GDF15: UN FARMACO PER IL TRATTAMENTO DELL’OBESITÀ?

Un importante contributo alla ricerca di farmaci innovativi per il trattamento della pandemia dell’obesità viene da un sofisticato studio di ricercatori californiani pubblicato su Science Translational Medicine. Confrontando l’espressione di circa 4000 geni in tessuti importanti sul piano metabolico si è scoperto che l’espressione (Fig. 1A) e la concentrazione plasmatica (Fig. 1B) di GDF15 (noto anche come MIC-1, macrophage inhibitory cytokine 1) sono aumentate nei topi, nei ratti e negli umani obesi. Inoltre, aumentando l’espressione di GDF15 in vari modelli animali di obesità (topi, ratti e scimmie), ovvero somministrando la proteina GDF15 in forma ricombinante, si riduce l’assunzione di cibo, migliora il profilo metabolico e diminuisce il peso corporeo.

Purtroppo la proteina ricombinante GDF15, una volta iniettata, viene rapidamente eliminata (emivita nella scimmia di circa 3 ore), il che ne limita fortemente l’uso come farmaco per il trattamento dell’obesità. Ricorrendo a una strategia già sperimentata per prolungare la durata d’azione di proteine ricombinanti, i ricercatori hanno prodotto, attraverso l’attacco di un frammento anticorpale al GDF15, una proteina GDF15 ibrida (GDF15-Fc), che può essere somministrata una volta alla settimana. Una volta iniettata in modelli animali di obesità, GDF15-Fc rallenta lo svuotamento gastrico, aumenta il senso di sazietà e modifica le preferenze alimentari, facendole virare verso scelte alimentari più salutari.

Quando somministrata a scimmie obese per un periodo di 6 settimane, GDF15-Fc ha prodotto una riduzione del 40% dell’introito calorico, con una diminuzione del 10% del peso corporeo e un miglioramento del metabolismo glucidico e lipidico (Fig. 2). Per apprezzare la potenza di questo nuovo candidato farmaco, basti pensare che i 5 farmaci anti-obesità oggi disponibili in commercio consentono di perdere dal 7 al 12% del peso iniziale, ma nell’arco di un anno, e che la chirurgia bariatrica fa perdere dal 20 al 30% del peso nel corso del primo anno dall’intervento, ma ha costi elevati e non è scevra di complicanze. Non è possibile al momento stabilire se la proteina GDF15 ibrida sia priva di effetti collaterali; per questo bisognerà naturalmente attendere i primi studi sull’uomo.

Science Transl Med (IF=16.761) 9:412,2017

IDENTIFICATO IL MECCANISMO MOLECOLARE DELL’EFFETTO ANORESSIZZANTE DELLE PROTEINE

È noto che le proteine, e gli aminoacidi di cui esse sono composte, rappresentano i nutrienti più efficaci nel sopprimere la fame e indurre un senso di sazietà. Ricercatori inglesi e tedeschi hanno identificato il meccanismo molecolare (o uno dei meccanismi molecolari) responsabile di tale effetto. Il meccanismo sarebbe innescato da specifici aminoacidi, arginina e lisina, che vengono riconosciuti dai taniciti, cellule specializzate di origine gliale che rivestono regioni ventricolari del cervello in cui la barriera emato-encefalica è interrotta, in particolare il pavimento e le pareti laterali del III ventricolo. Questa localizzazione anatomica garantisce ai taniciti un accesso privilegiato al fluido cerebrospinale (CSF) e al suo contenuto, in particolare agli aminoacidi contenuti negli alimenti. D’altra parte, i lunghi processi terminali dei taniciti proiettano nei nuclei ipotalamici coinvolti nella regolazione di appetito/sazietà. I taniciti possono così fungere da mediatori dell’effetto dei nutrienti sulla regolazione del bilancio energetico.

