IL BORSCH

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Simbolo famossissimo della cucina russa, questa particolare zuppa nasce in Ucraina risentendo di numerose influenze, turche, ceke, greche e polacche. Forse per queste ragioni ne esistono mille varietà, a seconda della zona dove viene cucinata. Il denominatore comune rimangono le barbabietole, che sono protagoniste sia nella classica zuppa calda che nella versione ghiacciata consumata in estate. La ricetta prevede la preparazione di un brodo di carne, che può essere di manzo, pollo o montone. Lessare in una pentola quattro grosse barbabietole e conservare il liquido di cottura. In una casseruola far soffriggere con un pezzetto di burro la cipolla e l’aglio, e agggiungere la carne del brodo precedentemente preparato, tagliata a dadini. Irrorare con l’acqua di cottura delle barbabietole, aggiungendo un cavolo, carote e qualche pomodoro. Cuocere a fuoco lento, aggingendo il brodo di carne fino a quando le verdure non sono morbide. A fine cottura si aggiunge un trito di aneto, prezzemolo ed erba cipollina e si condisce con un cucchiaio di panna acida. Questa zuppa, con un gusto agrodolce particolare, si può conservare per alcuni giorni ed è un ottimo piatto unico, molto energetico.

PRESSIONE ARTERIOSA MATTUTINA DOMICILIARE: RIPRODUCIBILITÀ E ASSOCIAZIONE CON IL DANNO VASCOLARE

La riproducibilità della misurazione domiciliare della pressione arteriosa (PA) mattutina e la sua relazione con il danno vascolare sono state valutate in 1049 individui (età media 51 anni, 51.9% donne) non trattati, che avevano eseguito un monitoraggio 24h della PA, la misurazione della PA domiciliare nell’arco di 7 giorni e una valutazione della rigidità arteriosa (pulse wave velocity carotido-femorale, vedi www.centrogrossipaoletti.org). I valori della PA mattutina domiciliare sono maggiormente correlati con la rigidità arteriosa rispetto a quelli registrati nelle prime 2 ore dal risveglio con il monitoraggio 24h. Nei 135 soggetti in cui le misurazioni della PA sono state ripetute entro 1 mese, il coefficiente di variazione tra le 2 rilevazioni è risultato del 11% per la PA mattutina dal monitoraggio 24h e del 5% per la PA mattutina domiciliare. I risultati di questo studio indicano nella misurazione domiciliare il metodo migliore per la valutazione della PA mattutina, perché fornisce misure più riproducibili e maggiormente associate al danno vascolare rispetto ai valori derivati dal monitoraggio pressorio delle 24 ore.

Hypertension (IF=7.017) 74:137,2019

DEMENZA. UNO STILE DI VITA SANO PROTEGGE ANCHE I SOGGETTI A ELEVATO RISCHIO GENETICO

La questione se sia più importante l’impronta genetica o lo stile di vita nel determinismo delle malattie è un dei temi più dibattuti nella comunità scientifica. Per la maggior parte delle patologie non monogeniche la genetica conferisce al più un rischio aumentato di malattia, non un determinismo assoluto. Per questo è così importante adottare un sano stile di vita, tanto più se in famiglia ricorrono alcune patologie.
Un nuovo studio appena pubblicato su JAMA e presentato in contemporanea all’Alzheimer’s Association International Conference 2019 indica che uno stile di vita sano può contrastare anche il rischio genetico di demenza. Lo studio retrospettivo ha analizzato i dati relativi a oltre 196 mila caucasici (47.3% maschi, 52.7% femmine), ultra-60enni, registrati nella UK Biobank. Per ciascun individuo è stato calcolato un indice di rischio genetico, analizzando la presenza di tutte le varianti genetiche associate alla demenza; gli individui sono stati poi categorizzati a rischio genetico basso (1° quintile, 20%), intermedio (2°-4° quintili, 60%) o elevato (5° quintile, 20%). Per quanto riguarda lo stile di vita, i soggetti sono stati suddivisi in tre categorie (sano, intermedio, malsano) definite sulla base dei dati auto-riferiti su abitudini alimentari, attività fisica, fumo e consumo di alcol; il 68% ha adottato uno stile di vita sano, il 24% uno stile intermedio e l’8% uno stile di vita malsano.
1.769 individui hanno sviluppato una demenza durante il follow-up di 8 anni; il 1.23% di quelli con score genetico elevato, e lo 0.63% di quelli con basso score genetico. Tra gli individui con score genetico elevato, l’incidenza di demenza è del 1.13% in coloro che hanno adottato un sano stile di vita e del 1.78% in chi invece segue uno stile di vita malsano.
È il primo studio ad analizzare se lo stile di vita può influenzare il rischio genetico di demenza. I risultati smantellano l’atteggiamento fatalistico nei confronti della demenza, dimostrando che esiste una sorta ‘libero arbitrio’ nel determinare il rischio individuale di demenza, che non tutto è scritto nei cromosomi, e che ciascuno di noi ha un ruolo e una responsabilità nello sviluppo della malattia.

