L’AGRICOLTURA BIO E I SUOI PESTICIDI

Prof. Elena Cattaneo, Senatrice a vita

I campi coltivati a biologico possono inquinare il terreno con un metallo pesante più tossico del glifosato. Strano, ma vero. Credo sia davvero importante squarciare quel velo di ignoranza che ci fa annuire acriticamente agli slogan “No ai pesticidi, sì al biologico” e aderire a iniziative “contro l’agricoltura chimica” (tout court) e per “la salute della terra e dell’uomo”. Iniziative che spesso finiscono col chiedere allo Stato, cioè noi, specifiche (ulteriori) risorse….

Oggi la narrazione del biologico teorizza, godendo di sponsor istituzionali, un ritorno al passato a “pesticidi zero”. Ma forse non tutti sanno che la stessa agricoltura biologica, quella del “ritorno alla natura”, di pesticidi ne fa un uso sistematico, elencandoli in appositi disciplinari. Essi, infatti, sono “microrganismi o sostanze chimiche (naturali e prodotte industrialmente) utilizzati in agricoltura per eliminare tutto ciò che danneggia le piante coltivate”. Lo ricorda l’Istituto Superiore di Sanità.

La contrapposizione tra pesticidi (o per meglio dire agrofarmaci) di sintesi e non di sintesi è vincente in termini di marketing, ma, in termini di sostenibilità, non è funzionale a evitare un maggior inquinamento. Il rame, ad esempio, uno dei più antichi, utilizzati e “naturali” pesticidi bio della storia, è un metallo pesante che inquina molto di più ed è molto più dannoso per uomini e animali di alcuni prodotti di sintesi con funzioni analoghe. Le evidenze scientifiche, infatti, ne dimostrano tossicità e persistenza nel suolo per tempi indefiniti. Il tanto demonizzato erbicida glifosato ha un profilo tossicologico meno pericoloso. L’effetto del rame è anche poco mirato: la pianta da trattare deve esserne ben ricoperta, quindi ne serve di più rispetto a fitofarmaci di sintesi più specifici; inoltre, essendo facilmente dilavato da piogge o rugiada, va riapplicato spesso, col risultato di aumentare l’inquinamento. Sia chiaro il rame è usato anche nell’agricoltura integrata che, però, ne fa un uso più contenuto, avendo a disposizione prodotti tecnologicamente più avanzati per sostituir!o. In quella biologica non esiste alternativa….

Davvero questo è il modello del futuro da sovvenzionare? L’alternativa c’è ed è già “in campo”: è l’agricoltura integrata, degli imprenditori che innovano, che integra tutti gli strumenti di protezione delle colture (agronomici, fisici, biologici, chimici) secondo uno schema razionale per produrre quanto più possibile con le risorse disponibili usate nel modo più efficiente possibile. Un approccio tanto ragionevole e razionale da sembrare, di questi tempi, un’eresia.

Estratto dall’articolo pubblicato da “Il Messaggero”, 27/11/2018

LA FIBRA DI PSYLLUM PER RIDURRE ILCOLESTEROLO?

È noto che cibi ricchi in fibre solubili possono contribuire a ridurre i livelli plasmatici di colesterolo nel paziente con moderata ipercolesterolemia, anche trattato con statine. Le linee guida per ridurre il rischio cardiovascolare raccomandano l’assunzione giornaliera di 14 gr di fibra per ogni 1000 kcal. E gli integratori a base di fibra? Una recente metanalisi dimostra, con qualche limite, l’efficacia della fibra di Psyllum nel ridurre ulteriormente i livelli di LDL-colesterolo in pazienti che assumono statina. La fibra di Psyllum, proveniente dal seme della pianta Plantago psyllum, forma un gel emolliente e lubrificante che favorisce la peristalsi e riduce l’assorbimento di alcuni nutrienti, tra cui il colesterolo.

La metanalisi ha analizzato i risultati di tre studi, per un totale di 204 pazienti, della durata di 4-12 settimane. L’aggiunta della fibra di psyllum (7-15 g/die) a statina produce un’ulteriore riduzione dei livelli di colesterolo LDL (4-6%), paragonabile a quella ottenibile con il raddoppio della dose di statina. Come ipotizzabile, la fibra è più efficace nei pazienti ipercolesterolemici che nei soggetti normocolesterolemici.

