STREET FOOD: LE PANELLE

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Le panelle sono uno dei più popolari cibi di strada di Palermo. Queste frittelle, composte da farina di ceci, vengono servite in un caratteristico pane ricoperto di semi di sesamo: la Mafalda. Nelle numerose friggitorie ambulanti viene usata la stessa ricetta: la farina di ceci viene sciolta in acqua salata fino a raggiungere una buona cremosità, poi viene stesa su di un piano, tagliata e fritta nell’olio. Introdotta in Sicilia tra il IX e l’XI secolo, durante la dominazione araba, la farina di ceci non solo ha contribuito a sfamare intere generazioni, ma ha introdotto un cibo apprezzato indistintamente da tutte le classi sociali. Ancora oggi il “panellaro” usa posizionarsi nelle vie del centro dove chiunque può gustare in qualsiasi ora della giornata un panino caldo. Nel giorno di Santa Lucia è tradizione mangiare le panelle dolci, farcite con crema e spolverizzate di zucchero a velo. Le panelle hanno ricevuto il riconoscimento di PAT, “prodotto agroalimentare tradizionale” nel 2012.

Un panino. Kcal 127,94; carboidrati 20,71 g; proteine 5,45 g; lipidi 3,18 g (saturi            0,51 g; polinsaturi 0,72 g; monoinsaturi 1,72 g); fibra 2,34 g.

VARIABILITÀ PRESSORIA ED EVENTI CARDIOVASCOLARI

La pressione arteriosa (PA) è un parametro assai variabile, che cambia minuto per minuto, giorno per giorno. La grandezza di questa variabilità dipende da una serie di fattori, che includono la rigidità delle arterie, il tono simpatico, il rilascio di sostanze vasoattive (vasocostrittrici e vaso dilatanti), la sensibilità dei barorecettori. La PA varia anche ogni volta che viene misurata (dal medico o dal paziente stesso), influenzata dai fattori di cui sopra, ma anche dall’aderenza alla terapia antiipertensiva, dal tipo di farmaco antiipertensivo, dal momento dell’assunzione della terapia rispetto al momento della misurazione, dall’intensità del trattamento antiipertensivo e dall’età del paziente. Esistono dati, peraltro molto contraddittori, che sembrano associare la variabilità della PA da visita medica a visita medica a un aumento degli eventi cardiovascolari e alla mortalità nei pazienti ad alto rischio in trattamento antiipertensivo.

A chiarire la questione hanno provveduto i ricercatori dello studio SPRINT (Systolic Blood Pressure Intervention Trial), che hanno condotto un’analisi post-hoc in una coorte di 7879 partecipanti randomizzati a obiettivi di pressione sistolica (PS) intensivi (<120 mm Hg) o standard (<140 mm Hg). La variabilità pressoria (OBPV) è stata calcolata come il coefficiente di variazione della PS misurata durante le visite a 3, 6, 9 e 12 mesi dello studio. Nella coorte esaminata, l’età più avanzata, il sesso femminile, la razza nera, il fumo, la malattia renale cronica e la malattia coronarica erano determinanti indipendenti di una maggiore OBPV. L’uso di diuretici di tipo tiazidico o di bloccanti del canale del calcio diidropiridinici era associato a una OBPV più bassa mentre l’uso di inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina o di bloccanti del recettore dell’angiotensina era associato a una OBPV maggiore. Non vi era alcuna differenza nell’OBPV tra i partecipanti randomizzati a gruppi di trattamento standard o intensivo.

L’OBPV non è risultato associato all’end-point primario dello studio (eventi cardiovascolari fatali e non), all’insorgenza di ictus o insufficienza cardiaca. Nel 20% di pazienti con OBPV maggiore (quinto quintile) la mortalità totale era significativamente elevata (HR: 1.92; CI 1.22-3.03), ma nell’intera casistica esaminata, la relazione tra OBPV e mortalità non raggiungeva la significatività statistica (P=0.07). A conclusione del lavoro, gli Autori suggeriscono che i medici si concentrino sui valori assoluti di PA raggiunti con il trattamento, e in particolare sull’aderenza alla terapia antiipertensiva, senza considerare la variabilità pressoria. Almeno fino a quando studi prospettici ad hoc non dimostrino che una riduzione della variabilità pressoria si associ ad una riduzione di eventi cardiovascolari e mortalità.

Hypertension (IF=6.857) 70:751,2017

ANCHE UN COLESTEROLO-HDL MOLTO ALTO NON FA PROPRIO BENE!