JAMA (IF=51.273) 322:430,2019

IL GELATO

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Alimento amato da tutti, il gelato viene consumato in ogni stagione. In commercio si trovano gelati sia artigianali che industriali. Esistono differenze tra i due prodotti con vantaggi e svantaggi per entrambi. Il gelato industriale è sicuramente più sicuro da un punto di vista igenico, essendo prodotto con sistemi standarizzati e controllati. Può avere un’incorporazione di aria dal 100 al 130%, essere prodotto con basi liofilizzate e avere l’aggiunta di emulsionanti e conservanti. Il gelato artigianale, invece, incorpora un minor quantitativo di aria (30- 50%), di solito gli emulsionanti sono più naturali (farina di carrube) e le basi vengono prodotte da un buon gelataio artigiano, con ingredienti freschi. Soprattutto nei mesi estivi, per molti è ormai consuetudine sostituire il veloce pranzo di mezzogiorno con una coppa di gelato. Dal punto di vista nutrizionale, pure se le calorie sono pressappoco equivalenti, non si può affermare che i nutrienti apportati dal gelato siano ben bilanciati. Ovviamente dipende dai gusti scelti, ma, ad esempio, le creme sono ricche di grassi e zuccheri. Anche il senso di sazietà che apporta è minore rispetto a quello di un normale pasto dove la presenza di carboidrati complessi e di fibre nelle verdure contribuisce a farci sentire meno affamati durante la giornata. Tuttavia concederci un peccato di gola una volta a settimana può essere una scelta accettabilissima.

BEVANDE ZUCCHERATE E CANCRO

Il consumo di bevande zuccherate è cresciuto in tutto il mondo negli ultimi decenni ed è legato all’obesità, che di per sé aumenta il rischio di cancro. L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda di limitare il consumo quotidiano di zucchero a meno del 10% dell’apporto energetico totale, ma, allo stesso tempo, afferma anche che un’ulteriore riduzione a meno del 5%, circa 25 grammi al giorno, sarebbe più salutare. Lo studio francese che vi proponiamo oggi accende i riflettori su consumo di bevande zuccherate e sviluppo di neoplasie. I ricercatori hanno analizzato i dati relativi a 101.257 adulti francesi, 21% uomini e 79% donne, valutandone il consumo di bevande zuccherate. I partecipanti sono stati seguiti per un massimo di 9 anni, tra il 2009 e il 2018, per stimare rischio di sviluppare tutti i tipi di tumore e di alcuni forme specifiche come il tumore della mammella, del colon e della prostata. I ricercatori hanno anche considerato i fattori di rischio confondenti per neoplasia, tra cui età, sesso, livello di istruzione, anamnesi familiare, fumo e livelli di attività fisica.
I risultati hanno mostrato che un aumento di 100 ml al giorno nel consumo di bevande zuccherate è associato a un rischio aumentato del 18% di cancro in generale e del 22% di tumore della mammella. Quando i soggetti sono stati divisi tra consumatori di succhi di frutta e consumatori di altre bevande dolci, entrambi i gruppi hanno presentato un rischio superiore di cancro. Per il tumore della prostata e per quello al colon-retto non è stato riscontrato alcun legame, ma i ricercatori hanno affermato che ciò potrebbe essere avvenuto perché il numero di casi di questi tumori tra i partecipanti allo studio era limitato.