I ricercatori anglo-tedeschi hanno dimostrato che i taniciti esprimono un recettore, denominato T1r1/T1r3, della famiglia “umami”, recettori presenti nelle papille gustative della lingua, dove sono responsabili della percezione del gusto tipico degli amminoacidi.

L’interazione di arginina e lisina con il recettore “umami” dei taniciti induce un aumento del calcio intracellulare, che promuove la liberazione di ATP, amplificandone il segnale attraverso il recettore P2Y1 (figura). L’ATP liberato dai taniciti raggiunge attraverso le loro terminazioni il nucleo arcuato dell’ipotalamo, informandolo dell’aumentata disponibilità di aminoacidi, e attivando neuroni anoressizzanti che aumentano il senso di sazietà e riducono l’appetito.

Le ricadute pratiche della scoperta sono oggi praticamente nulle. Il meccanismo descritto suggerisce che prediligere cibi ricchi di arginina e lisina (spalla di maiale, controfiletto di manzo, pollo, sgombro, prugne, albicocche, avocado, lenticchie e mandorle) potrebbe favorire il senso di sazietà, ridurre l’appetito e di conseguenza il peso corporeo. Tutto questo va verificato con studi appropriati nell’uomo. Si potrebbero poi identificare degli attivatori diretti del recettore “umami” dei taniciti, da utilizzare nel trattamento del sovrappeso e dell’obesità; in questo caso la strada da percorrere è ancora più lunga.

Mol Metab (IF=6.799) 6:1480, 2017

IL PESO CORPOREO INFLUENZA LA PERCEZIONE DEGLI ALIMENTI

Dolce, fresco, gustoso: con quali aggettivi descriviamo nella nostra mente una fetta di torta? E una mela rossa? Per studiare i fattori che influenzano la valutazione e rappresentazione mentale individuale degli alimenti, un gruppo di ricercatori della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste ha studiato la risposta cerebrale associata a vari tipi di cibo. Hanno reclutato individui normopeso, sovrappeso e sottopeso, sottoposti a test comportamentali e a un’elettroencefalografia, un’indagine che misura l’attività elettrica del cervello. Su uno schermo venivano mostrate immagini di vari alimenti (frutta, frutta secca, ostriche, pesce, pizza, pasta al sugo, torta di mele) anticipate da frasi che riguardavano caratteristiche percepite tramite i sensi (gusto, olfatto), come “ha un sapore dolce”, oppure una descrizione della loro funzione o del contesto in cui si consumano, per esempio “è ideale per una festa di matrimonio”. Nel frattempo, i ricercatori misuravano la risposta neurofisiologica allo stimolo. È emerso che il i soggetti obesi (BMI>30 kg/m2) presentavano segnali elettroencefalografici diversi rispetto ai soggetti sottopeso (BMI<18 kg/m2). In particolare, le persone con peso in eccesso mostravano una maggiore attività cerebrale nel caso di cibi elaborati, come pizza, dolci, pasta condita con sughi particolari; è come se prestassero una maggiore attenzione, o fossero in qualche modo maggiormente sensibili dal punto di vista della risposta cerebrale, a questi cibi più succulenti o saporiti. Mentre nelle persone sottopeso la risposta cerebrale era maggiormente sollecitata dalla vista di cibi più naturali e non elaborati. L’aumento del peso corporeo è quindi in grado di modificare la rappresentazione mentale di ciò che si mangia, innescando un circolo vizioso che favorisce un ulteriore aggravamento del sovrappeso.

Biol Psychol (IF=3.070) 129:282,2017

CHIRURGIA BARIATRICA: EFFICACIA A LUNGO TERMINE SU PERDITA DI PESO, PREVENZIONE E REMISSIONE DEL DIABETE

La chirurgia bariatrica si propone sempre più come una valida opzione terapeutica per contrastare il carico di morbilità, disabilità e mortalità causato dall’obesità. Essendo l’esperienza ormai pluridecennale, si può cominciare a ragionare sugli esiti a lungo termine di questo approccio terapeutico.

