano di utilizzare il Systemic Coronary Risk Estimation (SCORE), reperibile sul sito http://www.escardio.org/static_file/Escardio/Subspecialty/EACPR/Documents/score-charts.pdf, che stima il rischio a 10 anni di avere un infarto, un ictus o altre malattie cardiovascolari. Perché è importante conoscere il proprio rischio cardiovascolare totale? Tanto più è elevato, tanto più l’intervento deve essere intensivo nell’abbassare i livelli del colesterolo LDL.

Gli esperti hanno poi definito tre strategie di intervento da applicarsi agli individui in funzione del loro rischio cardiovascolare totale e del livello di colesterolo LDL (vedi figura): verde = nessun intervento; giallo = modificazione dello stile di vita ed eventualmente terapia farmacologica; rosso = modificazione dello stile di vita e concomitante terapia farmacologica.

Calcolate il vostro rischio cardiovascolare totale (Total CV risk) con il sistema SCORE, verificate il vostro livello di colesterolo LDL (LDL-C) e identificate il colore della casella corrispondente alla vostra combinazione di questi due numeri. Quindi CONSULTATE IL VOSTRO MEDICO.

Fonte reperibile a http://www.atherosclerosis-journal.com/article/S0021-9150(16)30214-3/abstract:  2016 European Guidelines on cardiovascular disease prevention in clinical practice: The Sixth Joint Task Force of the European Society of Cardiology and Other Societies on Cardiovascular Disease Prevention in Clinical Practice (constituted by representatives of 10 societies and by invited experts) Developed with the special contribution of the European Association for Cardiovascular Prevention & Rehabilitation (EACPR). Atherosclerosis 252:207, 2016

GLI INIBITORI DELL’ANGIOPOIETIN-LIKE 3 (ANGPTL3)

Da Chiara Pavanello

Studi epidemiologici e di associazione genome-wide hanno individuato correlazioni tra la presenza di varianti loss-of-function dell’angiopoietin-like 3 (ANGPTL3) e ridotte concentrazioni plasmatiche di tutte le lipoproteine [eccetto la lipoproteina(a)]. In questo contesto l’inibizione di ANGPTL3, mimando la condizione determinata geneticamente, rappresenta un affascinante approccio farmacologico dall’elevato potenziale terapeutico.

I ricercatori (e le aziende farmaceutiche!) non si sono attardati, testando l’efficacia di anticorpi monoclonali diretti contro ANGPTL3 nei topi. Evinacumab, questo è il nome che è stato dato al prodotto, ha ridotto mediamente del 52% i livelli di colesterolo totale rispetto a placebo così come i trigliceridi dell’84%. L’effetto positivo si è tradotto anche in una riduzione del 39% della dimensione della lesione aterosclerotica senza modificare però il contenuto di macrofagi, collagene e di cellule muscolari lisce della placca. Lo studio clinico di fase I, condotto su 83 volontari moderatamente ipertrigliceridemici ha essenzialmente confermato quanto dimostrato nell’animale: dopo soli 4 giorni dalla prima iniezione evinacumab ha portato a riduzioni significative dei trigliceridi (-76%) e del colesterolo-LDL (-23.2%) e del coleterolo-HDL (-18.4%) dopo 15 giorni [Dewey et al, 2017]. Risultati essenzialmente paragonabili sono stati ottenuti bloccando la sintesi di ANGPTL3 mediante un oligonucleotide antisenso (ANGPTL3-LRX), sia nell’animale sia nei 44 soggetti reclutati per la fase clinica (figura) [Graham et al, 2017]. Nello studio, pubblicato contemporaneamente a quello con evinacumab, è stato riportato inoltre un miglioramento della sensibilità all’insulina in topi trattati con l’antisenso, rispetto a placebo.

Dewey FE et al. Genetic and pharmacologic inactivation of ANGPTL3 and cardiovascular disease. N Engl J Med 2017 May 24. doi: 10.1056/NEJMoa1612790.
Graham MJ et al. Cardiovascular and metabolic effects of ANGPTL3 antisense oligonucleotides. N Engl J Med 2017 May 24. doi: 10.1056/NEJMoa1701329.

