OBESITÀ. COLPA DELLA MICROGLIA?

La regolazione dell’omeostasi energetica e del peso corporeo dipendono dall’azione integrata di neuroni localizzati nell’ipotalamo, che rilevano variazioni nell’assunzione di cibo, tramite ormoni prodotti dal tessuto adiposo come la leptina, cui rispondono modulando appetito e dispendio energetico. In questo modo contribuiscono a mantenere il peso corporeo nella norma. Tuttavia, un eccesivo apporto calorico può alterare questo sistema di regolazione, causando così un aumento del peso. Uno studio, condotto da ricercatori dell’Università della California di San Francisco e dell’University of Washington Medical Center, dimostra che questa disfunzione del sistema di regolazione sarebbe innescata dalla neuroglia, costituita da cellule del sistema immunitario, che rappresentano il 10-15% delle cellule del cervello.

I ricercatori americani hanno somministrato a due gruppi di topi una dieta ricca (HDF) o povera in grassi per 4 settimane e hanno osservato che la dieta ricca in grassi determina un’espansione delle cellule della microglia, che innescano fenomeni infiammatori locali a livello della regione medio-basale dell’ipotalamo. Gli animali tendono a mangiare di più e a bruciare meno calorie, aumentando così di peso rispetto ai topi sottoposti alla dieta povera in grassi. Un’attenuazione dell’attivazione della microglia, ottenuta geneticamente o farmacologicamente, ha diminuito la risposta alla dieta ricca in grassi riducendo l’assunzione di cibo del 15% e l’aumento di peso del 20-40% rispetto ai topi non trattati.

Al contrario, un farmaco in grado di attivare la risposta infiammatoria della microglia, somministrato a topi mantenuti a dieta povera in grassi, ha aumentato l’assunzione di cibo del 33%, ridotto del 12% il dispendio energetico e aumentato il peso corporeo del 400%. Questi esperimenti dimostrano che la reazione infiammatoria della microglia è non solo necessaria per determinare l’aumento di peso osservato con le diete ricche in grassi, ma è anche sufficiente di per sé nel determinare l’alterata regolazione del bilancio energetico ipotalamico, responsabile dell’aumento di peso.  Studi di imaging cerebrale hanno evidenziato un’espansione delle cellule della microglia (gliosi) nei soggetti obesi. Trattamenti in grado di ridurre l’infiammazione e l’espansione della microglia, come quello utilizzato dai ricercatori americani nei topi, potrebbero rivelarsi utili nel controllo della pandemia obesità che colpisce milioni di individui. Ma per questo occorrerà aspettare.

Cell Metab (IF=18.164) 26:185, 2017.

OBESITÀ: SEMPRE PIÙ UN’EPIDEMIA MONDIALE

Come a voi noto, il parametro utilizzato per diagnosticare l’obesità (dal 2013 una malattia!) è l’indice di massa corporea o BMI, calcolato come peso (in kg) diviso per altezza (in mt) elevata la quadrato. Si definisce così “normale” un individuo con BMI compreso tra 18.5 e 24.9; l’individuo è in sovrappeso quando il BMI è tra 25.0 e 29.9, ed è obeso quando il BMI è superiore a 30.

Nel 2013 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si era proposta di arrestare l’epidemia di obesità nel mondo, ma l’obiettivo è clamorosamente fallito, come dimostra uno studio appena pubblicato sul New England Journal of Medicine. Nel 2015, dei sette miliardi e mezzo di abitanti del pianeta, due erano in sovrappeso; di essi, più di 100 milioni di bambini (5%) e 600 milioni di adulti (12%) erano obesi. Il numero di soggetti obesi è raddoppiato dal 1980 al 2015 in oltre 70 Paesi sui 195 esaminati, ed è costantemente aumentato nella maggioranza dei Paesi analizzati. L’obesità è sempre più prevalente nei bambini che negli adulti, e generalmente più frequente nelle femmine che nei maschi.