I grandi studi epidemiologici degli anni ‘60-‘80 dimostrano l’esistenza di un’associazione inversa tra la concentrazione di colesterolo-HDL (HDL-C) nel sangue e malattia cardiovascolare e mortalità. Più è basso il valore di HDL-C, maggiore è il rischio di malattie cardiovascolari e morte. D’altro canto, più è elevato il valore di HDL-C, minore è il rischio (di qui la nozione di “colesterolo buono”). Tuttavia, studi più recenti condotti in soggetti con polimorfismi genetici che determinano concentrazioni elevate di HDL-C hanno paradossalmente riscontrato un aumento del rischio cardiovascolare. La relazione tra HDL-C elevato e mortalità rimane quindi poco chiara. Una risposta chiarificatrice (e definitiva?) viene da uno studio danese, che ha analizzato l’associazione tra valori elevati di HDL-C e mortalità da tutte le cause in 52268 uomini e 64240 donne arruolati in due grandi studi prospettici di popolazione – il Copenhagen City Heart Study e il Copenhagen General Population Study.

I ricercatori hanno così dimostrato che, in entrambi i sessi, esiste una relazione a U tra valori di HDL-C e mortalità da tutte le cause: se, come atteso, valori ridotti di HDL-C si associavano a un’elevata mortalità, lo stesso valeva anche per valori elevati di HDL-C (Figura 1). La concentrazione di HDL-C associata al più basso tasso di mortalità era di 54-77 mg/dl nei maschi e di 69-97 mg/dl nelle femmine. La mortalità aumentava del 36% e 106% nei maschi con HDL-C di 97-115 mg/dl e con HDL-C>115 mg/dl, e del 10% e 68% nelle femmine con HDL-C di 116-134 mg /dl e con HDL-C>134 mg/dl.

 

Un’analisi successiva sugli stesi dati ha dimostrato che valori ridotti ed elevati di HDL-C si associano a un’aumentata incidenza di malattie infettive (Figura 2).

 

 

Come sempre avviene in epidemiologia, l’esistenza di un’associazione tra due variabili (HDL-C e mortalità, o malattie infettive in questo caso) non necessariamente implica una relazione causa-effetto tra le stesse variabili. In altre parole, non è detto che valori molto ridotti o molto elevati di HDL-C causino un aumento della mortalità e delle malattie infettive. L’ipotesi meccanicistica più semplicistica a sostegno di una relazione causa-effetto tra HDL-C e malattie cardiovascolari (e di conseguenza mortalità totale) deriva da studi sperimentali che dimostrano come le HDL perdano in parte le proprietà “cardioprotettive” quando la loro concentrazione nel sangue diminuisce o aumenta in modo importante. Che questo valga anche per protezione dalle malattie infettive (contribuendo così anche all’aumento della mortalità totale) rimane da dimostrare.

Eur Heart J (IF=20.212) 21 Aug e 8 Dec, 2017

STREET FOOD: IL PANZEROTTO

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Nato a Bari nel XVI secolo, il panzerotto è forse uno dei più antichi cibi da strada. Veniva confezionato con gli avanzi di pasta di pane, cui era data una forma di mezzaluna, e farcito con pomodoro e pezzi di formaggio. Era considerato un piatto povero che costituiva per molte famiglie la cena. Ancora oggi l’impasto è uguale a quello del pane: farina, lievito, acqua e sale. Il ripieno, a parte il classico pomodoro e mozzarella, può variare a seconda del luogo in cui viene prodotto: vengono impiegate verdure o carne macinata. Anche la denominazione è diversa: a Napoli è la pizza fritta, a Lecce il calzone. In molti paesi del barese è usanza preparare i panzerotti la vigilia dell’Immacolata per iniziare le festività natalizie. E’ rimasta l’antica tradizione di benedire con un taglio a forma di croce la massa dell’impasto come ringraziamento del cibo ricevuto. In realtà questo gesto facilita una migliore lievitazione che è fondamentale per una perfetta riuscita.

Un panzerotto. Kcal: 245.55; carboidrati: 38.59 g; proteine: 10.66 g; lipidi: 6.29 g (saturi 2.73 g, polinsaturi 0.30 g, monoinsaturi 1.94 g); fibra: 1.84 g.

IL RISCHIO DI DEMENZA È PIÙ ALTO NELLE DONNE IPERTESE IN ETÀ ADULTA RISPETTO AGLI UOMINI

In questo ampio studio è stata valutata l’associazione tra ipertensione in età adulta e demenza in 5.646 individui (3095 donne e 2551 uomini) di cui erano disponibili i valori di pressione arteriosa (PA) registrati in due periodi successivi, nel 1964-1973 (età media 32,7 anni) e 1978-1985 (età media 44,3 anni), e l’incidenza di demenza nel decennio 1996-2015. La prevalenza di ipertensione in età adulta era maggiore negli uomini che nelle donne.

