IL RISCHIO DI MORTE CARDIACA IMPROVVISA NEL PAZIENTE IPERTESO SENZA MALATTIA CARDIOVASCOLARE

Lo studio (di ricercatori perugini) che vi proponiamo oggi ha indagato i fattori di rischio per morte cardiaca improvvisa (MI) nel paziente iperteso che non presenta malattia cardiovascolare nota. I ricercatori hanno esaminato una coorte di 3.242 soggetti ipertesi senza evidenza di malattia coronarica o cerebrovascolare, sottoposti a ECG e monitoraggio pressorio nelle 24h e seguiti per un periodo medio di 10.3 anni. All’arruolamento i partecipanti avevano un’età media di 50 anni, il 45% era costituito da donne, il 61% aveva un diabete mellito tipo 2. I partecipanti presentavano valori pressori clinici medi di 154/96 mmHg e valori medi al monitoraggio delle 24h di 136/86 mmHg. Il 13.9% dei soggetti presentava segni di ipertrofia ventricolare sinistra all’ECG.
Durante il follow-up, 33 pazienti sono deceduti per MI, con un’incidenza di 0.10 per 100 pazienti-anno (95% CI, 0.07–0.14). L’incidenza di MI è risultata pari a 0.07 e 0.30 per 100 pazienti-anno rispettivamente nei pazienti senza e con segni di ipertrofia ventricolare all’ECG. All’analisi multivariata dopo aggiustamento per età, sesso, diabete e pressione differenziale al monitoraggio pressorio nelle 24h, l’ipertrofia ventricolare sinistra era associata a un aumento di tre volte del rischio di MI (hazard ratio 2.99; 95% CI, 1.47–6.09). Inoltre, il rischio di morte improvvisa aumentava del 35% per ogni aumento di 10 mmHg della pressione differenziale rilevata al monitoraggio pressorio.
Pertanto, nel paziente iperteso senza malattia cardiovascolare nota, l’ipertrofia ventricolare sinistra e la pressione differenziale rilevata al monitoraggio pressorio nelle 24h rappresentano dei marker prognostici e dei fattori di rischio per MI.

Hypertension (IF=7.017) 73:1071,2019

RAGAZZI SOVRAPPESO. RISCHIO PIÙ ELEVATO DI CARDIOMIOPATIA DA ADULTI

Uno studio svedese dimostra che gli uomini che da adolescenti sono stati sovrappeso hanno una maggiore probabilità di sviluppare cardiomiopatia rispetto a coloro che hanno mantenuto un peso corretto durante quel periodo della vita. I ricercatori dell’Università di Goteborg hanno esaminato i dati relativi ad altezza, peso e livelli di forma fisica di oltre 1.6 milioni di uomini in leva obbligatoria in Svezia tra il 1969 e il 2005, quando avevano 18 o 19 anni; circa il 10% di essi era sovrappeso e il 2% obeso.
Dopo un follow-up mediano di 17 anni, 4.477 uomini hanno sviluppato una cardiomiopatia, con un’età media di 46 anni al momento della diagnosi. La cardiomiopatia è una malattia relativamente rara, e solo lo 0.27% degli individui reclutati nello studio ha ricevuto diagnosi di una delle diverse forma della patologia.
Il rischio di sviluppare questo danno al muscolo cardiaco era doppio nei partecipanti sovrappeso da adolescenti e cinque volte superiore in quelli obesi, rispetto agli adolescenti normopeso. Gli individui con un indice di massa corporea (BMI) inferiore a 20 da adolescenti presentavano un basso rischio di cardiomiopatia, che aumentava poi costantemente con l’aumento del BMI, anche tra gli uomini all’estremità superiore di quello che viene considerato normale, compreso tra 22.5 e i 25. Gli uomini chiaramente obesi, con un BMI pari o superiore a 35 in gioventù, presentavano otto volte più probabilità di sviluppare una cardiomiopatia da adulti rispetto a quelli che durante l’adolescenza erano stati magri.