Il New England Journal of Medicine ha pubblicato un lavoro di Ted Adams e coll. sul follow-up a 12 anni di 418 pazienti gravemente obesi sottoposti a bypass gastrico Roux-en-Y, in cui lo stomaco viene diviso in due parti: una sacca superiore più piccola (circa il 10% dello stomaco), che viene congiunta al digiuno, e una sacca inferiore più grande (circa il 90% dello stomaco), che viene completamente esclusa dal passaggio degli alimenti. Lo studio ha preso in considerazione gli effetti di tale intervento su peso corporeo, incidenza e remissione di diabete di tipo 2, ipertensione, e dislipidemia. Due gruppi di pazienti (rispettivamente di 417 e 321 soggetti) con obesità grave, non sottoposti a intervento sono serviti da controllo.

A 2 anni dall’intervento i pazienti operati hanno perso in media più di 45 kg di peso. Dopo 12 anni, il 93% dei pazienti ha mantenuto una perdita di peso di almeno il 10%, rispetto al peso iniziale; il 70% ha mantenuto un calo ponderale di almeno il 20% e nel 40% degli operati la riduzione di peso è stata di almeno il 30%. Solo l’1% dei pazienti sottoposti a intervento chirurgico ha riguadagnato tutti i chili persi con l’intervento. Sul fronte del diabete, l’incidenza di questa condizione a 12 anni dall’intervento è stata del 3% (8 pazienti su 303), contro il 26% in entrambi i gruppi di controllo. Tra coloro che erano diabetici prima dell’intervento, a due anni dal bypass gastrico risultavano in remissione 66 pazienti su 88 (il 75%), a 6 anni 54 pazienti su 87 (il 62%) e a 12 anni 43 pazienti su 84 (il 51%); il 69% dei pazienti operati che risultava in remissione dal diabete a due anni dall’intervento, lo era ancora a distanza di 12 anni. Nei pazienti operati, l’incidenza di ipertensione e dislipidemia era inferiore rispetto ai controlli.

N Engl J Med (IF=72.406) 377:1143,2017

GUARIRE IL DIABETE PERDENDO PESO

È a voi noto che il sovrappeso e l’obesità predispongono all’insorgenza del diabete mellito di tipo 2. Ma vale anche il contrario? Perdendo peso si guarisce dal diabete? La risposta è sì. Lo dimostra lo studio DIRECT, i cui risultati sono stati appena pubblicati sulla prestigiosa rivista Lancet.

Lo studio ha reclutato 306 inglesi e scozzesi ai quali era stato diagnosticato un diabete di tipo 2 nei precedenti 6 anni, con età compresa tra 20 e 65 anni e indice di massa corporea (BMI) tra 27 e 45 Kg/m2 (quindi sovrappeso-obesi). Un gruppo (controllo) è stato trattato con terapia anti-diabetica convenzionale; nell’altro (intervento), la terapia anti-diabetica è stata sospesa e sostituita con un’alimentazione liquida ipocalorica (825-853 Kcal/die) per 3-5 mesi, seguita da una reintroduzione graduale di cibi solidi con supporto dietetico mirato al mantenimento del peso corporeo raggiunto con la dieta liquida. L’obiettivo primario consisteva in una perdita di peso di almeno 15 kg con remissione del diabete [definita come il raggiungimento di un’emoglobina glicata inferiore a  6,5% (< 48 mmol/mol)].

Dopo 12 mesi dal reclutamento, 36 pazienti (24%) del gruppo intervento hanno perso almeno 15 kg di peso (nessuno nel gruppo controllo); 68 pazienti (46%) del gruppo intervento e 6 (4%) del gruppo controllo sono guariti dal diabete. Nell’intera popolazione esaminata, la remissione del diabete è direttamente correlata alla perdita di peso: nessuno dei 76 pazienti che hanno aumentato il peso corporeo durante lo studio è guarito dal diabete, mentre una remissione della malattia è stata osservata in 6 degli 89 pazienti (7%) che hanno perso 0-5 kg, in 19 dei 56 pazienti (34%) che hanno perso 5-10 kg, in 16 dei 28 pazienti (57%) che hanno perso 10-15 kg, e in 31 dei 36 (86%) pazienti che hanno perso più di 15 kg. Quindi si conferma che perdere peso in modo consistente e duraturo non è semplice, ma il beneficio che si ottiene per la salute, in questo caso con la remissione del diabete e l’abbandono di qualsiasi terapia anti-diabetica, è considerevole.

