IL GRASSO ADDOMINALE FA MALE ALLE DONNE IN MENOPAUSA. ANCHE QUANDO SONO MAGRE

Essere in sovrappeso, lo sapete, può aumentare significativamente la mortalità per tutte le cause, tra cui malattie cardiovascolari e alcuni tipi di cancro. La novità è che il grasso addominale (o viscerale) è pericoloso anche quando si è normopeso. Le donne in menopausa, il cui indice di massa corporea (BMI) è nel range normale, ma che hanno un eccesso di grasso addominale, hanno mostrato avere gli stessi rischi per la salute delle donne obese.
Questo ampio studio prospettico di coorte ha utilizzato i dati di 156.624 donne (età media 63.2 anni) iscritte alla Women’s Health Initiative in 40 centri clinici tra il 1993 e il 1998 per esaminare l’associazione tra peso normale con eccesso di grasso addominale e le principali cause di morte. Le donne sono state seguite fino al febbraio 2017, il che significa per 20 anni o più. Le donne sono state categorizzate in funzione del BMI (normale 18.5-24.9; sovrappeso 25.0-29.9; obesa ≥30) e della circonferenza della vita (WC: normale ≤88 cm; elevata >88 cm). 43.838 donne sono decedute durante il follow-up: 12.965 (29.6%) per cause cardiovascolari, 11.828 (27%) per cancro. Dopo aver controllato per fattori come stile di vita, istruzione, reddito, fumo e uso di ormoni, la mortalità per tutte le cause nelle donne con BMI normale e grasso addominale in eccesso (WC elevata) era maggiore del 31% rispetto alle donne con BMI e WC normali, ed era quasi uguale a quella delle donne obese, che mostravano una mortalità maggiore del 30% rispetto alle donne “normali”. Questi risultati sono in linea con ciò che già sappiamo: una circonferenza della vita elevata aumenta il rischio di sviluppare malattie metaboliche, cardiovascolari e cancro. Ciò è già stato dimostrato non solo nelle persone in sovrappeso, ma anche in uomini e donne di peso normale. Questo studio è unico in quanto è molto ampio, ha seguito le persone per molto tempo e ha osservato una popolazione specifica, le donne in post-menopausa.
Il grasso addominale più profondo, che è il grasso viscerale che si accumula attorno agli organi addominali come pancreas, fegato e intestino tenue e crasso, è un tessuto metabolico attivo e rilascia ormoni e acidi grassi liberi, che sono stati collegati a malattie cardiovascolari, diabete e ipertensione. Le persone con più grasso addominale tendono ad avere un profilo metabolico peggiore rispetto a chi ingrassa su cosce o glutei, dove il grasso è più inerte, non metabolicamente attivo.

JAMA Netw Open 2:e197337,2019

I DOLCIFICANTI

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Largamente diffusi, i dolcificanti vengono comunemente classificati come naturali o di sintesi. Aggiunti agli alimenti, grazie alla loro capacità di conferire un sapore dolce, sono impiegati non solo nel settore alimentare, ma anche nelle preparazioni medicinali e dietetiche. Il potere dolcificante può definirsi come la capacità di una sostanza d’eguagliare la stessa intensità di sapore del saccarosio. Quindi una soluzione acquosa di 0.25 grammi, ad esempio, di acesulfame, produce una sapore analogo a quello di una soluzione contenente 50 grammi di saccarosio definendo cosi il potere dolcificante dell’acesulfame pari a 200. Tra i dolcificanti di sintesi, la saccarina è stato il primo scoperto casualmente da un ricercatore della Johns Hopkins University. Divenuta popolare dopo la prima guerra mondiale a causa della scarsità di zucchero, ha un potere dolcificante 300 volte superiore a quello del saccarosio. Usato meno frequentemente, il ciclammato ha un potere dolcificante di 30. Tra i dolcificanti naturali e i derivati dei polialcoli, xilitolo, sorbitolo e mannitolo sono preferiti per la loro proprietà acariogena. Lo stevioside, estratto dalla stevia rebuidiana, è un terpene. Fin dall’antichità tale pianta veniva utilizzata dalle popolazioni dell’America latina come dolcificante, oggi rimane una delle più usate.

NEI PAESI RICCHI IL CANCRO UCCIDE PIÙ DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI

Le malattie cardiovascolari restano la prima causa di morte nel mondo, ma è in corso una transizione epidemiologica. Lo dimostra uno studio internazionale coordinato dal Population Health Research Institute della McMaster University in Canada, che ha coinvolto 162.534 adulti di 35-70 anni, provenienti da 21 Paesi a basso, medio e alto reddito, seguiti per un periodo medio di 9.5 anni.