Circulation (IF=23.054) 2019 May 28. doi: 10.1161/CIRCULATIONAHA.118.039132

LESIONI CEREBRALI E PERFORMANCE COGNITIVA NEL PAZIENTE CON FIBRILLAZIONE ATRIALE

I pazienti con fibrillazione atriale (FA) presentano un maggior rischio di decadimento cognitivo, che potrebbe derivare dalla presenza di lesioni cerebrali su base vascolare, molte delle quali non clinicamente manifeste. Per questo motivo uno studio multicentrico condotto in Svizzera ha indagato la relazione tra performance cognitiva e lesioni cerebrali su base vascolare in pazienti con FA. Lo studio prevedeva una valutazione del burden di lesioni cerebrali vascolari mediante risonanza magnetica, finalizzata a individuare infarti corticali o sottocorticali estesi, piccoli infarti sottocorticali, lesioni della sostanza bianca e microemorragie; sono stati definiti come silenti gli infarti riscontrati all’imaging in pazienti senza storia di ictus o TIA. Inoltre, tutti i pazienti arruolati nello studio sono stati sottoposti a una valutazione cognitiva mediante il Montreal Cognitive Assessment (MoCA) test. Nello studio sono stati arruolati 1.737 pazienti di età media pari a 73 anni (73 ± 8), di cui il 28% di sesso femminile; il 90% di questi assumeva anticoagulanti orali. Alla risonanza magnetica 387 pazienti (22%) presentavano infarti cerebrali estesi, 368 (21%) piccole lesioni sottocorticali, 372 (22%) microemorragie e 1.715 (99%) lesioni della sostanza bianca. Infarti silenti sono stati osservati in 201 pazienti con lesioni estese (15%) e 245 con lesioni di piccole dimensioni (18%), su un totale di 1390 soggetti senza storia di eventi cerebrovascolari. Per quanto riguarda la performance cognitiva, al MoCA è stato osservato un punteggio medio di 24.7 ± 3.3 e 25.8 ± 2.9 rispettivamente nei pazienti con e senza estesi infarti cerebrali al neuroimaging (p < 0.001). Tale differenza era sostanzialmente conservata anche se si consideravano soltanto le lesioni silenti (24.9 ± 3.1 vs. 25.8 ± 2.9; p < 0.001). All’analisi multivariata, il volume degli infarti cerebrali è risultato il più forte predittore di una riduzione del punteggio al MoCA.
Pertanto, i pazienti con FA presentano un elevato burden di lesioni cerebrali vascolari alla risonanza magnetica, soprattutto per quanto riguarda gli infarti corticali e sottocorticali estesi, molti dei quali sono silenti. Il volume di queste lesioni, anche silenti, si associa ad una peggiore performance cognitiva. La risonanza magnetica potrebbe quindi trovare impiego nello screening dei pazienti con FA?

J Am Coll Cardiol (IF=18.639) 73:989,2019

VALORE PROGNOSTICO DELLA PROTEINA C REATTIVA NEL PAZIENTE CON SINDROME CORONARICA ACUTA

L’aumento dei livelli di proteina C reattiva (PCR) dopo una sindrome coronarica acuta (SCA) si associa a un maggior rischio di eventi avversi, ma non è chiaro se un monitoraggio seriato della PCR possa essere utile ai fini della stratificazione del rischio. Lo studio che vi proponiamo oggi ha voluto approfondire il ruolo prognostico della PCR nei pazienti con SCA recente, indagando se un incremento dei valori di PCR nelle 16 settimane successive all’evento fosse associato a un maggior rischio di eventi cardiaci e di mortalità. A questo scopo sono stati analizzati i dati del trial VISTA-16 (Vascular Inflammation Suppression to Treat Acute Coronary Syndromes for 16 Weeks), studio multicentrico randomizzato controllato in doppio cieco condotto nel periodo giugno 2010 – marzo 2012 su 5.145 soggetti. Nell’analisi sono stati inclusi i pazienti per i quali era disponibile un dosaggio basale della PCR e un monitoraggio a 1, 2, 4, 8 e 16 settimane. Gli outcomes dello studio includevano gli eventi avversi cardiaci (MACE, composito di mortalità cardiovascolare, infarto miocardico, ictus non fatale o angina instabile) e la mortalità, cardiovascolare e da tutte le cause. La popolazione analizzata comprendeva 4.257 soggetti di età media pari a 60.3 anni (range 53.5-67.8), di cui il 73.8% di sesso maschile. All’analisi multivariata, è stata osservata un’associazione indipendente tra il verificarsi di eventi cardiaci e i valori di PCR, sia basali (hazard ratio 1.36, 95% CI, 1.13-1.63) che a 16 settimane (HR 1.15, 95% CI, 1.09-1.21). Analogamente, è stata riscontrata un’associazione, statisticamente significativa e indipendente da fattori confondenti, tra i valori di PCR e la mortalità, cardiovascolare (HR per valore PCR basale 1.61, 95% CI, 1.07-2.41; HR per valori a 16 sett. 1.26, 95% CI, 1.19-1.34) e da tutte le cause (HR 1.58, 95% CI, 1.07-2.35 e HR 1.25, 95% CI, 1.18-1.32).
Pertanto, nel paziente con SCA, un incremento dei valori di PCR al basale e nelle prime 16 settimane dall’evento si associa a un maggior rischio di eventi cardiaci e di mortalità, cardiovascolare e da tutte le cause. Questi dati suggeriscono che il monitoraggio dei livelli di PCR nei pazienti con recente SCA potrebbe essere utile per identificare i soggetti a maggior rischio di nuovi eventi, anche fatali.