Ovviamente lo studio DIRECT non si proponeva di studiare i meccanismi che sottendono alla relazione perdita di peso-remisssione del diabete, ma le conoscenze accumulate negli ultimi decenni dicono che la perdita di peso migliora la sensibilità insulinica nei muscoli e nel fegato, riduce il grasso viscerale e potrebbe migliorare la secrezione insulinica; nel lungo periodo, il calo ponderale potrebbe anche contribuire a preservare la massa beta-cellulare.

Lancet (IF=47.831) 05 Dic 2017, DOI: http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(17)33102-1

OBESITÀ NEL MONDO. L’ITALIA TRA I PAESI VIRTUOSI

L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), ha recentemente pubblicato il rapporto “Obesity Update 2017”, con l’obiettivo di aggiornare i dati sulla prevalenza dell’obesità nei Paesi Ocse e a livello mondiale, e di fornire delle proiezioni al 2030 di come questa epidemia globale evolverà.

Nel 2015 il 19,5% degli adulti dell’area Ocse era obeso. Questo tasso varia da meno del 6% in Corea e Giappone a più del 30% in Ungheria, Nuova Zelanda, Messico e Stati Uniti. Più di un adulto su quattro è obeso in Australia, Canada, Cile, Sud Africa e nel Regno Unito. In Italia meno di uno su dieci.

 

 

 

Dagli anni ’90 in poi la prevalenza di obesità è cresciuta in Canada, Francia, Messico, Svizzera e Stati Uniti, mentre è stabile per Inghilterra, Italia, Corea e Spagna. Nella maggior parte dei Paesi (ma non in Italia) la prevalenza di obesità è maggiore nelle donne che negli uomini. Tuttavia l’obesità maschile sta crescendo più rapidamente.
La quota di bambini in sovrappeso o obesi all’età di 15 anni varia dal 10% in Danimarca al 31% negli Stati Uniti. L’Italia, con il 15,5% si pone esattamente sulla media Ocse. Nonostante le politiche messe in atto in molti Paesi Ocse il numero di quindicenni in sovrappeso o obesi è aumentato costantemente dal 2000 nella maggior parte dei Paesi.
Le disuguaglianze sociali hanno un peso rilevante nel determinare sovrappeso e obesità, soprattutto tra le donne. Nella metà dei Paesi per i quali sono disponibili dati in questo tipo, le donne con bassi livelli di istruzione hanno due o tre volte più probabilità di essere in sovrappeso di quelle che hanno un livello di istruzione superiore.
Le persone obese hanno minori prospettive di lavoro rispetto alle persone di peso normale; sono meno produttive a causa del maggior numero di giorni di malattia e del minor numero di ore lavorate e guadagnano circa il 10% in meno rispetto alle persone non obese.
Per il futuro, le proiezioni dell’Ocse mostrano un costante aumento dell’obesità fino al 2030 e in particolare la prevalenza di obesità aumenterà negli Stati Uniti, Messico e Inghilterra, dove il 47%, il 39% e il 35% della popolazione è previsto sarà obesa. Al contrario, l’aumento dovrebbe essere più contenuto in Italia e in Corea, con tassi di obesità proiettati rispettivamente al 13% e al 9% nel 2030.

http://www.oecd.org/health/obesity-update.htm

IL PIÙ GRANDE STUDIO SULL’ATTIVITÀ FISICA SPONTANEA NEL MONDO. L’ITALIA AL 13° POSTO SU 46 PAESI

L’Università di Stanford in California ha individuato un nuovo strumento per monitorare in maniera accurata la pandemia di sedentarietà: il cellulare. In questo ambito i cellulari (3 adulti su 4 nei Paesi industrializzati e 1 adulto su 4 in quelli in via di sviluppo ne possiedono uno) rappresentano una risorsa formidabile poiché sono dotati di accelerometri in grado tra l’altro di registrare i passi che compiamo durante il giorno.