I limiti dell’indagine stanno nel modesto numero di studi, nella loro breve durata e nella mancanza di endpoints clinici.

Amer J Cardiol (IF=3.171) 122:1169,2018

 

ALIMENTI FUNZIONALI E NUTRACEUTICI NELLE DISLIPIDEMIE

Dal 32° Congresso Nazionale della Società Italiana per lo Studio della Arteriosclerosi

Per dimostrare il reale effetto ipocolesterolemizzante dei nutraceutici occorre condurre degli studi randomizzati in doppio cieco. Il nutraceutico ipocolesterolemizzante più utilizzato è il riso rosso fermentato (RYR), che contiene monacolina K, a tutti gli effetti comparabile a lovastatina. L’effetto di riduzione atteso sarebbe del 15%, mentre le metanalisi mostrano una riduzione dei livelli di colesterolo pari al 25%, probabilmente dovuto alla presenza di più monacoline o al fatto che, somministrato sottoforma di riso rosso, la monacolina K è più biodisponibile. Naturalmente occorre prestare molta attenzione alla qualità del materiale di partenza per il rischio di presenza di citrinina che è nefrotossica. Un recente documento EFSA, che riporta 4 casi di rabdomiolisi in Europa in seguito a uso di RYR, non definisce comunque un’indicazione precisa per l’utilizzo di questo integratore. RYR non dovrebbe essere usato in combinazione con statine, mentre può essere somministrato con fitosteroli o con berberina. Quest’ultima pur a fronte di una bassa biodisponibilità orale, riduce i livelli di lipidi circolanti e modifica in modo favorevole la flora intestinale (microbiota).
L’utilizzo dei nutraceutici si può inserire in un contesto di intervento di efficacia moderata ma precoce, che può risultare più efficace di un intervento più intensivo ma tardivo come documentato dagli studi di genetica.
I nutraceutici ad attività ipocolesterolemizzante si inseriscono anche nel contesto dell’intolleranza alle statine, definita con presenza di eventi muscolari avversi in seguito a trattamento con due o più statine, scomparsa degli effetti alla sospensione e ricomparsa dopo re challenge con statina. È noto che vari fattori di rischio aumentano la possibilità di effetti collaterali legati alle statine. Esistono discrepanze tra i dati riportati nei trials clinici e i numeri riportati negli studi osservazionali, legate prevalentemente alla selezione dei soggetti negli studi randomizzati. D’altra parte esiste anche un effetto nocebo, ossia l’effetto collaterale correlato allo stato di conoscenza dell’assunzione del farmaco. In questi soggetti possono essere usati i nutraceutici, soprattutto RYR e berberina, che inducono riduzione di LDL-C del 20%. Risultati di meta-analisi indicano che questi integratori riducono l’incidenza di dolori muscolari in soggetti intolleranti alle statine. Come suggerito anche dalle più recenti linee guida europee, questi nutraceutici sono indicati in soggetti a basso rischio cardiovascolare, o con eventi avversi alle statine o, infine, in pazienti che rifiutano il trattamento con statine.

