IL GRANO SARACENO

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Comunemente considerato un cereale, il grano saraceno appartiene alla famiglia delle Poligonacee. Ha origini antichissime, ma in Italia arriva solo nel XV secolo quando inizia la sua coltivazione soprattutto nelle zone alpine. Le sue caratteristiche nutrizionali sono molto peculiari: infatti il grano saraceno si può definire una via di mezzo tra i legumi e i cerali. Le proteine presenti hanno un buon valore biologico essendo ricche in amminoacidi essenziali: lisina, treonina, triptofano e amminoacidi solforati. Non contiene glutine e quindi può essere consumato anche dai celiaci. Ricco di sali minerali, presenta una buona quantità di antiossidanti come la rutina, e di flavonoidi come la vitexina e l’isorientina. Molti studi sono stati svolti in Cina dove diverse etnie hanno fatto del grano saraceno un importante alimento nella dieta quotidiana. Si è dimostrato come, in queste popolazioni, il livello di colesterolo LDL nel sangue rimanga di valori particolarmente modesti. Ricco di fibra insolubile, secondo uno studio pubblicato sul Journal of Gastroenterology, con un’assunzione costante può ridurre il rischio di formazione di calcoli biliari.

LA RICETTA. Crêpes di grano saraceno con salmone affumicato

Ingredienti (per 4 persone): 120 g. di farina di grano saraceno, 30 g. di farina 00, 120 ml di latte, 120 ml di acqua, 1 uovo, 1/2 cucchiaino di sale. Per la farcitura 200 g. di salmone affumicato. Unire le due farine, l’uovo, il sale e versare a filo il latte e l’acqua fino a ottenere una pastella liscia. Lasciare riposare in frigorifero per mezz’ora. Scaldare una pentola antiaderente e cuocere le crêpes. Farcirle con il salmone affumicato. Buon appetito!

Kcal (per porzione): 242,6. Proteine: 18,83 g. Lipidi: 4,86 g; saturi 1,2 g; insaturi 1,04 g; monoinsaturi 1,71 g. Carboidrati: 32,91 g. Fibra 0,99 g.

PERCHÉ IL COLESTEROLO HDL È “BUONO”? LE HDL PROTEGGONO DAL DANNO ENDOTELIALE

Per decenni l’endotelio, lo strato cellulare che riveste la superficie interna dei vasi sanguigni, è stato considerato come una barriera inerte atta a separare la parete vasale dal torrente circolatorio; recentemente è stato dimostrato che oltre a esercitare un ruolo strutturale l’endotelio è coinvolto nella regolazione della funzionalità vasale. In condizioni fisiologiche l’endotelio è un monostrato continuo con una superficie anti-adesiva per le cellule circolanti; inoltre produce e rilascia una serie di molecole vasoattive, quali ossido nitrico (NO) e prostaciclina (PGI2), che agiscono sulle cellule muscolari lisce sottostanti regolando il tono vasale. La perdita della funzionalità endoteliale è un evento chiave del processo aterosclerotico e si caratterizza per la ridotta disponibilità di molecole ad azione vasodilatante e per l’aumento di permeabilità, dovuto alla perdita di continuità del monostrato e all’espressione sulla superficie endoteliale di molecole favorenti l’adesione delle cellule circolanti.

Numerosi studi condotti in vitro ed in vivo hanno dimostrato che le HDL contribuiscono a preservare l’omeostasi endoteliale, proteggendo l’endotelio dai danni che favoriscono il processo aterosclerotico. Le HDL inibiscono la produzione di molecole pro-infiammatorie e di adesione cellulare, promuovendo il rilassamento della parete vasale e il mantenimento dell’integrità della barriera endoteliale. Le HDL stimolano la produzione e il rilascio di molecole vasoattive quali NO e PGI2 da parte delle cellule endoteliali. L’aumentata produzione di NO è dovuta all’induzione dell’espressione e attivazione dell’enzima ossido nitrico sintasi endoteliale (endothelial nitric oxide synthase, eNOS); tale effetto è mediato dall’interazione dell’apoA-I con il recettore scavenger SR-BI e dalla conseguente attivazione della via di segnale PI3K/Akt, che porta alla fosforilazione di eNOS. Inoltre, la sfingosina-1-fosfato (S1P), uno sfingolipide presente in piccole quantità nelle HDL, può mediare l’attivazione di eNOS per interazione con il proprio recettore S1P3. Le HDL sono in grado di aumentare anche la biodisponibilità di PGI2 attraverso diversi meccanismi che coinvolgono sia la componente lipidica che proteica delle HDL. La PGI2 è prodotta dalle cellule endoteliali a partire dall’acido arachidonico per azione delle ciclossigenasi (Cox-1 e soprattutto Cox-2) e della PGI2 sintasi. Le HDL possono fornire alle cellule l’arachidonato contenuto nei loro fosfolipidi ed esteri del colesterolo oppure possono rendere disponibile l’arachidonato presente nelle membrane attivando fosfolipasi calcio-dipendenti; inoltre, le HDL aumentano il contenuto cellulare di Cox-2 mediante meccanismi trascrizionali e post-trascrizionali.