JAMA Cardiol (IF=11.866) 2019 Mar 6. doi: 10.1001/jamacardio.2019.0179

NEI GIOVANI CON INFARTO MIOCARDICO I FATTORI DI RISCHIO MODIFICABILI SONO ALTAMENTE PREVALENTI E PROGRESSIVAMENTE AUMENTATI NEL TEMPO

Queste sono le conclusioni a cui sono giunti i ricercatori del Westchester Medical Center and New York Medical College di Valhalla, New York. I fattori di rischio modificabili (RF) svolgono un ruolo importante nello sviluppo e nella prognosi dell’infarto miocardico acuto (IMA). Pertanto i ricercatori hanno voluto analizzare la prevalenza e l’andamento nel tempo di RF modificabili (ipertensione, dislipidemia, diabete mellito, obesità, fumo e abuso di droghe) prima di un IMA nei giovani adulti statunitensi. A tal proposito è stata condotta un’analisi retrospettiva su un campione nazionale di adulti di età compresa tra 18 e 59 anni ospedalizzati per un primo IMA tra il 2005 e il 2015. Sono stati arruolati 1.462.168 giovani adulti con un primo IMA (età media 50 ± 7 anni, 71.5% uomini, 58.3% bianco) di cui il 19.2% aveva un’età compresa tra 18 e 44 anni e l’80.8% tra 45 e 59 anni di età.

Nel gruppo dai 18 ai 44 anni, il 90.3% dei pazienti aveva almeno 1 RF, con fumo (56.8%), dislipidemia (51.7%) e ipertensione (49.8%) largamente prevalenti. Nel gruppo di età compresa tra 45 e 59 anni, il 92% dei pazienti aveva almeno 1 RF, con ipertensione (59.8%), dislipidemia (57.5%) e fumo (51.9%) prevalenti. Disparità sessuali significative sono state osservate nella prevalenza dei singoli RF. Le donne avevano una maggiore prevalenza di diabete mellito, ipertensione e obesità, e gli uomini avevano una maggiore prevalenza di dislipidemia, abuso di droghe e fumo. La prevalenza di RF è andata aumentando nel tempo, tranne che per la dislipidemia, che è diminuita negli anni più recenti.
J Amer Coll Cardiol (IF=18.639) 73:573,2019