È emerso che complessivamente le malattie cardiovascolari rappresentano la causa più comune di morte (40%), ma si va da un minimo del 23% nei Paesi ricchi al 41% nei Paesi a medio reddito, fino al 43% nei Paesi poveri, sebbene i fattori di rischio cardiovascolare (obesità, fumo, sedentarietà) siano più frequenti nei Paesi ricchi. I tumori rappresentano la seconda causa più frequente di morte (il 26% dei decessi), andando però da un massimo del 55% nei Paesi ricchi al 30% nei Paesi a medio reddito e al 15% in quelli poveri.
Il fatto che nei Paesi ricchi i decessi per tumore siano divenuti il doppio rispetto a quelli per malattie cardiovascolari indica una transizione nelle cause predominanti di morte. Siccome le malattie cardiovascolari si riducono in molti Paesi grazie a un’alimentazione più corretta, a una più incisiva prevenzione e alla disponibilità di terapie e interventi più efficaci, è necessario trasferire i traguardi raggiunti anche ai Paesi a medio e basso reddito.

Lancet (IF=59.102) Sep 3 2019. doi: 10.1016/S0140-6736(19)32007-0

ATTIVITÀ FISICA. PER I CARDIOPATICI PIÙ BENEFICI

L’attività fisica riduce la mortalità; ma il benefico è più evidente nelle persone con problemi cardiovascolari. Un gruppo di ricercatori coreani ha seguito per 5.9 anni 131.558 pazienti con malattie cardiovascolari e 310.240 persone sane, da quando avevano circa 60 anni. I livelli e l’intensità dell’attività fisica svolta dai partecipanti sono stati valutati in termini di equivalenti metabolici (MET-minuti a settimana) (vedi www.centrogrossipaoletti.org). È stata osservata una correlazione inversa tra attività fisica e mortalità in entrambi i gruppi. Ma la riduzione della mortalità indotta dall’esercizio è superiore in prevenzione secondaria. Infatti, nei pazienti con malattie cardiovascolari, ogni 500 MET-minuti/settimana in più comportano una riduzione del 14% della mortalità; negli individui sani la riduzione è del 7%.

Ricordiamo che le linee guida raccomandano di eseguire un’attività fisica corrispondente a 500-1000 MET-minuti a settimana.

Eur Heart J (IF=24.889) Sep 1 2019. doi: 10.1093/eurheartj/ehz564.

DONNE IN MENOPAUSA: SE IL PUNTO VITA SI ‘ALLARGA’, AUMENTA IL RISCHIO DI INFARTO

È ben noto che il peso eccessivo aumenta il rischio di patologie cardiache. L’obesità provoca disfunzione endoteliale e insulino-resistenza, facilita l’aterosclerosi coronarica e si accompagna spesso a ipertensione e diabete, altri due fattori di rischio cardiovascolari potentissimi. Recentemente è stato dimostrato che non sono solo o non tanto i chili in eccesso a rappresentare un pericolo, quanto la loro distribuzione. E il grasso viscerale, quello che contribuisce all’allargamento del punto vita, è il più pericoloso ai fini del rischio di infarto.
Tra le tante alterazioni che accompagnano la menopausa c’è purtroppo anche l’allargamento della circonferenza vita, che si va a sommare alla perdita dell’ombrello protettivo degli estrogeni contro le malattie cardiovascolari. Fino alla menopausa l’incidenza di patologie cardiovascolari nelle donne è inferiore a quella degli uomini; in età post-menopausale le donne pareggiano i conti con gli uomini e addirittura superano le controparti maschili.
Lo studio KoROSE (KoRean wOmen’S chest pain rEgistry) è stato condotto su 659 donne coreane di età superiore ai 55 anni e sottoposte ad angiografia coronarica per sospetta coronaropatia. 311 di esse aveva in effetti una coronaropatia ostruttiva (CO, stenosi coronarica ≥50%). La presenza di CO è risultata significativamente maggiore tra le donne con una obesità di tipo centrale, definita da una circonferenza vita ≥85 cm, rispetto alle donne con circonferenza vita normale (55% vs 41%). Al contrario, non è stata riscontrata alcuna differenza nell’indice di massa corporea (BMI) tra donne con o senza CO.
I risultati di questo studio sono consistenti con quanto già sappiamo degli effetti deleteri dell’obesità centrale. Non tutto il grasso è uguale e l’obesità centrale è particolarmente pericolosa perché si associa a un aumentato rischio di patologie cardiache. Individuare le donne con un eccesso di grasso addominale, anche in presenza di un BMI normale, è molto importante per invitarle a implementare gli interventi su uno stile di vita salutare.