Le HDL, e in particolare le particelle più piccole HDL3, sono in grado di inibire l’espressione delle molecole di adesione cellulare (CAMs), prevenendo così l’adesione delle cellule circolanti e la loro transmigrazione attraverso la parete vasale. I meccanismi responsabili di questo effetto non sono ancora stati completamente chiariti e potrebbero comprendere l’inibizione da parte delle HDL dell’attività della sfingosina chinasi e della traslocazione nucleare di NF-kB, e l’aumento dell’espressione di eme-ossigenasi 1 mediata da SR-BI.

Il risultato di tutto questo è che soggetti con livelli di HDL bassi presentano una disfunzione endoteliale, con ridotta vasodilatazione endotelio-mediata e quindi irrigidimento della parete arteriosa, che favorisce l’insorgenza di eventi cardiovascolari.

LA DIETA MIMA-DIGIUNO DI VALTER LONGO PER VIVERE PIÙ A LUNGO E MEGLIO?

In questa intervista Valter Longo, Professore ordinario di gerontologia e di scienze biologiche e Direttore dell’Istituto di Longevità nella School of Gerontology alla University of Southern California, Los Angeles, parla della dieta mima-digiuno, che propone per vivere più a lungo e meglio. A presto per un nostro commento.

TERAPIA GENICA PER LA MALATTIA DI NIEMANN-PICK DI TIPO C? PER ORA È EFFICACE NEL TOPO

La malattia di Niemann-Pick di tipo C è una sfingolipidosi, e fa parte dell’eterogeneo gruppo di malattie ereditarie da accumulo lisosomiale. La prevalenza stimata è circa 1/130.000 nati. La trasmissione è autosomica recessiva; la mutazione più frequente è a carico del gene NPC1, presente nel 95% delle famiglie affette.

Il quadro clinico è estremamente eterogeneo e l’età d’insorgenza della malattia può collocarsi tra il periodo perinatale fin oltre i 50 anni. La forma neonatale è caratterizzata da epato-splenomegalia, con ittero colestatico prolungato che generalmente regredisce spontaneamente, ma che talvolta evolve rapidamente in grave insufficienza epatica, provocando la morte. L’epato-splenomegalia è un segno molto frequente anche nei bambini, che può rimanere isolato fino alla comparsa dei sintomi neurologici. L’età di insorgenza di questi sintomi e la loro evoluzione determinano la gravità della malattia. Nella forma infantile grave (20% dei casi), entro il secondo anno di vita si manifestano disturbi neurologici associati a ritardo dello sviluppo motorio e ipotonia. Nelle altre forme più frequenti i sintomi neurologici caratteristici sono atassia cerebellare e disartria (molto frequenti), cataplessia (20% dei casi), distonia (frequente), oftalmoplegia verticale sopranucleare (quasi costante), patologia convulsiva (relativamente frequente) e, spesso, demenza progressiva che si manifesta tra i 3 e i 15 anni (forme infantili tardive e giovanili, 60-70% dei casi) o successivamente (forma adulta, 10% dei casi, con disturbi psichiatrici più gravi. La prognosi dipende dall’età di insorgenza delle manifestazioni neurologiche ed è più grave nei casi di coinvolgimento precoce delle funzioni neurologiche.

Il difetto cellulare caratteristico consiste in un’anomalia del trasporto intracellulare del colesterolo, con accumulo lisosomiale di colesterolo non esterificato e ritardo dell’innesco delle reazioni di omeostasi del colesterolo.