MISURAZIONE DELLA PRESSIONE ARTERIOSA: LA POSIZIONE DELL’AMERICAN HEART ASSOCIATION

La misurazione accurata della pressione arteriosa è fondamentale per la diagnosi e la gestione dell’ipertensione arteriosa. Questo articolo fornisce un aggiornamento sulla posizione scientifica dell’American Heart Association sulla misurazione della pressione arteriosa. Gli apparecchi oscillometrici completamente automatici capaci di eseguire misurazioni multiple anche in assenza di un operatore sanitario possono fornire misurazioni della pressione arteriosa più accurate di quelle ottenute con la metodica auscultatoria, riducendo gli errori derivanti dall’operatore. Gli studi hanno dimostrato delle differenze sostanziali tra le misurazioni eseguite nell’ambulatorio medico e al di fuori di esso. Il monitoraggio della pressione arteriosa delle 24 ore rappresenta la misura di riferimento al di fuori dell’ambulatorio medico, mentre l’auto-misurazione domiciliare è una valida alternativa quando il monitoraggio delle 24 ore non è tollerato o disponibile. Rispetto ai soggetti normotesi (con valori normali dal medico e al di fuori dell’ambulatorio) non è chiaro se i soggetti con ipertensione da camice bianco (con valori elevati dal medico ma normali al di fuori dell’ambulatorio) abbiano un aumentato rischio cardiovascolare, mentre quelli con ipertensione mascherata (con valori normali dal medico ed elevati al di fuori dell’ambulatorio) hanno un rischio sostanzialmente elevato. Anche i soggetti con elevati valori pressori notturni al monitoraggio delle 24 ore hanno un rischio elevato. Indipendentemente dal metodo utilizzato per misurare i valori pressori, è fondamentale che gli operatori sanitari provvedano ad addestrare i pazienti all’auto-misurazione e raccomandino l’uso di apparecchi validati e calibrati per ottenere una misurazione accurata della pressione arteriosa.

Hypertension (IF=7.017) 73:e35-e66,2019

IL TOPINAMBUR

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Il topinambur è una radice commestibile originaria delle praterie del Nord America. Chiamata “chiqueli” dagli indigeni, fu importata nel 1600 in Europa, dove si diffuse con nomi differenti come noci di terra, o carciofi del Canada, o di Gerusalemme. Le varietà coltivate sono due: la bianca, detta anche precoce, e la bordeaux, che viene raccolta durante l’inverno. Il topinambur è diffuso in quasi tutta l’Italia tranne in Sardegna, dove non è presente questa pianta infestante delle Asteracee. La parte aerea può raggiungere i tre metri mentre la parte sotterranea presenta un rizoma edibile, di 3-5 cm nodoso e bitorzoluto. Viene spesso confuso con la patata, ma presenta diversità notevoli sia di sapore che di composizione. Ricco di vitamine A e B, contiene numerosi micronutrienti tra cui magnesio e potassio. La presenza di inulina, un oligosaccaride composto da lunghe catene di fruttosio caratterizza questo tubero. È dimostrato che l’inulina favorisce la digestione e l’equilibrio della flora intestinale. Utilissima anche nelle diete, aumenta di volume in presenza di acqua, aumentando il senso di sazietà.

IL VERDE SALVA IL CUORE

Abitare in prossimità di aree verdi può essere associata a un ridotto rischio di malattie cardiache: è quanto emerge dai risultati di uno studio che ha esaminato la relazione tra aree verdi per quartiere, stimate da immagini satellitari, e 4 diagnosi di cardiopatia (infarto miocardico acuto, cardiopatia ischemica, insufficienza cardiaca e fibrillazione atriale) in un campione di assistiti Medicare. La popolazione esaminata comprendeva 249.405 individui di età ≥65 anni, domiciliati nello stesso luogo nel biennio 2010-2011, nella contea di Miami-Dade, in Florida. Le analisi di regressione, corrette per dati socio demografici e reddito di quartiere, hanno dimostrato che una maggiore ecocompatibilità si associa a una riduzione del rischio di malattie cardiache. I soggetti che vivono in aree corrispondenti al più alto terzile di vegetazione, rispetto al terzile più basso, mostrano una riduzione del rischio di infarto miocardico acuto del 25% (OR 0.75, IC 95% 0.63-0.90), di cardiopatia ischemica del 20% (OR 0.80, IC 95% 0.77-0.83), di insufficienza cardiaca del 16% (OR 0.84, IC 95% 0.80-088) e di fibrillazione atriale del 6% (OR 0.94, IC 95% 0.87-1.00 ). Tali associazioni rimangono significative, ma vengono attenuate dopo aggiustamento per i fattori di rischio cardiometabolico (diabete mellito, ipertensione e iperlipidemia), suggerendo che questi ultimi possano in parte mediare la relazione osservata tra aree verdi e malattie cardiache. Gli autori concludono che la vicinanza al verde possa essere associata a un ridotto rischio di malattie cardiache e che le strategie per aumentarne l’estensione possano rappresentare uno strumento per ridurre le malattie cardiache a livello di popolazione.