Sempre nel 2015, un elevato BMI ha causato 4 milioni di decessi nel mondo, 2.7 dei quali per problemi cardiovascolari. In termini percentuali, l’eccesso di peso rappresenta il 7.1% di tutti i motivi di decesso. In ITALIA l’eccesso di peso causa oltre il 6% dei casi di morte prematura e disabilità. Le malattie cardiovascolari, che dell’obesità sono una delle conseguenze principali, sono la principale causa di morte nel Paese, con un aumento del 7.9% tra 2005 e 2015. Ma il nostro non è sicuramente il Paese che sta peggio nel mondo. Cina e India, con 15.3 milioni e 14.4 milioni di bambini obesi, sono i Paesi con l’ipoteca più pesante per il futuro; in Brasile e Indonesia il tasso di obesità fra i bambini è triplicato dal 1980 al 2015. La maglia nera per quanto riguarda l’età adulta va all’Egitto con il 35% di soggetti obesi. Stati Uniti (80 milioni) e Cina (57 milioni) si aggiudicano il record per il numero assoluto di adulti obesi. La fotografia scattata dai ricercatori è inclemente. Dato il ritmo dell’aumento dell’obesità e le difficoltà che le politiche pubbliche sul controllo del peso corporeo stanno incontrando, appare improbabile il raggiungimento dell’obiettivo “crescita zero” che l’OMS si era posto forse con eccessiva leggerezza e che resterà probabilmente lontano anche nei prossimi anni. Perdere peso è di solito uno dei buoni propositi che i soggetti sovrappeso fanno con l’anno nuovo o con l’approssimarsi delle vacanze estive. Dovrebbe invece diventare un impegno per sempre.

New Engl J Med (IF=72.406) June 12, 2017. DOI: 10.1056/NEJMoa1614362

DOI: 10.1056/NEJMoa1614362

DIETA IPOCALORICA E Lp(a)

Abbiamo già visto come livelli elevati di lipoproteina(a) [Lp(a)] siano un fattore di rischio indipendente dai fattori più convenzionali (colesterolo, pressione…) per lo sviluppo di malattia cardiovascolare. Ciò sembra particolarmente rilevante nei pazienti con diabete di tipo 2. È poi noto che la perdita di peso nel paziente diabetico influenza positivamente molti fattori di rischio, ma non se ne conoscono gli effetti sui livelli di Lp(a). Per rispondere a questo quesito, ricercatori olandesi hanno misurato i livelli plasmatici di Lp(a) prima e dopo 3-4 mesi di dieta ipocalorica in tre coorti indipendenti. La coorte primaria era costituita da 131 pazienti prevalentemente obesi con diabete tipo 2 (coorte 1), partecipanti allo studio Prevention Of Weight Regain in diabetes type 2 (POWER). Le coorti secondarie consistevano di 30 pazienti obesi e diabetici (coorte 2) e di 37 individui obesi non diabetici (coorte 3). Una quarta coorte di controllo consisteva di 26 individui obesi non diabetici sottoposti a chirurgia bariatrica, ma non a dieta ipocalorica.

Nella coorte primaria, la dieta ipocalorica ha determinato una perdita di peso di 10.2 kg (9.9%) e un miglioramento nei fattori di rischio convenzionali, ma ha aumentato i livelli di Lp(a). Un analogo aumento dei livelli di Lp(a) è stato osservato nelle coorti 2 e 3, in concomitanza con una perdita di peso dell’8.5% e del 6.5%. Combinando i dati di queste tre coorti di pazienti, l’aumento di Lp(a) correlava con la perdita di peso; in altre parole più il soggetto perdeva peso con la dieta ipocalorica, più la sua concentrazione di Lp(a) nel sangue aumentava. Inoltre, l’aumento dell’Lp(a) correlava con la concentrazione basale: tanto maggiore era la concentrazione di Lp(a) prima della dieta, tanto maggiore l’aumento dopo la dieta. Nei soggetti sottoposti a chirurgia bariatrica e non a dieta (coorte 4), che pure dimostravano la maggiore perdita di peso (14%), i livelli di Lp(a) non cambiavano, a suggerire che l’aumento dell’Lp(a) sia imputabile alla dieta e non alla perdita di peso. Le caratteristiche dello studio non permettono di identificare i meccanismi che sottendono l’effetto della dieta ipocalorica sull’Lp(a), ma i risultati fanno suonare un campanello d’allarme sui benefici che una dieta ipocalorica può produrre sul rischio cardiovascolare globale di un individuo, in particolare se esso è diabetico con un elevato livello di Lp(a).