Attualmente non esiste un trattamento specifico. Nello studio che vi proponiamo oggi sono stati utilizzati topi in cui è stato eliminato il gene NPC1; rappresentano un buon modello della malattia umana perché sviluppano precocemente accumulo lisosomiale di colesterolo, perdita di peso, atassia, deficit neuronali ed elevata mortalità. I topi sono stati trattati una sola volta con un vettore virale non patogeno che veicolava il gene NPC1. Il trattamento ha prodotto una diminuzione dei depositi di colesterolo, una riduzione della perdita neuronale, un rallentamento del declino motorio e un aumento della sopravvivenza. È questa la prima dimostrazione che la terapia genica può rappresentare un opzione per il trattamento di questa malattia. Occorrerà tempo per confermarne sicurezza ed efficacia nel paziente.

Hum Mol Genet (IF=5.340) 26;52, 2017.

MANGIARE VEGETARIANO? PER IL PAZIENTE DIABETICO È PIÙ FACILE PERDERE PESO

La dieta vegetariana non è soltanto amica dell’ambiente, ma anche della forma fisica: secondo un nuovo studio, questo tipo di regime alimentare sarebbe due volte più efficace di una dieta convenzionale nel ridurre il peso corporeo nel paziente diabetico.

I ricercatori del hanno analizzato la risposta di 74 pazienti con diabete di tipo 2 a una dieta ipocalorica (-500 kcal/giorno): metà hanno seguito una dieta vegetariana, metà una classica dieta per pazienti diabetici. Dopo sei mesi, i primi hanno perso in media 6,2 kg, mentre i secondi circa 3,2 kg. Entrambe le diete sono risultati efficaci per ridurre il tessuto adiposo sottocutaneo, ma quella vegetariana ha ridotto maggiormente la massa grassa totale. Entrambe le diete hanno ridotto i livelli di emoglobina glicata e aumentato la sensibilità all’insulina.

Rimane da verificare che mangiare vegetariano sia utile a perdere peso e migliorare il metabolismo glucidico anche nei soggetti non diabetici.

J Am Coll Nutr. (IF=2.107) 36:364, 2017

FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE NEL BAMBINO FAVORISCONO LO SVILUPPO DI DEFICIT COGNITIVI IN ETÀ ADULTA

È noto che la presenza di fattori di rischio cardiovascolare, come ipertensione, dislipidemia e fumo, nell’adulto lo espone ad una maggior probabilità di sviluppare deficit cognitivi con l’avanzare dell’età. Ma cosa succede prima?

Per rispondere a questa domanda, ricercatori finlandesi hanno seguito negli anni, a partire dal 1980, più di 3500 bambini/adolescenti (età 3-18 anni); nel 2011, all’età di 34-49 anni, 2026 di essi sono stati riesaminati per valutare vari aspetti delle funzioni cognitive. I risultati di questa analisi sono stati recentemente pubblicati sul Journal of American College of Cardiology.

La presenza nei bambini e adolescenti di fattori di rischio cardiovascolari, come valori elevati di pressione arteriosa e colesterolo totale, o fumo di sigaretta, si associava in età adulta a peggiori performance cognitive, soprattutto per quanto riguarda memoria e apprendimento, e l’associazione di più fattori di rischio aggravava ulteriormente la situazione. L’associazione era indipendente dalla presenza degli stessi fattori di rischio nell’età adulta.

Occorre quindi implementare fin dai primi anni di vita misure di controllo e correzione dei fattori di rischio cardiovascolare, al fine di prevenire lo sviluppo futuro non solo di malattie cardiovascolari su base aterosclerotica, ma anche dei deficit cognitivi tipici dell’anziano.

JACC (IF=19.896) 69:2279,2017

OBESITÀ. COLPA DELLA MICROGLIA?

La regolazione dell’omeostasi energetica e del peso corporeo dipendono dall’azione integrata di neuroni localizzati nell’ipotalamo, che rilevano variazioni nell’assunzione di cibo, tramite ormoni prodotti dal tessuto adiposo come la leptina, cui rispondono modulando appetito e dispendio energetico. In questo modo contribuiscono a mantenere il peso corporeo nella norma. Tuttavia, un eccesivo apporto calorico può alterare questo sistema di regolazione, causando così un aumento del peso. Uno studio, condotto da ricercatori dell’Università della California di San Francisco e dell’University of Washington Medical Center, dimostra che questa disfunzione del sistema di regolazione sarebbe innescata dalla neuroglia, costituita da cellule del sistema immunitario, che rappresentano il 10-15% delle cellule del cervello.