OLIGONUCLEOTIDI ANTISENSO PER IL TRATTAMENTO DELLE DISLIPIDEMIE

Da Chiara Pavanello

Gli oligonucleotidi antisenso, detti anche ASO (dall’inglese AntiSense Oligonucleotide) rappresentano una delle attraenti tecnologie messe a punto negli ultimi anni per inibire la sintesi di una qualsiasi proteina di interesse, coinvolta nella patogenesi di una malattia. Si tratta di brevi analoghi sintetici di acido nucleico a singolo filamento, disegnati per essere complementari ad una specifica sequenza di RNA messaggero (mRNA), il codice genetico prodotto da uno specifico gene che contiene “l’informazione” per la produzione di una distinta proteina. Il termine “antisenso” sta proprio ad indicare che la sequenza è opposta a quella che dovrebbe essere trascritta.
Quando un ASO si lega al suo mRNA complementare si forma un complesso che può essere selettivamente degradato, da alcuni enzimi, dette endonucleasi, oppure può portare al blocco del ribosoma, il sistema cellulare responsabile della sintesi proteica [Video]. In entrambi i casi viene selettivamente “bloccata” la lettura del codice genetico e la proteina non può essere prodotta.
La strategia farmacologica antisenso è già in uso da alcuni anni nel trattamento di alcune patologie quali la sclerosi laterale amiotrofica, alcuni tipi di tumore e come antivirale, mentre nel campo delle dislipidemie questo approccio è relativamente nuovo. Il vantaggio principale è l’elevata specificità del farmaco, che si traduce in un rischio inferiore di interazioni farmacologiche e di effetti collaterali, rispetto ai prodotti oggi in commercio per il trattamento delle dislipidemie. Inoltre gli ASO si accumulano nel fegato, l’organo dove la maggior parte delle proteine coinvolte nel metabolismo lipidico viene sintetizzata, risultando pertanto particolarmente efficaci nel produrre l’effetto desiderato. Uno dei primi esempi di ASO entrati in commercio (ma non in Europa!) è il mipomersen, indicato nell’ipercolesterolemia familiare omozigote, che si è dimostrato efficace nei trials clinici nel ridurre la colesterolemia anche del 44%. Esso agisce inibendo la produzione epatica dell’apoB100, costituente delle VLDL e LDL, che quindi non vengono assemblate e messe in circolo. Altri ASO sono in fase di sperimentazione clinica per altre forme di dislipidemia, quali ipertrigliceridemia grave e iperLp(a). Volanesorsen, ad esempio, è un ASO disegnato per ridurre la produzione di apoC-III, una proteina che inibisce la clearence plasmatica dei trigliceridi. I primi pazienti trattati hanno ottenuto riduzioni dei trigliceridi comprese tra 56-86% dopo 3 mesi di trattamento, parallelamente ad una minor frequenza degli episodi di pancreatite, principale complicanza delle ipertrigliceridemie gravi. Vi abbiamo già citato invece nelle scorse settimane gli ASO contro apo(a), specificatamente disegnati per inibire la produzione epatica della lipoproteina (a). Altri ASO sono ad oggi in sperimentazione preclinica o nelle prime fasi di sviluppo clinico e rappresentano un esempio di approccio farmacologico ultraselettivo e promettente, che consente di inibire potenzialmente la sintesi di qualsiasi proteina coinvolta nel metabolismo lipidico.

Per approfondimenti: Visser et al. Antisense oligonucleotides for the treatment of dyslipidaemia. Eur Heart J (2012) 33: 1451-1458.

EFFICACIA E SICUREZZA DEI FITOTERAPICI UTILIZZATI IN PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE


I ricercatori della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli e della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica di Roma hanno effettuato una revisione dei dati pubblicati nella letteratura scientifica riguardanti l’efficacia e la sicurezza di 42 prodotti erboristici (fitoterapici) utilizzati da pazienti (spesso senza aver informato il proprio medico) affetti da ipertensione arteriosa, ipercolesterolemia, cardiopatia ischemica. È bene qui ricordare che, a differenza di quanto avviene per i farmaci, la commercializzazione di prodotti erboristici non è sottoposta ad alcun controllo di efficacia e sicurezza (dimostrabili attraverso complicati e costosi studi clinici) e non richiede l’approvazione da parte di agenzie nazionali o sovranazionali.

I risultati della ricerca dimostrano che l’uso di prodotti erboristici (quali per esempio aglio, olio di semi di lino, semi d’uva, biancospino, ginseng, the verde, soia) non è supportato da un’adeguata evidenza scientifica, soprattutto per quanto riguarda l’efficacia nell’uomo. Questi prodotti sono peraltro soggetti a rischi, derivanti dall’interazione con altri farmaci, o da contaminazioni con sostanze potenzialmente tossiche. I ricercatori concludono auspicando che i medici indaghino l’uso di fitoterapici da parte dei propri pazienti, informandoli accuratamente dei possibili benefici e rischi derivanti dall’utilizzo di questi prodotti.

Journal of the American College of Cardiology 69:1188-1199,2017