Menopause (IF=2.942) 2019 Aug 26. doi: 10.1097/GME.0000000000001392.

IL SORBETTO

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Dolce fresco da consumare al cucchiaio, il sorbetto è un composto di acqua, zucchero e frutta. Di consistenza semidensa e cremosa si ottiene mediante congelamento parziale di succo e polpa di frutta. La sua nascita è antichissima: i primi sorbetti vennero confezionati dalle popolazioni dell’Asia Minore, raffreddando la frutta con la neve dei monti. In epoca moderna Buontalenti e Ruggieri, due pasticceri fiorentini, per lungo tempo si disputarono la paternità del sorbetto. Ma fu, sempre grazie ad un altro Italiano, Procopio, gestore dell’omonimo caffè parigino, che il sorbetto raggiunse grande fama in tutta Europa. Attualmente la normativa dell’Unione Europea stabilisce che il sorbetto di frutta, per poter essere denominato tale, debba contenere almeno il 25% di frutta, ad eccezione di quelli prodotti con i frutti acidi (limone e ribes nero), che possono raggiungere il 15%. In Italia esistono sorbetti molto caratteristici: in Veneto si usa a fine pasto lo sgroppino, un sorbetto di limone con l’aggiunta di prosecco, nel Lazio la cremolada, un incrocio tra granita e sorbetto che viene servita con ciuffi di panna.

ALIMENTAZIONE POVERA E FRAGILITÀ NEGLI ANZIANI

Sul rapporto tra alimentazione e fragilità nella popolazione anziana ha indagato uno studio prospettico olandese. I ricercatori della Vrije Universiteit di Amsterdam hanno seguito 2.154 anziani statunitensi per quattro anni. Al reclutamento, i partecipanti avevano un’età compresa tra i 70 e gli 81 anni. La qualità dell’alimentazione seguita nell’anno precedente il reclutamento è stata analizzata mediante questionari e valutata utilizzando tre indicatori: qualità generale, utilizzando lo score “Healthy Eating Index” (HEI), che misura l’adeguatezza alle linee guida americane per una sana alimentazione, apporto calorico totale giornaliero e consumo giornaliero di proteine. Per quanto riguarda la fragilità, i partecipanti sono stati classificati sani se non avevano problemi cognitivi o di fragilità fisica, “pre-fragili” se avevano uno o due sintomi di fragilità; la condizione di “fragilità” era definita dalla presenza di 3-5 sintomi di fragilità (secondo il Fried’s test, che include: perdita di peso involontaria di oltre il 5% negli ultimi 12 mesi; debolezza della presa della mano o troppo dolore alle articolazioni per completare questa valutazione; fatica quotidiana; bassa velocità di camminata e inattività fisica).
Durante i 4 anni di follow-up 277 dei 2154 partecipanti (sani o pre-fragili al reclutamento) sono diventati fragili; dei 1.020 individui che erano sani al reclutamento, 629 sono diventati fragili o pre-fragili.

Gli anziani che seguivano un’alimentazione di scarsa qualità (secondo l’HEI) hanno fatto registrare quasi il doppio (+92%) della probabilità di diventare fragili rispetto a quelli con alimentazione di alta qualità; un’alimentazione di media qualità è stata associata a un rischio di fragilità del 40% più elevato (Figura). Non è stata osservata alcuna differenza significativa nel rischio di fragilità in funzione all’assunzione di proteine o all’apporto calorico totale.
Lo studio non ha indagato i potenziali meccanismi dell’associazione tra alimentazione e fragilità nell’anziano, ma si può ipotizzare che un’alimentazione equilibrata, specie se associata a un’adeguata attività fisica, sia in grado di rallentare la perdita di massa muscolare e di forza che si verifica con l’invecchiamento.

