UNA CORRETTA ATTIVITÀ FISICA RIPARA I DANNI DOVUTI ALL’INVECCHIAMENTO DEL CUORE. NON È MAI TROPPO TARDI PER INCOMINCIARE A MUOVERSI

L’invecchiamento causa un progressivo irrigidimento del muscolo cardiaco, con deterioramento della funzionalità ventricolare. La ridotta elasticità del muscolo diminuisce lo svuotamento del ventricolo durante la sistole e riduce la capacità del cuore di pompare sangue in circolo. Tutto ciò può sfociare in un’insufficienza cardiaca.

Al contrario, nei soggetti che svolgono un’intensa attività fisica, come gli atleti nella categoria “master”, il muscolo cardiaco rimane molto elastico, il volume ventricolare è elevato e la circolazione sanguigna efficiente.

I ricercatori texani hanno voluto verificare se un’adeguata attività fisica, iniziata nella mezz’età, sia in grado di correggere la perdita di funzionalità cardiaca dovuta all’invecchiamento. Hanno così reclutato 53 soggetti sedentari di mezz’età (dai 45 ai 64 anni). Metà ha seguito un complesso programma di intensificazione dell’attività fisica aerobica, che prevedeva 2 sedute settimanali di attività fisica moderata per due mesi, aumentate a 3 sedute nel terzo mese e integrate da due sedute settimanali di attività fisica intensa per i successivi 21 mesi; i partecipanti erano incoraggiati a compiere diversi tipi di attività fisica (treadmill, bicicletta, tennis, nuoto, palestra, ecc). Il programma del gruppo controllo prevedeva tre sedute settimanali di esercizio anaerobico e yoga.

La potenza aerobica (VO2max) è aumentata del 18% negli individui che hanno svolto attività fisica aerobica ed è rimasta invariata nel gruppo controllo. Parallelamente è diminuita la rigidità del muscolo cardiaco ed è aumentato il volume telediastolico, a indicare un maggior riempimento della camera ventricolare.

Si dimostra quindi che iniziare e mantenere un’adeguata attività fisica nella mezz’età, quando il muscolo cardiaco è ancora in grado di rimodellarsi e di recuperare elasticità, può riparare i danni al cuore indotti da sedentarietà e invecchiamento, riducendo quindi il rischio di incorrere in malattie cardiache come l’insufficienza cardiaca. Il Dr. Levine, autore senior della pubblicazione, propone che ”un’adeguata attività fisica diventi una comune componente dell’igiene personale, come lavarsi i denti e fare la doccia”.

Circulation (IF=19.309) 137:1549,2018

BASTA UNA SIGARETTA AL GIORNO PER AUMENTARE IL RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Lo dimostra una meta-analisi condotta da alcuni istituti di ricerca inglesi, coordinati da Allan Hackshaw del Cancer Institute all’University College di Londra, che ha preso in esame 141 studi condotti a partire dal 1946 fino al 2005: non esiste fumo sicuro e smettere completamente è il solo messaggio da proporre al pubblico.

Secondo i dati raccolti, fumare una sola sigaretta al giorno comporta una probabilità di sviluppare un infarto o un ictus che è molto più alta dell’atteso: la metà rispetto a chi invece fuma un pacchetto (e non un ventesimo, come la matematica suggerirebbe). E le donne sono più svantaggiate e rischiano di più.

Secondo le statistiche, 900 milioni di persone nel mondo fumano, e le morti attribuibili al fumo, in questo secolo, saranno un miliardo. Sono le morti cardiovascolari, non il cancro, a pagare il tributo più alto: sono responsabili del 48 per cento di tutte le morti legate al fumo.

Quali sono le ragioni biologiche perché anche una minima quantità di fumo può avere effetti nocivi sull’organismo? Con la respirazione già inaliamo polveri sottili presenti nell’ambiente, la cui quantità aumenta se fumiamo una sigaretta: queste polveri sottili sono poi quelle che arrivano al cuore e al cervello e provocano danni. Più il polmone è pulito più assorbe queste sostanze dannose; ecco perché è la prima sigaretta della mattina quella che fa più male.

Il fumo passivo è essenzialmente un’altra forma di “fumo a basso dosaggio”, che comporta pericoli per la salute; l’esposizione al fumo passivo, se dura all’incirca otto ore al giorno, equivale a fumare due o tre sigarette.