ECCO LE NUOVE LINEE GUIDA PER IL TRATTAMENTO DEL DIABETE DI TIPO 2

Sono state presentate dalle due più importanti società scientifiche del settore, l’European Association for the Study of Diabetes (EASD) e l’American Diabetes Association (ADA), le nuove linee guida congiunte per il trattamento del diabete di tipo 2. La nuova edizione rappresenta l’aggiornamento delle linee guida 2015.
Queste le principali novità della versione 2018.
Educazione alla malattia e alla sua terapia. A tutti i pazienti dovrebbe essere garantito un accesso continuo all’educazione relativa all’autocontrollo del diabete e alla gestione della malattia, attraverso suggerimenti e consigli su diagnosi della malattia, monitoraggio della glicemia, mantenimento di uno stile di vita appropriato, impatto della terapia.
Attenzione ai pazienti obesi o in sovrappeso. Tutti i pazienti dovrebbero ricevere adeguate informazioni e prescrizioni relative alla nutrizione. In particolare, i pazienti obesi o in sovrappeso dovrebbero essere informati dei benefici per la salute derivanti dalla perdita di peso e incoraggiati a impegnarsi in un programma di corretta alimentazione, che dovrebbe indicare anche quali alimenti sostituire con altri più salutari. Allo stesso tempo, andrebbero incoraggiati a mettere in atto programmi di implementazione dell’attività fisica, visto il loro effetto favorevole sul controllo della glicemia. La chirurgica metabolica è il trattamento raccomandato per i soggetti con diabete di tipo 2 e un indice di massa corporea (BMI) superiore a 40 oppure di 35-39.9, che non siano riusciti a ottenere un calo ponderale adeguato o a migliorare in maniera significativa le loro comorbilità.
Terapia sempre più a misura di paziente. Le preferenze del paziente devono diventare un fattore importante nella scelta della terapia e devono riguardare la via di somministrazione dei farmaci, gli effetti indesiderati e i costi (nel caso in cui sia il paziente stesso a doversi sobbarcare l’onere della spesa).
I farmaci: conferme e novità. La metformina continua a essere indicata come il primo farmaco da utilizzare nel trattamento del diabete di tipo 2 (salvo controindicazioni). Sulla scelta del secondo farmaco, da affiancare alla metformina, entrano in gioco le preferenze del paziente e le sue caratteristiche, in particolare per quanto riguarda la presenza di malattie cardiovascolari, scompenso cardiaco e insufficienza renale. Nel caso di pazienti con insufficienza renale cronica, scompenso cardiaco o patologie cardiovascolari su base aterosclerotica, la scelta dovrebbe cadere sugli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio 2 (SGLT2), in particolare su quelli con benefici provati in questi contesti di patologia.

Diabetologia 61:2461,2018

IN QUANTO TEMPO SI MANIFESTANO I BENEFICI DELLA TERAPIA IPOLIPEMIZZANTE?

Il “Time To Benefit” (TTB) viene definito come l’intervallo di tempo che intercorre tra l’inizio di una terapia e la comparsa dei suoi risultati. Si tratta di una variabile che deve essere tenuta in considerazione non solo nella pianificazione dei trials clinici, ma anche nella pratica clinica per decidere se trattare un paziente in funzione dell’aspettativa di vita. Lo studio che proponiamo oggi ha confrontato il TTB calcolato per 24 trials clinici con farmaci ipolipemizzanti ed endpoints clinici.

I risultati mostrano che il TTB varia in modo considerevole, da 1 a 30 mesi, con una media di 13.1 mesi. Il TTB è più breve per le statine rispetto ai farmaci ipolipemizzanti di altro tipo (10.3 vs 20.0 mesi). Tra i trials con statine (n=17), il TTB è più breve per atorvastatina (n=6) rispetto agli altri farmaci della stessa classe (n=11), 4.75 vs 11.4 mesi. I trials che hanno valutato gli inibitori di PCSK9 hanno mostrato un TTB medio di 12 mesi. Tra le variabili che possono influenzare il TTB occorre includere il numero degli endpoints dei vari trials, i livelli basali di LDL-colesterolo, la popolazione oggetto di studio e il contesto clinico (prevenzione primaria, coronaropatia stabile o post-acuta, …), oltre alle caratteristiche specifiche dei singoli farmaci. Alcune evidenze indicano p.es. che l’atorvastatina produce un metabolita attivo dotato di potente azione antiossidante, che potrebbe influenzare favorevolmente il TTB.

J Clin Lipidol. (IF=3.580) 12:857,2018

PRODOTTI AGROALIMENTARI TRADIZIONALI: LA ROCCIATA

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

A prima vista assomiglia a uno strudel trentino, ma in realtà già presso i popoli umbri, era conosciuto come alimento dedicato al dio Hondo Cerfio, una antichissima divinità. Il nome deriva certamente dalla parola dialettale “roccia” che significa rotonda. È un dolce autunnale che viene preparato soprattutto nel periodo di Ognissanti fino a Natale. Dolce calorico, è composto da una leggerissima sfoglia ripiena di frutta secca, mele, fichi, cannella, spezie e vin santo, che viene arrotolata su se stessa per avere una forma a  ferro di cavallo. Attualmente in molti negozi vengono proposte ai numerosi turisti delle rivisitazioni della rocciata, con ingredienti che non hanno nulla a che vedere con il territorio e con la tradizione umbra.