Berk et al, Diabetologia 60:989,2017

RESTRIZIONE CALORICA O DIGIUNO INTERMITTENTE PER PERDERE PESO?

È noto che gli individui in sovrappeso, e ancor di più quelli decisamente obesi, debbono ridurre il peso corporeo per diminuire il rischio cardiovascolare. Ma come fare per raggiungere questo obbiettivo?

Le linee guida indicano nella restrizione calorica (RC), caratterizzata da una riduzione nell’assunzione giornaliera di cibo, l’approccio ideale. Ma molti individui hanno difficoltà a seguire un regime alimentare di questo tipo. In tempi recenti si è andata affermando l’alternativa del cosiddetto digiuno a giorni alterni (Alternate Day Fasting, ADF). Si tratta di alternare giorni di “semi-digiuno”, in cui l’apporto calorico è ridotto al 25% dell’ideale (circa 500 kcal), a giorni di “libertà” in cui è concessa un’alimentazione completamente libera, senza alcuna restrizione calorica.

Lo studio che vi proponiamo oggi, coordinato dall’Università dell’Illinois a Chicago, ha esaminato 100 soggetti obesi, randomizzati in tre gruppi: controllo, senza intervento dietetico; RC, 75% della necessità energetica tutti i giorni; ADF, 25% e 125% della necessità energetica a giorni alterni. Dopo un anno di intervento dietetico, la riduzione del peso corporeo è stata simile nei due gruppi: RC -5.3%, ADF -6.0% rispetto al gruppo controllo. Tuttavia, il numero di drop-outs (individui che non hanno completato lo studio per mancata aderenza al regime alimentare) è stato superiore nel gruppo ADF (38%) che nel gruppo RC (29%), a suggerire che il digiuno a giorni alterni non è una soluzione sostenibile a lungo termine per perdere peso.

JAMA Intern Med Published online May 1, 2017. doi:10.1001/jamainternmed.2017.0936

NON SOLO RIDURRE IL PESO CORPOREO, MA LIMITARNE ANCHE LE FLUTTUAZIONI, PER RIDURRE IL RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Nello studio che vi proponiamo oggi sono stati utilizzati i dati del trial “Treating to New Targets” (TNT), che aveva valutato l’efficacia e la sicurezza di una terapia ipocolesterolemizzante aggressiva con atorvastatina. Sono stati analizzati 9509 partecipanti. I risultati dimostrano che, dopo aggiustamento per fattori di rischio classici come livelli lipidici basali e peso corporeo medio, ogni aumento della variabilità del peso corporeo (valutato con il parametro della deviazione standard, un indice statistico di dispersione che stima la variabilità di un insieme di dati) si associa ad un aumento del rischio di eventi coronarici, eventi cardiovascolari e morte. Quindi, non solo è importante ridurre il peso corporeo nell’individuo sovrappeso, ma occorre anche limitarne le fluttuazioni. In altre parole non serve una dieta “a tempo”, ma un’alimentazione corretta che mantenga un peso corporeo ideale “nel tempo”.

COS’È LA SINDROME METABOLICA?

La sindrome metabolica è una situazione patologica caratterizzata dalla presenza simultanea nello stesso paziente di diversi disordini metabolici:
1) elevata circonferenza del giro vita, maggiore o uguale a 102 cm negli uomini e 88 cm nelle donne;
2) elevato livello di trigliceridi, maggiore o uguale a 150 mg/dl;
3) ridotto livello di colesterolo HDL, minore di 40 mg/dl negli uomini e 50 mg/dl nelle donne;
4) elevata pressione arteriosa, maggiore o uguale a 130 mmHg per la pressione sistolica e 85 mmHg per la pressione diastolica;
5) elevata glicemia a digiuno, maggiore o uguale a 100 mg/dl.