Negli ultimi anni si è sviluppata nei fumatori la tendenza a ridurre il numero di sigarette giornaliere, nella convinzione che questo fosse sufficiente a ridurre i rischi connessi al fumo. Il messaggio che viene da questa potente analisi è ancora una volta forte e chiaro. L’esposizione al fumo fa male in ogni caso e quindi occorre fare qualsiasi sforzo per smettere completamente; non basta ridurre il numero di sigarette.

Brit Med J (IF=20.785) 360:j5855, 2018

LA FIBRA SOLUBILE

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Le fibre sono carboidrati che resistono alla digestione enzimatica intestinale. Si dividono in due grandi gruppi: idrosolubili e non idrosolubili o, come ultimamente vengono meglio definite dai nutrizionisti, ”fermentescibili” e “viscose”, per specificare meglio le loro proprietà. La fibra solubile forma un composto gelatinoso all’interno del lume intestinale con conseguente rallentamento del transito degli alimenti. Interferisce anche sull’assorbimento di macronutrienti (carboidrati e lipidi), inducendo un maggior senso di sazietà. Ha un buon contenuto di frutto-oligosaccaridi (FOS) che favoriscono lo sviluppo della flora batterica. Questi prebiotici infatti non sono sottoposti a digestione enzimatica e stimolano la proliferazione di Bifidobatteri, inibendo così quella dei patogeni (Eschericia coli, Salmonella). Incrementano, nell’intestino grosso, i livelli di acido butirrico derivante dai trigliceridi. Questo svolge un’azione protettiva nei confronti delle malattie infiammatorie.

Fibra per ogni 100 gr:
crusca 39.6 gr
lattuga 1.9 gr
banana 1.8 gr
farina integrale 9.6 gr
pane comune 2.8 gr
pasta integrale 11.5 gr
riso integrale 3.8 gr
melanzana 2.6 gr

IL DIABETE ACCELERA IL DECLINO COGNITIVO

Il diabete o lo scarso controllo della glicemia accelerano l’invecchiamento del cervello. Uno studio pubblicato sulla rivista Diabetologia mostra che diabete o prediabete (condizione di scarso controllo della glicemia che precede l’esordio della malattia vera e propria) sono associati ad accelerato declino cognitivo.

Lo studio condotto da Wuxiang Xie dell’Imperial College London ha coinvolto 5139 soggetti (diabetici, prediabetici e sani, età media 65.6 anni) reclutati nell’English Longitudinal Study of Ageing (ELSA). La funzione cognitiva è stata analizzata ogni due anni, nell’arco di 10 anni.

La ricerca dimostra che, indipendentemente dalla diagnosi di malattia, chi ha difficoltà a mantenere il controllo della glicemia a lungo termine presenta un accelerato declino delle funzioni mentali e in particolare di abilità quali memoria, orientamento e funzioni esecutive (abilità di pianificazione, risoluzione dei problemi, etc) rispetto a coetanei che hanno un buon controllo glicemico. Più sono elevati i valori di emoglobina glicata (indice di un cattivo controllo glicemico), più rapido è il declino cognitivo. Significa che ritardare il più possibile l’esordio del diabete o comunque gestire bene la malattia con un impeccabile controllo glicemico nel tempo possono essere strategie utili a rallentare il declino cognitivo.

Diabetologia (IF=6.080) 61:839, 2018

SIGARETTE ELETTRONICHE. Sİ O NO?

Le sigarette elettroniche (e-cig) sono dispositivi elettrici alimentati da una batteria che provocano l’evaporazione di un liquido (e-liquid) contenente umidificanti (glicole propilenico e glicerolo), aromi e nicotina (non sempre). Il vapore viene aspirato dall’utilizzatore.

Introdotte in commercio circa dieci anni fa, il loro effetto sulla salute è ancora assai controverso. Una corrente di pensiero sostiene che le e-cig possono essere utili nel contrastare gli effetti dannosi del fumo di sigaretta o per ridurne la dipendenza. Altri sostengono invece che le e-cig facilitano l’accesso al fumo di sigaretta in chi non ha mai fumato, soprattutto giovani, e contrastano l’effetto positivo delle campagne di controllo del fumo condotte negli ultimi anni. Per dirimere le molte questioni sollevate dal diffondersi dell’uso di e-cig, la Food and Drug Administration (FDA) ha richiesto il parere di un comitato di esperti, che, dopo aver analizzato una miriade di dati relativi a composizione ed effetti delle e-cig, ha pubblicato recentemente il suo rapporto, che qui riassumo.