Durante il follow-up, 532 individui (298 donne e 234 uomini, in entrambi i casi poco più del 9%) hanno sviluppato una demenza. La presenza di ipertensione alla prima rilevazione era associata a un aumento del 65% del rischio di demenza tra le donne, ma non gli uomini. Anche l’insorgenza di ipertensione tra la prima e seconda rilevazione si associava a un aumentato rischio (73%) di demenza nelle donne. Esistono evidenze che nelle donne l’ipertensione causa danni maggiori che negli uomini sulla funzionalità renale e cardiaca; ora si aggiunge anche il cervello. Per ora possiamo parlare solo di associazione, in quanto i possibili meccanismi genere-specifici responsabili del peggioramento cognitivo nelle donne ipertese sono ancora sconosciuti.

Neurology (IF=8.320) 89:1886,2017

SALTARE LA COLAZIONE FA MALE ALL’APPARATO CARDIOVASCOLARE

Cominciare la giornata con un’abbondante colazione fa bene anche all’apparato cardio-circolatorio. Lo dice uno studio coordinato da Valentin Fuster del CNIC di Madrid e del Mount Sinai Heart di New York. I ricercatori hanno esaminato i dati ricavati da questionari sulle abitudini alimentari di 4.052 adulti senza malattie cardiache. Nel complesso, solo il 3% dei partecipanti ha riferito di saltare la prima colazione (SBF), mentre il 69% preferiva un pasto leggero (LBF), il cui apporto calorico ricopriva tra il 5 e il 20% delle calorie complessive della giornata, e il 28% una ricca colazione (HBF), il cui apporto calorico ricopriva più del 20% di quello giornaliero medio. Coloro che saltavano la colazione erano più probabilmente maschi, fumatori e persone a dieta, che consumavano la gran parte delle calorie intorno all’ora di pranzo.

La prevalenza di aterosclerosi preclinica in vari distretti aumentava progressivamente passando da soggetti HBF a LBF e SBF (Figura). I soggetti che saltavano la colazione (SBF) avevano anche la circonferenza vita più ampia, un maggiore indice di massa corporea, e pressione sanguigna, colesterolemia e glicemia più elevati.

J Amer Coll Cardiol (IF=19.896) 70:1833, 2017

STATINE E MORTALITÀ IN PREVENZIONE PRIMARIA

Abbiamo già visto come le statine siano molto efficaci nel ridurre la mortalità totale e cardiovascolare in prevenzione secondaria. E in prevenzione primaria?
L’importanza delle statine anche nella prevenzione primaria è stato inizialmente messo in luce nel “West of Scotland Coronary Prevention Study” (WOSCOPS) (N Engl J Med 1995), che ha reclutato 6.595 soggetti con elevati valori di colesterolo (LDL-C medio 192 mg/dl) senza storia clinica di malattia cardiovascolare, trattati per cinque anni con pravastatina (40 mg/die) o placebo. La terapia con pravastatina ha ridotto l’LDL-C del 26%, una percentuale modesta per gli standard attuali ma rilevante nel contesto clinico/temporale dello studio WOSCOPS; la mortalità coronarica si è ridotta del 33% (p=0.042), quella cardiovascolare del 33% (p=0.033) e la mortalità totale del 22% (p=0.051).
Lo studio JUPITER (N Engl J Med 2008) ha reclutato 17.802 soggetti non affetti da malattia cardiovascolare, a basso rischio, con livelli “normali” di colesterolo LDL (mediana LDL-C 108 mg/dl), ma livelli elevati di proteina C reattiva (PCR), trattati con rosuvastatina (20 mg/die) o placebo. Per ragioni etiche il trial è stato interrotto ben prima del previsto, dopo circa 2 anni di followup, alla luce dei significativi benefici nel gruppo trattato con rosuvastatina. Il colesterolo LDL si è ridotto del 50% (LDL-C 47 mg/dl) nel gruppo trattato con rosuvastatina, con una riduzione della mortalità totale del 20% (p=0.02).
Si conferma quindi il ruolo centrale e insostituibile delle statine nella prevenzione cardiovascolare, anche nel soggetto non affetto da malattia cardiovascolare.

STREET FOOD: LA BOMBETTA

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Specialità della val d’Itria, territorio pugliese a cavallo di tre province, la bombetta è un involtino di coppa di maiale farcita con pezzettini di formaggio. La forma rotonda e il sapore intenso ed esplosivo hanno probabilmente contribuito a questo appellativo. Ogni paese ha una ricetta tipica anche se la più diffusa è quella con la farcitura di canestrato, un formaggio di latte di pecora caratterizzato dalle tipiche striature dei canestri in cui viene posto. La bombetta è un prodotto che si trova nelle macellerie di alcune provincie pugliesi e viene preparato e cotto al momento. Infatti, fuori dal negozio, è posto un fornello (furnidd) dove possono essere cotte direttamente le carni scelte dal cliente favorendo così un consumo veloce. Questo caratteristico cibo attualmente è stato riscoperto e valorizzato da Slow Food che lo ripropone confezionato in cartoccio accompagnato a una fetta di pane casereccio, in fiere ed eventi gastronomici.