Brit Med Joiurnal (BMJ) (IF=27.604) 2019;366:l2408

INFEZIONI. UN FATTORE DI RISCHIO DI ICTUS ISCHEMICO

I ricercatori dell’Icahn School of Medicine del Mount Sinai, New York City, hanno analizzato i dati provenienti dall’Emergency Department Database e dallo State Inpatient Database dello Stato di New York dal 2006 al 2013 per valutare eventuali correlazioni tra infezioni e rischio di ictus ischemico, emorragia subaracnoidea (SAH) ed emorragia intracerebrale (ICH). I risultati rivelano che tutti i tipi d’infezione – della pelle, del tratto urinario, addominale, del sistema respiratorio e la setticemia – si associano a una probabilità significativamente più elevata di ictus ischemico acuto. In particolare un’infezione del tratto urinario aumenta di 5 volte la probabilità di sviluppare un ictus entro 7 giorni dall’infezione. Gli scienziati hanno anche osservato associazioni significative tra infezioni della cute, del tratto urinario, respiratorie, setticemia e ICH, anche se con una probabilità inferiore rispetto a quella di subire un ictus. In seguito alle infezioni si sono verificati invece pochi casi di SAH: la probabilità di emorragia subaracnoidea aumenta solo con le infezioni respiratorie.
Va precisato che lo studio si basa su dati provenienti da grandi database amministrativi, che raccolgono i dati dei dipartimenti di emergenza e dei ricoveri ospedalieri, il che potrebbe indicare che solo le infezioni così gravi da richiedere le cure del dipartimento di emergenza o quelle che si sviluppano durante un precedente ricovero in ospedale, sono associate ad un aumentato rischio di ictus. Esistono prove significative del fatto che più grave è l’infezione, maggiore è il rischio di ictus. Bisognerà valutare se le associazioni evidenziate in questo studio persistono anche in popolazioni con infezioni che non nascono a seguito di un ricovero ospedaliero e che non richiedono una visita d’urgenza.

Stroke (IF=6.046) 50:2216,2019

CORICARSI A ORARI DIVERSI FAVORISCE L’INSORGENZA DELLA SINDROME METABOLICA

Pretty young woman sleeps in her bed

La mancanza di sonno è correlata a un’ampia gamma di anomalie metaboliche, tra cui obesità, ipertensione, ipercolesterolemia e diabete. Tuttavia, la maggior parte delle ricerche si è concentrata sull’effetto del numero medio di ore di sonno e non sulla variabilità oraria della routine del sonno.
I ricercatori del Brigham and Women’s Hospital e della Harvard Medical School di Boston, hanno invitato 2.003 individui ad analizzare il proprio sonno durante un periodo di 7 notti, usando dispositivi noti come attigrafi, che valutano i movimenti durante la notte e i cicli sonno-veglia. In media, queste persone dormivano 7.15 ore a notte e si coricavano alle 23:40. Quasi i due terzi presentavano più di un’ora di variazione nella durata del sonno e il 45% più di un’ora di variazione nell’orario di coricamento.
707 partecipanti (35%) avevano una sindrome metabolica. Una variabilità nella durata del sonno di 60-90 minuti aumentava del 27% la probabilità di avere la sindrome metabolica; l’aumento del rischio saliva al 41% nelle persone con una variabilità di 90-120 minuti e raggiungeva il 57% nei soggetti con una variabilità nella durata del sonno superiore alle 2 ore. Il rischio di sindrome metabolica aumentava anche con l’aumento della variabilità nell’ora di coricamento; +14% quando la variabilità era di 60-90 minuti, e +58% quando superava i 90 minuti.
Il motivo per cui una maggiore variabilità nella routine del sonno ha un effetto negativo sulla salute metabolica potrebbe avere a che fare con i nostri orologi biologici. Abbiamo bioritmi che regolano molti processi metabolici, e per una funzionalità ottimale questi ritmi devono essere sincronizzati tra loro e con l’ambiente. Se dormiamo a orari differenti e non per lo stesso numero di ore, i nostri orologi biologici possono avere difficoltà a stare sincronizzati, il che potrebbe comprometterne la funzionalità.