J Amer Heart Ass (IF=4.660). Mar 2019 doi.org/10.1161/JAHA.118.010258

LA DIETA MEDITERRANEA RIDUCE IL RISCHIO DI MORTALITÀ PER MALATTIE CARDIOVASCOLARI LEGATO ALL’ESPOSIZIONE AGLI INQUINANTI ATMOSFERICI

Queste sono le conclusioni a cui sono giunti i ricercatori della New York University School of Medicine di New York, che hanno valutato se la dieta mediterranea modifica l’associazione tra esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico e rischio di mortalità per malattie cardiovascolari. Il National Institutes of Health – American Association for Retired Persons Diet and Health Study ha arruolato una coorte prospettica (N = 548.845) in 6 stati e 2 città negli Stati Uniti, con un periodo di follow-up di 17 anni (1995-2011). È stato utilizzato un Diet Index Mediterraneo (DIM), che valuta con una scala a 9 punti la conformità con una dieta in stile mediterraneo, ed è stata effettuata una stima delle esposizioni medie annuali al particolato fine e al biossido di azoto. È stato quindi valutato il rischio di mortalità per malattie cardiovascolari, cardiopatia ischemica, malattie cerebrovascolari o arresto cardiaco associati all’esposizione a lungo termine a inquinamento atmosferico. È stata infine esaminata la capacità del DIM di modificare le associazioni tra esposizione agli inquinanti e mortalità. Per il particolato fine, è stata osservata una associazione elevata e significativa con malattia cardiovascolare (HR per 10 μg/m3 =1.13, IC 95% 1.08-1.18), cardiopatia ischemica (HR=1.16, IC 95% 1.10-1.23) e malattia cerebrovascolare (HR=1.15, IC 95% 1.03-1.28). Per il biossido di azoto, è stata riscontrata un’associazione significativa con malattie cardiovascolari (HR per 10 ppb=1.06, IC 95% 1.04-1.08) e cardiopatia ischemica (HR=1.08, IC 95% 1.05-1.11). La dieta mediterranea ha modificato queste relazioni: I soggetti con DIM più elevato avevano tassi di mortalità per malattie cardiovascolari associati all’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico significativamente più bassi (interazione P <0.05).

Circulation (IF=18.881) 139:1766,2019

UNA LEGGERA ATTIVITÀ FISICA PER NON “PERDERE” IL CERVELLO

l volume del cervello diminuisce dello 0,2% circa ogni anno, a partire dai 60 anni. Un restringimento eccessivo è legato a problemi cognitivi. E una leggera attività fisica potrebbe avere effetti benefici su questo processo. L’evidenza emerge da uno studio condotto da un team della Boston University School of Medicine.
Lo studio è stato condotto su 2.354 volontari di mezza età, che sono stati sottoposti a diversi livelli e frequenza di attività fisica. I partecipanti hanno indossato un piccolo accelerometro per un periodo variabile dai 3 agli 8 giorni. In questo modo sono stati misurati il dispendio energetico e il numero di passi. Il volume del cervello è stato valutato usando la risonanza magnetica. I ricercatori hanno allora osservato che ogni ora di leggera attività fisica in più si associa a un aumento del volume cerebrale dello 0.22%.
Un attività fisica d’intensità moderata, come camminare a passo sostenuto, svolta per 19 minuti al giorno, è invece associata a un volume cerebrale maggiore dello 0.29% rispetto a coloro che svolgevano in media un’attività per meno di 10 minuti al giorno. Secondo le stime dei ricercatori, ogni ora aggiuntiva di attività fisica di lieve intensità sarebbe associata a circa 1.1 anni d’invecchiamento cerebrale in meno.
Una differenza nel volume cerebrale è stata riscontrata anche per quanto riguarda il numero di passi compiuti: i partecipanti che effettuavano almeno 7.500 passi al giorno presentavano volumi cerebrali maggiori di coloro che avevano una media inferiore a 7.500.
I livelli di esercizio fisico dello studio sono inferiori a quelli che, secondo le linee guida, possono apportare sostanziali benefici per la salute. Gli adulti dovrebbero puntare ad almeno 150 minuti a settimana, quindi circa 21 minuti al giorno, di attività fisica d’intensità moderata, oppure 75 minuti a settimana di esercizio fisico vigoroso, e almeno 10.000 passi al giorno.

JAMA Netw Open 2:e192745,2019.