  1. La maggior parte di e-cig emette numerose sostanze potenzialmente tossiche, la cui tipologia e quantità variano da prodotto a prodotto.
  2. L’esposizione a queste sostanze è minore rispetto a quella fornita dalle normali sigarette.
  3. L’assunzione di nicotina varia da prodotto a prodotto. Negli adulti è generalmente paragonabile a quella delle normali sigarette.
  4. Gli effetti a lungo termine del consumo di e-cig non sono definibili, soprattutto per il periodo relativamente breve trascorso dalla loro immissione in commercio, e per la mancanza di studi clinici a lungo termine.
  5. Esistono tuttavia evidenze che le e-cig esercitano importanti effetti biologici: aumentano la frequenza cardiaca, facilitano l’insorgenza di tosse e malattie respiratorie, inducono disfunzione endoteliale e stress ossidativo. Evidenze più limitate indicano che alcuni aerosol di e-cig danneggiano il DNA.
  6. Giovani che consumano e-cig diventano più facilmente fumatori di sigarette rispetto ai giovani che non ne fanno uso.
  7. L’efficacia delle e-cig nel ridurre la dipendenza da fumo è ancora incerta, soprattutto per la scarsità di studi clinici controllati. I dati disponibili dimostrano una maggior efficacia di e-cig che erogano nicotina, e di un consumo continuativo piuttosto che saltuario di e-cig.
  8. Sostituire interamente sigarette combustibili con e-cig riduce sicuramente l’esposizione a sostanze tossiche e cancerogene, il che potrebbe tradursi in minori effetti dannosi per la salute.

Il comitato sottolinea la necessità di condurre ulteriori ricerche sulle e-cig e conclude che, utilizzando un modello di predizione che considera tutti gli effetti oggi noti delle e-cig, nonché le varie strategie di utilizzo (accesso al fumo, cessazione della dipenedenza, etc), il consumo di e-cig produrrà un effetto positivo netto per la salute pubblica nei prossimi 30 anni.

Public Health Consequences of e-Cigarette Use. Washington, DC. National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine. 2018.

LA MIOCARDITE. COS’È E COME SI CURA

È un’infiammazione del tessuto muscolare cardiaco che può colpire anche i giovani. Sebbene sia reversibile nella maggior parte dei casi, talvolta può avere gravi conseguenze o essere addirittura fatale. Esistono due forme principali: fulminante e non fulminante.
La forma fulminante è associata a una grave disfunzione del cuore, tale da richiedere un trattamento intensivo. La forma non fulminante, che può comportare un certo grado di disfunzione cardiaca, non mette in pericolo la vita.
La miocardite può essere di natura: 1) infettiva, per esempio a seguito di infezioni virali; 2) tossica, come può accadere in chi usa alcuni antipsicotici; 3) autoimmune, per esempio in individui predisposti che hanno avuto manifestazioni di altre forme di autoimmunità (tiroidite, colite ulcerosa, ecc.) o che soffrono di particolari sindromi (sarcoidosi, ecc.).
A volte la miocardite può decorrere quasi senza sintomi, ma più spesso si manifesta con dolore toracico e disturbi del ritmo cardiaco (tachicardie, rallentamenti bruschi del ritmo cardiaco, extrasistoli, ecc.). Si possono avere anche alterazioni dell’elettrocardiogramma e l’aumento dei livelli nel sangue di alcune proteine (troponina, CK-MB), che possono far pensare a un infarto.
La conseguenza più temibile è lo scompenso cardiaco. In questo caso, i disturbi più tipici sono: stanchezza, abbassamento della pressione, mancanza di respiro, difficoltà ad alimentarsi con senso di tensione addominale.
Per diagnosticare una miocardite possono rendersi necessari alcuni esami generali, tra cui esami del sangue (livelli di alcuni enzimi che indicano danni al muscolo cardiaco, esami infettivologici, ecc.), radiografia del torace, elettrocardiogramma, ecocardiogramma. Nei pazienti a basso rischio, la risonanza magnetica può essere sufficiente. Una diagnosi certa si può avere solo eseguendo la biopsia miocardica, un’indagine invasiva che deve essere eseguita e interpretata da personale esperto: consiste nel prelievo di pochi millimetri di tessuto con una pinza a morsetto (biotomo), montata su un catetere che viene introdotto da una grossa vena, di solito la giugulare interna destra.
Non esistono terapie specifiche per la miocardite. Si raccomanda sempre il riposo a letto e quindi il ricorso a terapie mirate per contrastare sintomi e complicanze, ad esempio con farmaci per controllare lo scompenso, le aritmie e il dolore. Il trattamento va sempre personalizzato. Se, per esempio, si sospettano forme autoimmuni può rendersi necessario il ricorso a cortisonici, immunosoppressori o farmaci biologici. Se invece la miocardite è di natura tossica, occorre innanzitutto sospendere il farmaco implicato. I pazienti a rischio (miocardite fulminante o disfunzione cardiaca significativa anche se tollerata, sindromi autoimmuni, aritmie gravi) devono essere rapidamente indirizzati presso centri specializzati, in grado di far fronte alle necessità diagnostiche (RM e biopsia) e terapeutiche (terapia intensiva, ecc.). Il più delle volte il danno al miocardio regredisce, arrivando in molti casi alla normalizzazione, ma in alcuni pazienti la miocardite può comportare una disfunzione permanente del cuore.