Nel più grande studio mai condotto finora sull’attività fisica ‘spontanea’, i cui risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista “Nature”, sono stati analizzati i dati degli utilizzatori di un’app gratuita (Azumio Argus) per il monitoraggio dell’attività fisica: 68 milioni di giorni di registrazioni da 717.527 utilizzatori anonimi (di cui erano disponibili età, genere, altezza, peso registrati sull’app), residenti in 110 Paesi diversi. L’analisi si è poi focalizzata su 46 Paesi, ognuno rappresentato da almeno un migliaio di utenti. Il 90% degli utenti viveva in 32 Paesi industrializzati e il 10% in Paesi in via di sviluppo. La media di passi giornalieri è stata di 4.961. Chi sono i più sedentari? Gli indonesiani, che ogni giorno percorrono 3.513 passi. Al contrario, sono gli abitanti di Hong Kong a potersi fregiare del titolo di popolazione più attiva, con una media di 6.880 passi giornalieri. L’Italia si colloca al 13° posto su 46 Paesi, davanti all’Irlanda e dietro alla Gran Bretagna, con 5.296 passi giornalieri (Figura 1).

I Paesi dove si cammina meno sono anche quelli dove si registra una maggiore differenza tra uomini e donne: le donne sono generalmente più inattive dei maschi. Il divario tra sessi è elevato nei poco attivi Stati Uniti e Arabia Saudita, ed è minore in Svezia e Giappone, dove si cammina di più. Un altro aspetto, meno sorprendente, riguarda poi l’assetto urbanistico delle città: in quelle con maggior numero di aree pedonali si registra più attività fisica a tutte le ore del giorno, nel finesettimana e anche durante la settimana. A muoversi di più sono tanto i giovani che gli più anziani.

Non sorprende, anzi è l’ennesima conferma, che alla riduzione dell’attività fisica corrisponda una maggior prevalenza di obesità (Figura 2). Attraverso simulazioni al computer, gli autori dello studio hanno dimostrato che gli interventi mirati sull’attività fisica possono determinare una riduzione dell’obesità 4 volte maggiore rispetto a interventi non mirati.

Importanti spunti di riflessione derivati da uno studio mille volte più ampio di qualunque altra ricerca mai realizzata finora sull’attività fisica spontanea, che ha utilizzato dati di vita reale e non questionari nei quali il grado di attività fisica viene autoriferito. Una metodologia di lavoro che apre la strada a un nuovo filone di ricerche, da cui potranno scaturire suggerimenti su come facilitare l’attività fisica e misure per invogliare gli individui a svolgerla.

Nature (IF=40.137) 547:336,2017

L’OBESITÀ È UN FATTORE DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE ANCHE IN ASSENZA DI MALATTIE METABOLICHE

Gli individui obesi o sovrappeso che non hanno malattie metaboliche presentano un rischio cardiovascolare maggiore dei normopeso. L’evidenza emerge da uno studio condotto da Neil Thomas dell’Università di Birmingham, nel Regno Unito, i cui risultati sono stati pubblicati dal Journal of the American College of Cardiology. I ricercatori hanno esaminato i dati raccolti dal “The Health Improvement Network” (THIN) nel periodo 1995-2015, relativi a 3,5 milioni di adulti inizialmente sani dal punto di vista cardiovascolare; l’80.7 % non aveva malattie metaboliche (diabete di tipo 2, dislipidemia ipertensione).