Diabetes Care (IF=15.270) 42:1422,2019

CONTARE I PASSI MANTIENE IN SALUTE

Le persone che contano i passi quotidianamente sono più attive e hanno meno probabilità di sviluppare problemi di salute che conducono a eventi come attacchi cardiaci o fratture. I ricercatori della St George’s University di Londra hanno reclutato 1.297 individui (età 45-75 anni), la metà dei quali era stata assegnata a rilevare il numero di passi con un contapassi per un periodo di 12 settimane. Tre-quattro anni dopo, i partecipanti che avevano utilizzato i contapassi avevano meno di probabilità di riportare una frattura (-44%) e di avere un grave evento cardiovascolare come un attacco cardiaco o un ictus (-66%).
I contapassi possono essere utili per monitorare l’attività fisica perché forniscono dati oggettivi sull’attività svolta e possono essere usati per creare obiettivi realistici per aumentare gradualmente la camminata.

PLoS Med (IF=11.408) 16:e1002836,2019

PAPAYA: LA RICETTA

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Di consistenza delicata, il sapore della papaya si può definire una via di mezzo tra l’albicocca e il melone. Succoso e rinfrescante, se colto acerbo questo frutto raggiunge lentamente la maturazione favorendo una conservazione più lunga. Usata per marmellate e frullati la papaya in sud America è consumata anche in piatti salati. La zuppa di pollo e papaya prevede come ingredienti per quattro persone: 350 gr. di papaya matura, 250 gr. di carne di pollo, 1 cipolla, un pizzico di zenzero, qualche foglia di menta,30 g. di olio extravergine, sale e pepe q.b. In una padella cuocere il pollo tagliato a dadini, condito con sale e pepe. In un’altra casseruola far soffriggere la cipolla con l’olio ed aggiungere la papaya tagliata a cubetti, lo zenzero e la menta. Aggiustare di sale e coprire con l’acqua portando a cottura per circa 30 minuti a fuoco basso. Unire il pollo e servire la zuppa fredda in coppette.

Per porzione. Kcal. 164.75; Proteine 14.51 g; Lipidi 8.16 g (saturi 1.39 g, monoinsaturi 5.86 g, polinsaturi 0.79 g); Carboidrati 8.84 g; Fibra 2.23 g.

LE CORONAROPATIE POSSONO ACCELERARE IL DETERIORAMENTO COGNITIVO

Gli adulti con coronaropatie sono più inclini al deterioramento cognitivo rispetto ai loro coetanei che non soffrono di queste patologie. Per circa 12 anni, ricercatori cinesi e inglesi hanno seguito 7.888 adulti (58.7% donne) reclutati nell’ambito dell’English Longitudinal Study of Ageing. Al reclutamento avevano in media 62 anni e nessuno aveva avuto ictus, coronaropatie o demenza. Durante lo studio, 480 individui, il 5,6% dei partecipanti, hanno sviluppato una coronaropatia (254 infarto miocardico, 286 angina). Prima di questi eventi i pazienti con coronaropatia hanno mostrato un deterioramento cognitivo simile a quello dei soggetti che non hanno avuto una coronaropatia. Invece, i test effettuati negli anni successivi alla diagnosi di infarto miocardico o angina hanno evidenziato un deterioramento cognitivo più rapido rispetto alle loro controparti, con peggioramento di memoria, fluidità delle parole e orientamento temporale. Pertanto, i pazienti che hanno avuto un evento cardiovascolare dovrebbero essere monitorati nel tempo per le loro funzioni cognitive.

J Am Coll Cardiol (IF=18.639) 73:3041,2019