Da Corriere Salute. Redatto in collaborazione con Maria Frigerio, direttore della Cardiologia 2 del De Gasperis Cardio Center, Ospedale Niguarda di Milano.

LATTE ALTERNATIVO: IL LATTE D’AVENA

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

È una bevanda che si ottiene dalla farina di avena sativa, un cereale largamente coltivato. Ha un sapore delicato e molto spesso in cucina viene utilizzato in sostituzione del latte vaccino per la preparazione di dolci e budini. Privo di colesterolo, come del resto tutte le bevande vegetali, questo “latte” è indicato nelle diete per pazienti ipercolesterolemici. Seppure in misura modesta, contiene betaglucani, una fibra solubile che in quantità adeguata (numerosi studi pubblicati indicano come dose efficace 3 grammi/die), può ridurre il livello di LDL colesterolo. Del tutto privo di lattosio, i restanti carboidrati presenti (maltosio e glucosio) sono in quantità maggiore rispetto al latte vaccino, mentre le proteine sono quasi la metà. Il latte di avena in commercio viene sempre addizionato con olio di semi di girasole e addensato con carragenina (E 407).

100 ml latte d’avena. Kcal 47; carboidrati 6.6 g; proteine 1.4 g; lipidi 1.6 g (saturi 0.3 g; polinsaturi 0; monoinsaturi 0); fibra 0.8 g.

UNA FREQUENZA CARDIACA ELEVATA SI ASSOCIA A UNA MAGGIORE MORTALITÀ, NON SOLO PER CAUSE CARDIOVASCOLARI

La frequenza cardiaca (FC) a riposo è considerata un marcatore di funzionalità cardiaca, nonché un indicatore dello stato di salute del paziente. Tuttavia, la maggior parte degli studi che hanno indagato il ruolo prognostico della FC ne hanno valutato principalmente l’associazione con la mortalità cardiovascolare, generalmente sulla base di un singolo rilievo di FC. Per quanto riguarda invece le variazioni di FC nel tempo, le evidenze disponibili sono contrastanti e in parte falsate dal mancato aggiustamento per fattori confondenti, quali attività fisica e consumo di alcolici. Questo studio australiano ha analizzato l’associazione tra FC a riposo e le sue variazioni nel tempo e la mortalità, da tutte le cause e da cause specifiche. Sono stati analizzati i dati dei partecipanti al “Melbourne Collaborative Cohort Study”, un ampio studio prospettico che ha arruolato 41.514 soggetti dell’area metropolitana di Melbourne (età 40-69 anni), nei quali la FC a riposo è stata rilevata all’arruolamento (periodo 1990-1994: n=41.386) e al follow-up (periodo 2003-2007; n=21.692), mediante l’utilizzo di un monitor Dinamap.

Dopo aggiustamento per una serie di variabili confondenti, un’elevata FC era associata au un aumento della mortalità cardiovascolare (+11% per ogni 10 battiti/minuto), per cancro (+10%) e altre cause (+18%). Un aumento nel tempo della FC era pure associato a un aumento della mortalità (Figura).