Durante il follow-up di 5.4 anni si sono verificati 165.000 eventi cardiovascolari. Gli individui obesi metabolicamente sani avevano il 49% in più di probabilità di sviluppare malattie cardiovascolari e quasi il doppio di andare incontro a insufficienza cardiaca rispetto agli individui normopeso senza anomalie metaboliche (Figura 1). Anche gli individui in sovrappeso senza anomalie metaboliche avevano un rischio maggiore di sviluppare malattie cardiovascolari rispetto agli individui con peso normale.

D’altro canto, come peraltro atteso, in tutti gli individui, indipendentemente dalla categoria di peso, la presenza di malattie metaboliche aumentava significativamente il rischio cardiovascolare (Figura 2).

 

J Amer Coll Cardiol (IF=19.896) 70:1429, 2017

OBESITÀ E MORTALITÀ NEL DIABETICO

L’obesità è un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari e si associa a un’aumentata mortalità per tutte le cause. Quest’ultima relazione non è però del tutto chiara nel paziente diabetico, con alcuni studi che dimostrano addirittura il contrario, ovvero che nel diabetico l’obesità riduce la mortalità rispetto al normopeso. Per cercare di chiarire questo paradosso studiosi sudcoreani hanno condotto un’enorme indagine prospettica in cui hanno esaminato l’associazione tra indice di massa corporea (BMI) e mortalità in soggetti normoglicemici (glicemia a digiuno <100 mg dL), o con alterata glicemia a digiuno (IFG) (100-125 mg dl), diabete di nuova diagnosi (≥126 mg dL), e diabete prevalente (auto-riferito). Quasi 13 milioni di adulti sono stati monitorati per più di 10 anni, durante i quali 454.546 uomini e 239.877 donne sono deceduti.

È stata osservata un’associazione a forma di U tra BMI e mortalità, indipendentemente dalla condizione della glicemia, sesso, età e storia di fumo; la mortalità aumentava al variare del BMI al di sotto o al di sopra di un valore ideale, diverso per ciascuna delle quattro categorie esaminate. Il valore di BMI ideale, associato alla mortalità più bassa, andava aumentando con l’aggravarsi della condizione metabolica: 23,5-27,9 kg/m2 nei soggetti normoglicemici, 25-27,9 kg/m2 in quelli con IFG, 25-29,4 kg/m2 nei diabetici di nuova diagnosi, e 26,5-29,4 kg/m2 in quelli con diabete prevalente. La mortalità aumentava con l’aggravarsi della condizione metabolica negli individui a basso BMI, ma la relazione si invertiva all’aumento del BMI, a conferma che nel paziente diabetico il sovrappeso favorisce la longevità.

Diabetes Care (IF=11.857) April 2017, DOI: https://doi.org/10.2337/dc16-1458

MANGIARE VEGETARIANO? PER IL PAZIENTE DIABETICO È PIÙ FACILE PERDERE PESO

La dieta vegetariana non è soltanto amica dell’ambiente, ma anche della forma fisica: secondo un nuovo studio, questo tipo di regime alimentare sarebbe due volte più efficace di una dieta convenzionale nel ridurre il peso corporeo nel paziente diabetico.

I ricercatori del hanno analizzato la risposta di 74 pazienti con diabete di tipo 2 a una dieta ipocalorica (-500 kcal/giorno): metà hanno seguito una dieta vegetariana, metà una classica dieta per pazienti diabetici. Dopo sei mesi, i primi hanno perso in media 6,2 kg, mentre i secondi circa 3,2 kg. Entrambe le diete sono risultati efficaci per ridurre il tessuto adiposo sottocutaneo, ma quella vegetariana ha ridotto maggiormente la massa grassa totale. Entrambe le diete hanno ridotto i livelli di emoglobina glicata e aumentato la sensibilità all’insulina.

Rimane da verificare che mangiare vegetariano sia utile a perdere peso e migliorare il metabolismo glucidico anche nei soggetti non diabetici.

J Am Coll Nutr. (IF=2.107) 36:364, 2017