I ricercatori americani hanno somministrato a due gruppi di topi una dieta ricca (HDF) o povera in grassi per 4 settimane e hanno osservato che la dieta ricca in grassi determina un’espansione delle cellule della microglia, che innescano fenomeni infiammatori locali a livello della regione medio-basale dell’ipotalamo. Gli animali tendono a mangiare di più e a bruciare meno calorie, aumentando così di peso rispetto ai topi sottoposti alla dieta povera in grassi. Un’attenuazione dell’attivazione della microglia, ottenuta geneticamente o farmacologicamente, ha diminuito la risposta alla dieta ricca in grassi riducendo l’assunzione di cibo del 15% e l’aumento di peso del 20-40% rispetto ai topi non trattati.

Al contrario, un farmaco in grado di attivare la risposta infiammatoria della microglia, somministrato a topi mantenuti a dieta povera in grassi, ha aumentato l’assunzione di cibo del 33%, ridotto del 12% il dispendio energetico e aumentato il peso corporeo del 400%. Questi esperimenti dimostrano che la reazione infiammatoria della microglia è non solo necessaria per determinare l’aumento di peso osservato con le diete ricche in grassi, ma è anche sufficiente di per sé nel determinare l’alterata regolazione del bilancio energetico ipotalamico, responsabile dell’aumento di peso.  Studi di imaging cerebrale hanno evidenziato un’espansione delle cellule della microglia (gliosi) nei soggetti obesi. Trattamenti in grado di ridurre l’infiammazione e l’espansione della microglia, come quello utilizzato dai ricercatori americani nei topi, potrebbero rivelarsi utili nel controllo della pandemia obesità che colpisce milioni di individui. Ma per questo occorrerà aspettare.

Cell Metab (IF=18.164) 26:185, 2017.

OBESITÀ: SEMPRE PIÙ UN’EPIDEMIA MONDIALE

Come a voi noto, il parametro utilizzato per diagnosticare l’obesità (dal 2013 una malattia!) è l’indice di massa corporea o BMI, calcolato come peso (in kg) diviso per altezza (in mt) elevata la quadrato. Si definisce così “normale” un individuo con BMI compreso tra 18.5 e 24.9; l’individuo è in sovrappeso quando il BMI è tra 25.0 e 29.9, ed è obeso quando il BMI è superiore a 30.

Nel 2013 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si era proposta di arrestare l’epidemia di obesità nel mondo, ma l’obiettivo è clamorosamente fallito, come dimostra uno studio appena pubblicato sul New England Journal of Medicine. Nel 2015, dei sette miliardi e mezzo di abitanti del pianeta, due erano in sovrappeso; di essi, più di 100 milioni di bambini (5%) e 600 milioni di adulti (12%) erano obesi. Il numero di soggetti obesi è raddoppiato dal 1980 al 2015 in oltre 70 Paesi sui 195 esaminati, ed è costantemente aumentato nella maggioranza dei Paesi analizzati. L’obesità è sempre più prevalente nei bambini che negli adulti, e generalmente più frequente nelle femmine che nei maschi.

Sempre nel 2015, un elevato BMI ha causato 4 milioni di decessi nel mondo, 2.7 dei quali per problemi cardiovascolari. In termini percentuali, l’eccesso di peso rappresenta il 7.1% di tutti i motivi di decesso. In ITALIA l’eccesso di peso causa oltre il 6% dei casi di morte prematura e disabilità. Le malattie cardiovascolari, che dell’obesità sono una delle conseguenze principali, sono la principale causa di morte nel Paese, con un aumento del 7.9% tra 2005 e 2015. Ma il nostro non è sicuramente il Paese che sta peggio nel mondo. Cina e India, con 15.3 milioni e 14.4 milioni di bambini obesi, sono i Paesi con l’ipoteca più pesante per il futuro; in Brasile e Indonesia il tasso di obesità fra i bambini è triplicato dal 1980 al 2015. La maglia nera per quanto riguarda l’età adulta va all’Egitto con il 35% di soggetti obesi. Stati Uniti (80 milioni) e Cina (57 milioni) si aggiudicano il record per il numero assoluto di adulti obesi. La fotografia scattata dai ricercatori è inclemente. Dato il ritmo dell’aumento dell’obesità e le difficoltà che le politiche pubbliche sul controllo del peso corporeo stanno incontrando, appare improbabile il raggiungimento dell’obiettivo “crescita zero” che l’OMS si era posto forse con eccessiva leggerezza e che resterà probabilmente lontano anche nei prossimi anni. Perdere peso è di solito uno dei buoni propositi che i soggetti sovrappeso fanno con l’anno nuovo o con l’approssimarsi delle vacanze estive. Dovrebbe invece diventare un impegno per sempre.