J Am Geriatr Soc (IF=4.113) 67:1835,2019

L’ESERCIZIO FISICO ALLUNGA LA VITA. A QUALUNQUE ETÀ

Un gruppo di ricercatori del Regno Unito ha condotto uno studio incentrato sul rapporto tra attività fisica e longevità in uomini e donne di mezza età e anziani. Hanno valutato per otto anni l’attività fisica complessiva svolta durante il lavoro e il tempo libero di 14.599 uomini e donne, che al reclutamento avevano tra i 40 e gli 80 anni. Hanno poi iniziato a monitorare la mortalità, e hanno continuato in media per 12.5 anni.
Durante questo periodo sono deceduti 3.148 partecipanti, di cui 950 per malattie cardiovascolari e 1.091 per cancro. Hanno osservato che il passaggio da una vita sedentaria a un’attività fisica moderata (almeno 150 minuti a settimana, come raccomandato dall’OMS) era associato a una riduzione del rischio di morte per qualunque causa del 24%, di morte per malattie cardiovascolare del 29%, di morte per cancro dell’11%. Tutti i partecipanti hanno beneficiato dell’esercizio fisico, anche coloro che soffrivano di una condizione cronica grave come malattie cardiache o cancro prima dello studio. La riduzione della mortalità era associata all’aumento dell’attività fisica indipendentemente dai livelli di attività pregressi e persino dal peggioramento di altri fattori di rischio come dieta, peso corporeo, pressione arteriosa e livelli di colesterolo nel corso degli anni. A livello di popolazione, i ricercatori hanno stimato che almeno 150 minuti a settimana di attività fisica a intensità moderata potrebbero prevenire il 46% dei decessi associati all’inattività fisica.

BMJ (IF=27.604) 365:l2323,2019

ACCURATEZZA DELLA PRESSIONE ARTERIOSA DOMICILIARE NEI PAZIENTI CON DECADIMENTO COGNITIVO

Ipertensione e declino cognitivo coesistono spesso negli anziani. In questo studio olandese è stato valutata l’incidenza di una diagnosi errata di ipertensione in pazienti con declino cognitivo e demenza, confrontando la misurazione della pressione arteriosa (PA) domiciliare e clinica, e utilizzando per la diagnosi i rispettivi valori di normalità suggeriti dalle linee guida europee. Sono stati valutati 213 pazienti (età media di circa 73 anni, 40% donne) dei quali 82 con diagnosi di demenza, 65 con decadimento cognitivo lieve e 66 senza decadimento cognitivo. I valori medi di PA clinica erano di 156/84 mmHg e quelli di PA domiciliare di 139/79. È stata osservata una discordanza nella diagnosi di ipertensione nel 31% dei pazienti, con una maggiore discordanza nei pazienti con decadimento cognitivo (38.5%) e demenza (35.4%) rispetto a quelli senza decadimento cognitivo (18.2%). L’accuratezza diagnostica della PA domiciliare è risultata maggiore rispetto alla PA clinica nei pazienti con decadimento cognitivo e demenza. Questo studio conferma la validità della misurazione domiciliare della PA domiciliare nella diagnosi di ipertensione, dimostrandone l’efficacia anche in pazienti vulnerabili, nei quali si rischierebbe l’instaurazione di un trattamento improprio.

Eur J Cardiovasc Nurs (IF=2.497) 18:637,2019

INFARTO MIOCARDICO SILENTE E RISCHIO DI MORTE CARDIACA IMPROVVISA

Un infarto miocardico che non viene diagnosticato perché non accompagnato dai sintomi tipici (o i sintomi non vengono riconosciuti dal paziente) viene definito infarto silente.
Uno studio condotto in Finlandia e Stati Uniti, analizzando le autopsie e gli ECG disponibili di oltre 5 mila persone decedute, ha rilevato un legame tra pregressi infarti miocardici silenti e morte cardiaca improvvisa.
I ricercatori hanno esaminato i dati di 5869 individui (età media 64.9 anni, 78.8% uomini) deceduti per morte cardiaca improvvisa. In 4392 casi (74.8%) la causa della morte è stata una cardiopatia coronarica (CAD). Tra questi, 3122 soggetti (il 71.1%) non avevano precedenti della patologia; ma in 1322 (42.4%) di essi sono state osservate, durante l’autopsia, vecchie cicatrici miocardiche, segno di un pregresso infarto silente. Costoro erano più anziani, più spesso maschi, e avevano un cuore di maggiori dimensioni rispetto agli individui senza pregresso infarto silente; la morte cardiaca improvvisa spesso era avvenuta durante l’attività fisica.
Un pregresso infarto silente si associa quindi a ipertrofia cardiaca e aumentato rischio di morte improvvisa. Di qui la necessità di una più accurata diagnosi, al fine di implementare misure terapeutiche in grado di ridurre le morti improvvise.

JAMA Cardiol (IF=11.866) 2019 Jul 10, doi: 10.1001/jamacardio.2019.2210