Una porzione (g. 100). Kcal 265.8; carboidrati 1.4 g; proteine 27.55 g; lipidi 17.3 g; saturi 7.58 g; polinsaturi 2.00 g; monoinsaturi 4.77 g.

UN’ATTIVITÀ FISICA MODERATA RIDUCE DEL 14% IL RISCHIO CARDIOVASCOLARE E DEL 20% LA MORTALITÀ

Lo dice lo studio PURE (Prospective Urban Rural Epidemiology), i cui risultati sono stati pubblicati su Lancet. L’indagine è durata sette anni e ha preso in considerazione 130 mila individui sani tra i 35 e i 70 anni, provenienti da zone rurali e urbane di 17 diversi Paesi, sviluppati e non, dalla Svezia al Brasile, dalla Cina allo Zimbabwe. I partecipanti sono stati suddivisi in tre gruppi in base all’intensità dell’attività fisica svolta: bassa (<600 METxmin a settimana) (per la definizione di MET vedi l’articolo “Come si misura l’attività fisica?”); moderata (600-3000 METxmin a settimana) ed elevata (>3000 METxmin a settimana).

Nei soggetti che svolgono un’attività fisica moderata il rischio di eventi cardiovascolari è ridotto del 14%, e la mortalità totale del 20%, rispetto ai soggetti a bassa attività (Figura). Un’attività fisica elevata riduce gli eventi cardiovascolari e la mortalità del 25% e 35%.

Lo studio PURE conferma il ben noto beneficio dell’attività fisica sulla salute, cardiovascolare e non, dimostrando che il beneficio è simile per attività fisica ricreazionale (tipica dei paesi più evoluti) e non (legata prevalentemente al lavoro, nei paesi in via di sviluppo). Aumentare, anche di poco, l’attività fisica rappresenta un elemento irrinunciabile e a basso costo nella prevenzione cardiovascolare e per il mantenimento di una buona salute.

Lancet (IF=47.831) 390:2643, 2017

IDENTIFICATO IL MECCANISMO MOLECOLARE DELL’EFFETTO ANORESSIZZANTE DELLE PROTEINE

È noto che le proteine, e gli aminoacidi di cui esse sono composte, rappresentano i nutrienti più efficaci nel sopprimere la fame e indurre un senso di sazietà. Ricercatori inglesi e tedeschi hanno identificato il meccanismo molecolare (o uno dei meccanismi molecolari) responsabile di tale effetto. Il meccanismo sarebbe innescato da specifici aminoacidi, arginina e lisina, che vengono riconosciuti dai taniciti, cellule specializzate di origine gliale che rivestono regioni ventricolari del cervello in cui la barriera emato-encefalica è interrotta, in particolare il pavimento e le pareti laterali del III ventricolo. Questa localizzazione anatomica garantisce ai taniciti un accesso privilegiato al fluido cerebrospinale (CSF) e al suo contenuto, in particolare agli aminoacidi contenuti negli alimenti. D’altra parte, i lunghi processi terminali dei taniciti proiettano nei nuclei ipotalamici coinvolti nella regolazione di appetito/sazietà. I taniciti possono così fungere da mediatori dell’effetto dei nutrienti sulla regolazione del bilancio energetico.

I ricercatori anglo-tedeschi hanno dimostrato che i taniciti esprimono un recettore, denominato T1r1/T1r3, della famiglia “umami”, recettori presenti nelle papille gustative della lingua, dove sono responsabili della percezione del gusto tipico degli amminoacidi.

L’interazione di arginina e lisina con il recettore “umami” dei taniciti induce un aumento del calcio intracellulare, che promuove la liberazione di ATP, amplificandone il segnale attraverso il recettore P2Y1 (figura). L’ATP liberato dai taniciti raggiunge attraverso le loro terminazioni il nucleo arcuato dell’ipotalamo, informandolo dell’aumentata disponibilità di aminoacidi, e attivando neuroni anoressizzanti che aumentano il senso di sazietà e riducono l’appetito.

Le ricadute pratiche della scoperta sono oggi praticamente nulle. Il meccanismo descritto suggerisce che prediligere cibi ricchi di arginina e lisina (spalla di maiale, controfiletto di manzo, pollo, sgombro, prugne, albicocche, avocado, lenticchie e mandorle) potrebbe favorire il senso di sazietà, ridurre l’appetito e di conseguenza il peso corporeo. Tutto questo va verificato con studi appropriati nell’uomo. Si potrebbero poi identificare degli attivatori diretti del recettore “umami” dei taniciti, da utilizzare nel trattamento del sovrappeso e dell’obesità; in questo caso la strada da percorrere è ancora più lunga.

Mol Metab (IF=6.799) 6:1480, 2017