La diagnosi di sindrome metabolica viene fatta quando siano presenti 3 fattori su 5 di quelli sopra elencati. Colpisce circa il 20-25% degli individui sopra i 50 anni e raddoppia il rischio vascolare.

MANGIARE VEGETARIANO? PER IL PAZIENTE DIABETICO È PIÙ FACILE PERDERE PESO

La dieta vegetariana non è soltanto amica dell’ambiente, ma anche della forma fisica: secondo un nuovo studio, pubblicato sul Journal of the American College of Nutrition, questo tipo di regime alimentare sarebbe due volte più efficace di una dieta convenzionale nel ridurre il peso corporeo.

I ricercatori del hanno analizzato la risposta di 74 pazienti con diabete di tipo 2 a una dieta ipocalorica (-500 kcal/giorno): metà hanno seguito una dieta vegetariana, metà una classica dieta per pazienti diabetici. Dopo sei mesi, i primi hanno perso in media 6,2 kg, mentre i secondi circa 3,2 kg. Entrambe le diete sono risultati efficaci per ridurre il tessuto adiposo sottocutaneo, ma quella vegetariana ha ridotto maggiormente la massa grassa totale. Entrambe le diete hanno ridotto i livelli di emoglobina glicata e aumentato la sensibilità all’insulina.

Rimane da verificare che mangiare vegetariano sia utile a perdere peso e migliorare il metabolismo glucidico anche nei soggetti non diabetici.

IL SOVRAPPESO, IN QUALSIASI FASE DELLA VITA, AUMENTA IL RISCHIO DI MORTE PRECOCE

Un grande studio collaborativo delle ‘Harvard School of Public Health’ e ‘Boston University’ pubblicato sulla rivista ‘Annals of Internal Medicine’ conferma che essere in sovrappeso in qualsiasi fase dell’età adulta aumenta la possibilità di morte precoce. I ricercatori hanno esaminato i dati di 225.000 soggetti di età compresa tra i 25 e i 91 anni, prendendo in considerazione il peso più alto raggiunto nel corso di un periodo di sedici anni e poi esaminando il loro successivo stato di salute. Più di 32.500 partecipanti sono morti nel corso della ricerca. Maggiore è il sovrappeso, maggiore è il rischio di morte precoce per varie cause, quali malattie cardiache, cancro o altri problemi di salute.

Le persone con un indice di massa corporea (BMI, si calcola dividendo il peso in kg per l’altezza in mt) tra 25 e 30 – che inquadra il soggetto in sovrappeso – hanno un 6 % in più di possibilità di morire rispetto ai normopeso per una qualsiasi causa entro i prossimi dodici anni. Gli obesi, con un BMI tra 30 e 35, vedono aumentare il rischio di morte del 24% nello stesso lasso di tempo. La probabilità di morte aumenta ulteriormente fino al 73% nei soggetti gravemente obesi, con un BMI superiore a 35.

L’associazione più forte è stata rilevata tra obesità e malattie cardiovascolari. L’aumento del rischio di morte per malattia cardiovascolare è del 21% nei soggetti in sovrappeso, e sale fino al 174% nei soggetti gravemente obesi. L’aumento del rischio di morte per cancro, invece, ha un’oscillazione che va dall’1% al 28%, a seconda del peso.

Mangiare sano e mantenere una corretta attività fisica per tutta la durata della vita sono precetti fondamentali per vivere bene e a lungo.

OBESITÀ: SEMPRE PIÙ UN’EPIDEMIA MONDIALE

Come a voi noto, il parametro utilizzato per diagnosticare l’obesità (dal 2013 una malattia!) è l’indice di massa corporea o BMI, calcolato come peso (in kg) diviso per altezza (in mt) elevata la quadrato. Si definisce così “normale” un individuo con BMI compreso tra 18.5 e 24.9; l’individuo è in sovrappeso quando il BMI è tra 25.0 e 29.9, ed è obeso quando il BMI è superiore a 30.

