IL SALE

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Il sale comune da cucina è frutto della cristallizzazione di sodio (40%) e di cloro (60%). Facilmente reperibile in natura, si classifica a seconda della provenienza: “salgemma” quello terrestre, “marino” quello che si ricava dal mare. Molti trials clinici hanno evidenziato come l’eccessivo introito giornaliero di sale contribuisca all’insorgenza della ipertensione arteriosa. In specifico hanno dimostrato uno stretto legame tra quantità di sale assunta e danno di organo.  Due studi effettuati in Portogallo e in Cina hanno messo in evidenza come una diminuzione di sale porti a una riduzione della pressione arteriosa ripristinando una corretta funzione endoteliale. L’OMS raccomanda un introito giornaliero inferiore a 5 grammi. La diminuzione di sale non solo deve essere effettuata con un attento controllo discrezionale, considerando anche tutti quegli alimenti che ne hanno un’elevata concentrazione. Tra questi i prodotti da forno: biscotti, crackers, grissini, pane, merendine, cereali da prima colazione. Si tratta di alimenti che comunemente non vengono considerati come possibili apportatori di sale mentre in realtà sono una grossa fonte di sodio, soprattutto perché li consumiamo tutti i giorni e in quantità elevata. Ridurre la quantità di sale non è difficile se la riduzione avviene gradualmente, infatti il nostro palato si adatta facilmente ed è possibile rieducarlo progressivamente a cibi meno salati.

Come comportarsi
1 Non usare mai il sale a tavola.
2 Ridurre al minimo indispensabile il sale nella preparazione e nella cottura dei cibi.
3 Evitare i cibi “trattati” con sale e conservati in scatola o salamoia o essiccati o affumicati

 

COS’È L’OMOCISTEINA?

L’omocisteina è un aminoacido derivato dalla dieta. È stato osservato che esiste una correlazione positiva tra livelli di omocisteina nel sangue e aterosclerosi; valori plasmatici superiori a 15 mmol/L rappresentano un fattore di rischio per le malattie vascolari, soprattutto cerebrali. L’aumento della concentrazione di questo aminoacido può essere dovuto alla combinazione di fattori nutrizionali (carenze vitaminiche) e genetici (deficit di enzimi). L’omocisteina aumenta con l’età, è maggiore negli uomini rispetto alle donne e tende ad aumentare nel periodo post-menopausale. Gli elevati livelli di omocisteina nel sangue possono essere ridotti in modo rilevante, nella maggioranza dei casi, con idonea terapia vitaminica con acido folico 1-2 mg/die. Nel caso in cui la terapia con acido folico non sia sufficiente, può essere utile l’aggiunta di vitamine B12 e B6. La somministrazione di questi agenti terapeutici, poco costosi e privi di effetti collaterali, comporta una riduzione della concentrazione di omocisteina nel sangue mediamente del 30% rispetto ai valori iniziali. Oltre a questo effetto di riduzione dell’omocisteina, l’acido folico sembra in grado di produrre una significativa diminuzione dello spessore medio-intimale carotideo, un importante marcatore di aterosclerosi preclinica e predittore di eventi cardiovascolari (ne parleremo presto) in pazienti a rischio di ischemia cerebrale. Non esistono però studi che abbiano dimostrato una diminuzione degli eventi cardiovascolari in seguito alla terapia vitaminica sopra citata, che pertanto ha un impiego oggi limitato.