New Engl J Med (IF=72.406) June 12, 2017. DOI: 10.1056/NEJMoa1614362

DOI: 10.1056/NEJMoa1614362

PERCHÉ IL COLESTEROLO HDL È “BUONO”? LE HDL RIMUOVONO IL COLESTEROLO DALLE PLACCHE ATEROSCLEROTICHE

Numerosi studi epidemiologici (i primi risalgono agli anni ’60), che hanno coinvolto decine di migliaia di soggetti, hanno evidenziato, senza eccezioni, l’esistenza di una forte correlazione inversa tra livelli plasmatici di colesterolo HDL (HDL-C) e incidenza di malattie cardio- e cerebro-vascolari. Più è alto l’HDL-C, minore è il rischio di andare incontro a un evento cardio/cerebro vascolare, e viceversa. Questa relazione è indipendente da altri fattori di rischio cardiovascolare e in particolare dal livello di colesterolo LDL, e persiste in pazienti ipercolesterolemici che raggiungono valori anche molto bassi di colesterolo LDL in seguito a trattamento, p.es. con statine.

Il ruolo delle HDL nella protezione cardiovascolare è stato però recentemente messo in discussione dal fatto che soggetti con alterazioni genetiche che modificano anche marcatamente i livelli di HDL-C non sempre rispondono a questa regola, e che trial clinici con farmaci in grado di aumentare i livelli plasmatici di HDL-C non sempre hanno prodotto un beneficio sugli eventi cardiovascolari. Le ragioni di questa discrepanza non sono chiare. La concentrazione plasmatica di HDL-C potrebbe non descrivere la reale efficienza del sistema HDL, che è certamente complesso e coinvolge, come abbiamo visto nei giorni scorsi, particelle diverse con funzionalità variabile. Alterazioni genetiche o farmacologiche della concentrazione di HDL-C potrebbero produrre effetti diversi sulla distribuzione e funzione delle varie particelle HDL, influenzandone così le proprietà cardioprotettive (di questo parleremo in altra occasione). Ma quali sono queste funzioni? Oggi vi parlo della funzione antiaterogena più rilevante e nota delle HDL, ovvero la capacità di queste lipoproteine di rimuovere il colesterolo dai macrofagi della parete arteriosa e di trasportarlo al fegato per l’escrezione, in un processo chiamato trasporto inverso del colesterolo (RCT).

La rimozione del colesterolo non esterificato dal macrofago, tappa iniziale del RCT, costituisce il passaggio fondamentale nel determinare la velocità dell’intero processo e avviene tramite molteplici meccanismi, che coinvolgono sia processi di diffusione passiva che sistemi di trasporto attivi (Figura). Il rilascio di colesterolo per diffusione passiva avviene in tutti i tipi di cellule e risulta facilitato quando sulla membrana cellulare viene espresso il recettore scavenger BI (SR-BI). Sia la diffusione passiva che l’efflusso SR-BI-facilitato sono movimenti bidirezionali e vengono promossi da HDL mature e di grandi dimensioni. Il trasporto attivo è mediato dal trasportatore ATP-Binding Cassette A1 (ABCA1), espresso sulla membrana dei macrofagi, che promuove l’efflusso unidirezionale di fosfolipidi e colesterolo verso apolipoproteine povere in lipidi e HDL immature a forma discoidale (prebeta-HDL). I macrofagi possono inoltre rilasciare colesterolo attraverso il trasportatore ABCG1, che media l’efflusso di colesterolo a HDL mature, ma non permette il rilascio di colesterolo ad apolipoproteine scarsamente lipidate. Sebbene tutte le particelle HDL abbiano la capacità di promuovere l’efflusso di colesterolo cellulare interagendo con specifiche proteine di membrana, il contenuto plasmatico di prebeta-HDL, che promuovono principalmente l’efflusso di colesterolo attraverso il trasportatore ABCA1, sembra essere di primaria importanza nel determinare la capacità individuale nel rimuovere il colesterolo dal macrofago.