100 gr. di rocciata. Kcalorie 286.50; carboidrati 32.99 gr; proteine 5.50 gr; lipidi 15.32 gr (saturi 1.44 gr, monoinsaturi 7.75 gr, polinsaturi 4.04 gr); fibra 4.48 gr.

 

 

 

 

 

 

MONITORAGGIO PRESSORIO NELLE 24 ORE E MORTALITÀ. L’IPERTENSIONE MASCHERATA È IL NUOVO KILLER?

Nello studio che vi proponiamo oggi è stata valutata la relazione tra pressione arteriosa misurata in ambulatorio (PAA) o valutata attraverso monitoraggio nelle 24 ore (PAM) e mortalità in un’ampia coorte di pazienti arruolati in ambito di cure primarie. Sono stati analizzati i dati di una coorte nazionale multicentrica spagnola basata su un registro che includeva 63.910 adulti esaminati dal 2004 al 2014. I pazienti sono stati classificati in quattro categorie: ipertensione sostenuta (PAA e PAM elevate), ipertensione da camice bianco (PAA elevata e PAM normale), ipertensione mascherata (PAA normale e PAM elevata), normotensione (PAA e PAM normali). Durante un follow-up mediano di 4.7 anni, 3808 pazienti sono deceduti, 1295 di questi per cause cardiovascolari. L’ipertensione mascherata è risultata più fortemente associata alla mortalità totale (HR 2.83; 95% CI 2.12-3.79) dell’ipertensione sostenuta (HR 1.80; 95% CI 1.41-2.31) e dell’ipertensione da camice bianco (HR 1.79; 95% CI 1.38-2.32). I risultati per la mortalità cardiovascolare erano simili a quelli per la mortalità totale.

N Engl J Med (IF=79.260) 378:1509,2018

TUMORE DEL COLON RETTO: NELLE DONNE SOVRAPPESO AUMENTA DEL 37% E IN QUELLE OBESE DEL 93%

Abbiamo già ricordato che sovrappeso e obesità aumentano non solo il rischio cardiovascolare, ma anche il rischio di sviluppare un tumore. A rilanciare l’allarme sulla relazione tra obesità e tumore ecco uno studio che ha analizzato l’associazione tra obesità nelle donne giovani adulte e tumore del colon retto. Il Nurse Health Study ha seguito 85.252 infermiere, di età compresa tra i 25 e i 42 anni, per un periodo compreso tra il 1989 e il 2011. Al momento dell’arruolamento non erano presenti neoplasie, né malattie infiammatorie intestinali. Durante il periodo di follow-up, ogni due anni venivano registrati i dati antropometrici (in particolare peso corporeo e BMI) e si acquisivano informazioni in merito allo stile di vita.
Al termine dello studio, il rischio di tumore del colon è risultato maggiore del 37% nelle donne in sovrappeso (BMI 25-29.9) e del 93% nelle donne obese (BMI≥ 30), rispetto alle normopeso. Per ogni 5 unità di aumento dell’indice di massa corporea, il rischio di tumore del colon retto aumenta del 20 per cento. Il rischio di sviluppare un tumore del colon in età precoce è poi correlato al peso corporeo all’età di 18 anni: nelle donne in sovrappeso a 18 anni, rispetto alle normopeso alla stessa età, il rischio di tumore del colon retto in età precoce è aumentato del 32%, mentre per le donne già obese a 18 anni il rischio è aumentato del 63%.
Il tumore del colon retto è per frequenza il terzo tumore in Italia e in Europa, e rappresenta globalmente il 10.2% di tutti i tumori, con una maggiore incidenza dopo i 50 anni (Globocan 2018). Incidenza e mortalità per questo tipo di tumore sono però in aumento in una fascia d’età più giovane (al di sotto dei 50 anni). Le cause non sono note, ma potrebbero includere l’assenza di programmi di screening, l’adozione di uno stile di vita rischioso (compresi gli eccessi alimentari e la scarsa attività fisica, e conseguente obesità), una predisposizione genetica e influenze ambientali. Per quanto riguarda l’alimentazione, è noto che il consumo di carni rosse e conservate, proteine animali e grassi si associa a un aumentato rischio di tumore del colon, mentre il consumo di pesce, frutta e verdura (ricche in fibra) ha un ruolo protettivo. L’anello di congiunzione tra errata alimentazione e tumore del colon potrebbe essere il microbiota intestinale, che verrebbe resettato in modalità ‘cancerogena’ da un’alimentazione poco sana.