Nel 2013 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si era proposta di arrestare l’epidemia di obesità nel mondo, ma l’obiettivo è clamorosamente fallito, come dimostra uno studio appena pubblicato sul New England Journal of Medicine. Nel 2015, dei sette miliardi e mezzo di abitanti del pianeta, due erano in sovrappeso; di essi, più di 100 milioni di bambini (5%) e 600 milioni di adulti (12%) erano obesi. Il numero di soggetti obesi è raddoppiato dal 1980 al 2015 in oltre 70 Paesi sui 195 esaminati, ed è costantemente aumentato nella maggioranza dei Paesi analizzati. L’obesità è sempre più prevalente nei bambini che negli adulti, e generalmente più frequente nelle femmine che nei maschi.

Sempre nel 2015, un elevato BMI ha causato 4 milioni di decessi nel mondo, 2.7 dei quali per problemi cardiovascolari. In termini percentuali, l’eccesso di peso rappresenta il 7.1% di tutti i motivi di decesso.

In ITALIA l’eccesso di peso causa oltre il 6% dei casi di morte prematura e disabilità. Le malattie cardiovascolari, che dell’obesità sono una delle conseguenze principali, sono la principale causa di morte nel Paese, con un aumento del 7.9% tra 2005 e 2015. Ma il nostro non è sicuramente il Paese che sta peggio nel mondo. Cina e India, con 15.3 milioni e 14.4 milioni di bambini obesi, sono i Paesi con l’ipoteca più pesante per il futuro; in Brasile e Indonesia il tasso di obesità fra i bambini è triplicato dal 1980 al 2015. La maglia nera per quanto riguarda l’età adulta va all’Egitto con il 35% di soggetti obesi. Stati Uniti (80 milioni) e Cina (57 milioni) si aggiudicano il record per il numero assoluto di adulti obesi.

La fotografia scattata dai ricercatori è inclemente. Dato il ritmo dell’aumento dell’obesità e le difficoltà che le politiche pubbliche sul controllo del peso corporeo stanno incontrando, appare improbabile il raggiungimento dell’obiettivo “crescita zero” che l’OMS si era posto forse con eccessiva leggerezza e che resterà probabilmente lontano anche nei prossimi anni. Perdere peso è di solito uno dei buoni propositi che i soggetti sovrappeso fanno con l’anno nuovo o con l’approssimarsi delle vacanze estive. Dovrebbe invece diventare un impegno per sempre.

The GBD 2015 Obesity Collaborators. New Engl J Med June 12, 2017
DOI: 10.1056/NEJMoa1614362

OBESITÀ E RISCHIO DI CANCRO. UNA METANALISI

La metanalisi è una tecnica statistica quantitativa che permette di combinare i dati di più studi clinici condotti su uno stesso argomento, ampliando enormemente il numero di casi analizzati, generando un unico dato conclusivo per rispondere con maggiore accuratezza a uno specifico quesito clinico.

I ricercatori dell’Imperial College of London, in collaborazione con studiosi di vari Paesi, hanno condotto una metanalisi per valutare l’associazione tra vari indici di obesità (indice di massa corporea o BMI, aumento di peso, rapporto vita/fianchi) e rischio di sviluppare 36 tipi di cancro. Il risultato della metanalisi dimostra l’esistenza di una chiara associazione tra grasso corporeo e tumori in 11 sedi: adenocarcinoma esofageo; mieloma multiplo; tumori del cardias, colon (negli uomini), retto (negli uomini), sistema biliare, pancreas, mammella (in post-menopausa), endometrio (pre-menopausa), ovaio e rene. L’aumento del rischio varia a seconda del tipo di cancro: per ogni 5 kg/m2 di aumento del BMI, il rischio di cancro aumenta dal 9% per il tumore del retto (uomini) al 56% per il tumore del sistema delle vie biliari. Per gli altri tipi di cancro l’associazione con l’obesità non è chiaramente dimostrabile, almeno sula base dei dati clinici finora prodotti.

BMJ 2017;356:j477