La capacità delle HDL (tutte le HDL nel loro insieme) di un individuo di rimuovere il colesterolo dai macrofagi viene oggi stimata valutando la “Capacità di promuovere Efflusso di Colesterolo” (CEC) del siero: i macrofagi vengono incubati con il siero dell’individuo e si misura la percentuale di colesterolo cellulare che viene rimossa in un certo tempo. È una misurazione complessa che può essere effettuata solo in pochi Centri specializzati. Il ruolo della CEC come indice di protezione cardiovascolare è stato inizialmente suggerito dalla dimostrazione di una relazione inversa tra questa variabile e l’ispessimento medio-intimale carotideo (un indice di aterosclerosi preclinica, ne parleremo presto), indipendente dai livelli plasmatici di HDL-C. Il valore predittivo della CEC è stato poi dimostrato da uno studio prospettico condotto su circa 3000 soggetti in prevenzione primaria, in cui la CEC è risultata inversamente correlata all’incidenza degli eventi, ancora in modo indipendente dai livelli plasmatici di HDL-C. Queste evidenze suggeriscono che la funzionalità delle HDL, misurata tramite la CEC, sia più rilevante del valore di HDL-C nel definire il rischio cardiovascolare di ogni individuo.

Una volta accumulatosi nelle HDL, il colesterolo di origine macrofagica viene esterificato nel plasma dall’enzima lecitina:colesterolo aciltransferasi (LCAT), con formazione di esteri del colesterolo. Come abbiamo già visto, la maggior parte degli esteri del colesterolo viene poi trasferita, in cambio di trigliceridi, dalla Cholesteryl Ester Transfer Protein (CETP) alle VLDL e LDL, che vengono poi captate dal fegato. Una frazione minore di esteri del colesterolo (e di colesterolo non esterificato) viene invece trasportata direttamente al fegato dalle HDL e rilasciata in seguito a interazione col recettore SR-BI espresso sulla membrana degli epatociti. L’intero processo produce un trasporto netto di colesterolo dai macrofagi (inclusi quelli presenti nelle placche ateromasiche) al fegato, che lo eliminerà poi con la bile.

GLI INIBITORI DELL’ANGIOPOIETIN-LIKE 3 (ANGPTL3)

Da Chiara Pavanello

Studi epidemiologici e di associazione genome-wide hanno individuato correlazioni tra la presenza di varianti loss-of-function dell’angiopoietin-like 3 (ANGPTL3) e ridotte concentrazioni plasmatiche di tutte le lipoproteine [eccetto la lipoproteina(a)]. In questo contesto l’inibizione di ANGPTL3, mimando la condizione determinata geneticamente, rappresenta un affascinante approccio farmacologico dall’elevato potenziale terapeutico. I ricercatori (e le aziende farmaceutiche!) non si sono attardati, testando l’efficacia di anticorpi monoclonali diretti contro ANGPTL3 nei topi. Evinacumab, questo è il nome che è stato dato al prodotto, ha ridotto mediamente del 52% i livelli di colesterolo totale rispetto a placebo così come i trigliceridi dell’84%. L’effetto positivo si è tradotto anche in una riduzione del 39% della dimensione della lesione aterosclerotica senza modificare però il contenuto di macrofagi, collagene e di cellule muscolari lisce della placca. Lo studio clinico di fase I, condotto su 83 volontari moderatamente ipertrigliceridemici ha essenzialmente confermato quanto dimostrato nell’animale: dopo soli 4 giorni dalla prima iniezione evinacumab ha portato a riduzioni significative dei trigliceridi (-76%) e del colesterolo-LDL (-23.2%) e del coleterolo-HDL (-18.4%) dopo 15 giorni [Dewey et al, 2017]. Risultati essenzialmente paragonabili sono stati ottenuti bloccando la sintesi di ANGPTL3 mediante un oligonucleotide antisenso (ANGPTL3-LRX), sia nell’animale sia nei 44 soggetti reclutati per la fase clinica [Graham et al, 2017]. Nello studio, pubblicato contemporaneamente a quello con evinacumab, è stato riportato inoltre un miglioramento della sensibilità all’insulina in topi trattati con l’antisenso, rispetto a placebo.

Dewey FE et al. Genetic and pharmacologic inactivation of ANGPTL3 and cardiovascular disease. N Engl J Med 2017 May 24. doi: 10.1056/NEJMoa1612790.
Graham MJ et al. Cardiovascular and metabolic effects of ANGPTL3 antisense oligonucleotides. N Engl J Med 2017 May 24. doi: 10.1056/NEJMoa1701329.