Heart (IF=6.059) 2017 Dec 21. pii: heartjnl-2017-312251. doi: 10.1136/heartjnl-2017-312251

IL PESO CORPOREO DIMINUISCE SE A TAVOLA SI MANGIA VEGETARIANO O MEDITERRANEO

La prestigiosa rivista Circulation pubblica uno studio italiano (primo autore Francesco Sofi, dell’Università di Firenze) che ha messo a confronto gli effetti di due diete ipocaloriche, una vegetariana (per la precisione latto-ovo-vegetariana) e una mediterranea, su peso corporeo e profilo di rischio cardiovascolare.
Lo studio CARDIVEG (Cardiovascular Prevention with Vegetarian Diet) ha assegnato in maniera randomizzata 118 soggetti (età media 51 anni, 78% femmine) ‘onnivori’ in sovrappeso con un profilo di rischio cardiovascolare di grado basso-moderato alla dieta vegetariana o a quella mediterranea per 3 mesi; dopodiché i gruppi si sono invertiti per altri 3 mesi.

Per quanto riguarda l’effetto sul peso corporeo, non sono state registrate differenze tra le due diete (alla fine dello studio, la dieta vegetariana ha ridotto il peso in media di 1.88 Kg, la dieta mediterranea di 1.77 Kg); nessuna differenza anche per indice di massa corporea e massa grassa (Figura). La dieta vegetariana è risultata più efficace della mediterranea nel ridurre i livelli di LDL colesterolo (-5.4%) e vitamina B12 (-5.06%); per contro, la dieta mediterranea è più efficace nel ridurre i trigliceridi (-5.91%). Non sono emerse invece differenze significative nei marcatori di stress ossidativo e nelle citochine infiammatorie, con la sola eccezione dell’interleuchina-17, che si è ridotta solo con la dieta mediterranea.

Circulation (IF=19.309) 137:1103,2018

LIPOPROTEINA (A) E SINDROME CORONARICA ACUTA PREMATURA

La lipoproteina (a) [Lp(a)] è da tempo riconosciuta come un fattore di rischio indipendente per lo sviluppo e la progressione dell’aterosclerosi e delle malattie cardiovascolari. La Lp(a) ha una struttura molto simile a quella delle particelle LDL, differenziandosene per la presenza dell’apolipoproteina (a) [apo(a)], legata in maniera covalente all’apolipoproteina B (apoB).

Lo studio condotto da ricercatori ellenici ha valutato l’associazione tra livelli plasmatici di Lp(a) e sviluppo di sindrome coronarica acuta (SCA) in 1.457 pazienti con SCA (496 con meno di 45 anni) valutati ad almeno 6 mesi dall’evento acuto, e 2.090 controlli (986 con meno di 45 anni). Il confronto tra le due popolazioni ha evidenziato come a ogni aumento di 10 mg/dL di Lp(a) corrisponda un incremento del rischio di sviluppare una SCA del 4% nei pazienti con meno di 45 anni e del 2% nei pazienti con 45-60 anni, rispetto ai controlli. Inoltre, in presenza di livelli di Lp(a) >50 mg/dL, il rischio di SCA risulta quasi triplicato al di sotto dei 45 anni (OR = 2.88; 95% CI, 1.7-4.6) e raddoppiato (OR = 2.06; 95% CI, 1.4-3.2) tra 45 e 60 anni, rispetto ai controlli; al contrario, non si evidenzia un aumento significativo del rischio di SCA nei pazienti con più di 60 anni. Inoltre, i livelli di Lp(a) si associano a una probabilità significativamente più alta di SCA (OR per 1 mg/dL = 1.01; 95% CI, 1.01-1.02) nei pazienti con livelli di LDL-C >70 mg/dL; al contrario l’associazione non è significativa nei pazienti con LDL-C <70 mg/dL.

Lo studio conferma di fatto il ruolo della Lp(a) come fattore di rischio indipendente per lo sviluppo di eventi cardiovascolari. Inoltre, l’analisi evidenzia come elevati livelli di Lp(a) possano esercitare un maggiore impatto clinico nei pazienti più giovani (soprattutto in presenza di livelli di LDL-C >70 mg/dL), suggerendo un possibile continuum decrescente con l’avanzare dell’età per cui l’associazione tra rischio cardiovascolare e Lp(a) risulta massima al di sotto dei 45 anni, è di minore entità tra i 45-60 anni, e diventa non significativa dopo i 60 anni.

Le implicazioni cliniche dello studio possono essere così riassunte: uno screening per Lp(a) è raccomandato nei pazienti con SCA giovanile, soprattutto in assenza di altri fattori di rischio convenzionali; in considerazione del fatto che i livelli di Lp(a) sono in larga parte geneticamente determinati, uno screening dei familiari dei pazienti con SCA giovanile e livelli elevati di Lp(a) può essere utile all’identificazione di soggetti ad alto rischio di SCA prematura.

Atherosclerosis (IF=4.239) 269:29, 2018