JAMA Oncol (IF=20.871) October 11, 2018. doi:10.1001/jamaoncol.2018.4280

LE NUOVE LINEE GUIDA EUROPEE SULL’IPERTENSIONE ARTERIOSA. COSA RACCOMANDANO PER L’ANZIANO?

Le nuove linee guida per il trattamento dell’ipertensione arteriosa della Società Europea di Cardiologia e della Società Europea di Ipertensione (ESC/ESH) dedicano ampio spazio al trattamento del paziente anziano e molto anziano. Già le linee guida del 2013 avevano notevolmente modificato l’approccio all’iperteso anziano, modificando i valori soglia a cui iniziare il trattamento e i valori target da raggiungere. Inoltre era stato dato rilievo alla presenza di disabilità e fragilità nelle decisioni terapeutiche. Diversamente dalle ultime linee guida americane (2017, AHA/ACC), che non specificano grandi differenze tra giovane e anziano, nelle nuove linee guida europee le raccomandazioni per la popolazione anziana, suddivisa in due fasce di età (65-79 anni e ≥80 anni), sono piuttosto precise e diverse da quelle della popolazione generale. In particolare, nei pazienti ultraottantenni rimane il valore soglia di pressione arteriosa sistolica (SBP)≥160 mmHg per iniziare il trattamento (tabella).

Il valore target di SBP da raggiungere con il trattamento (purché ben tollerato) negli anziani (sia 65-79 anni che ≥80 anni) è di 130-139 mmHg, più elevato rispetto ai più giovani, per i quali il target è ≤130 mmHg.

Le linee guida peraltro mostrano, soprattutto nel paragrafo destinato al trattamento dell’anziano, notevoli cautele. In particolare sottolineano come, nei pazienti più anziani o fragili, l’eventuale comparsa di ipotensione ortostatica o post-prandiale sia sempre in agguato e consigliano per questo l’uso del monitoraggio ambulatoriale delle 24 ore. Raccomandano di evitare valori di BPS <130 mmHg e di prestare particolare attenzione a eventuali effetti negativi o di tollerabilità associati al trattamento antiipertensivo, più frequenti nell’anziano. Attenzione anche alla funzionalità renale che dovrebbe essere valutata frequentemente per rilevare possibili aumenti della creatinina sierica e riduzioni di eGFR come conseguenza di episodi ipotensivi e quindi di riduzione della perfusione renale.

Nella scelta della terapia iniziale le linee guida sottolineano come nell’anziano i farmaci consigliati siano gli stessi raccomandati per i più giovani: terapie di combinazione fissa ACE-inibitore o ARB più calcio antagonista o diuretico tiazidico. Nel paziente molto anziano o fragile va esercitata una maggiore cautela, iniziando con una monoterapia.

Blood Press. 27:314-340,2018

IL LATTE D’ORO

Dalla Dietista del Centro, Raffella Bosisio

Nata in India, dove viene consumata giornalmente dagli individui che seguono i consigli della medicina Ayuvedica, è una bevanda con numerose proprietà antiossidanti. Gli ingredienti sono semplicissimi: latte vegetale di riso o di avena, un cucchiaino di pasta di curcuma, miele e olio di mandorle. La pasta di curcuma si ottiene facilmente mescolando polvere di curcuma con acqua e portando il tutto a bollore. Questo composto si conserva facilmente in frigorifero per quaranta giorni. Per ottenere il golden milk si miscelano la pasta di curcuma con i restanti ingredienti cuocendo per qualche minuto. Le innumerevoli proprietà di questa bevanda sono dovute alla curcuma, spezia che, grazie ai suoi tre principi attivi, curcumina (71.5%),dimetossicurcumina (19.5%) e bisdimetossicurcumina (9.1%), svolge  funzione antinfiammatoria e antiossidante. È un sostanza liposolubile che  ha la peculiarità di aumentare la sua biodisponibilità in presenza di piperina, contenuta nel pepe, e bromelina, contenuta nell’ananas. La Food and Drug Administration ha riconosciuto alla curcumaha lo stato di “Generally Recognised as Safe” (GRAS), cioè sostanza sicura e adatta a un consumo giornaliero.