 

RIGIDITÀ ARTERIOSA, FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE E DANNO D’ORGANO

La rigidità arteriosa viene accentuata, oltre che dall’età e dalla pressione arteriosa (come abbiamo visto nei mesi scorsi; ricordo che gli articoli precedenti sono indicizzati sul sito web del Centro, www.centrogrossipaoletti.org), dal diabete mellito, dalla sindrome metabolica, e dall’obesità viscerale. Numerosi meccanismi sono stati proposti per queste associazioni, tra i quali la produzione da parte del grasso viscerale di numerose citochine (quali interleuchina-6, inibitore dell’attivatore del plasminogeno e leptina) e acidi grassi liberi, tutti responsabili di disfunzione endoteliale, che a sua volta è uno dei meccanismi alla base della rigidità arteriosa. La PWV aortica si correla inoltre con la presenza di danno d’organo a carico di altri distretti, quali l’ipertrofia concentrica e la disfunzione sistolica del ventricolo sinistro, la microalbuminuria e la disfunzione renale. Un elenco delle condizioni che sono state associate a un aumento della rigidità arteriosa è riportato nella Tabella.

In questi ultimi anni vi è stato un crescente interesse nei confronti della rigidità arteriosa quale indicatore precoce di coinvolgimento vascolare in una serie di condizioni cliniche che costituiscono altrettanti fattori emergenti di rischio cardiovascolare, quali l’infezione da virus dell’immunodeficienza umana (HIV), le patologie infiammatorie croniche e l’emicrania.
L’infezione da HIV e la conseguente AIDS si sono trasformate da malattia rapidamente mortale in patologia a decorso cronico non guaribile ma curabile dopo l’introduzione nella pratica clinica, a metà degli anni ’90 del secolo scorso, delle potenti terapie antiretrovirali di combinazione. L’aumentata aspettativa di vita comporta la comparsa di condizioni patologiche e danni organici fisiologicamente legati all’invecchiamento, che si sovrappongono alle complicanze tardive della terapia antiretrovirale, in particolare le alterazioni metaboliche e il rischio cardiovascolare. La terapia con farmaci antiretrovirali, in particolare con inibitori delle proteasi, si accompagna ad alterazioni metaboliche (dislipidemia, insulino-resistenza, disfunzione endoteliale), che si riflettono in un aumento della rigidità arteriosa. Recenti dati suggeriscono che anche l’infezione da HIV di per sé possa avere un effetto indipendente sfavorevole sullo sviluppo della malattia aterosclerotica e sulla rigidità arteriosa.

Le malattie infiammatorie croniche, come l’artrite reumatoide e il lupus eritematoso sistemico, si accompagnano a un’aumentata incidenza di malattie cardiovascolari. Un indicatore pre-clinico di tale tendenza è costituito dalla rigidità arteriosa, che risulta precocemente aumentata in entrambe le malattie. Più in generale, la condizione di infiammazione cronica sub-clinica che si associa alla presenza di diversi fattori di rischio cardiovascolare ed è misurata dai valori di proteina C-reattiva ad alta sensibilità, si accompagna a un’aumentata rigidità arteriosa.

L’emicrania, patologia cronica che interessa oltre il 10% della popolazione, è associata a un aumento del rischio di ictus cerebrale ischemico e di altre complicanze cardiovascolari (angina pectoris, infarto miocardico, morte per cause cardiovascolari), per meccanismi non del tutto chiariti. Anch’essa si accompagna a un’aumentata rigidità arteriosa, suggerendo l’esistenza di un coinvolgimento vascolare sistemico nell’emicrania, che può costituire un meccanismo alla base dell’aumentato rischio cardiovascolare nei soggetti affetti.

L’UVA

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Coltivata da tempi antichissimi, l’uva è un frutto assai diffuso. Ne esistono parecchie varietà, utilizzate nel campo alimentare, enologico, fitoterapico e ultimamente in quello cosmetico. L’uva contiene 80% di acqua, 15% di carboidrati, pochissimi grassi e proteine. Ricca di sali minerali, potassio, fosforo e ferro, contiene buone quantità di vitamine C e A. Le sue buone proprietà sono state riconosciute fin dai tempi dei Greci e dei Romani che, addirittura, le attribuivano poteri terapeutici. Recenti studi hanno dimostrato come gli antocianosidi contenuti nelle foglie esercitino un’attività angioprotettrice diminuendo la permeabilità capillare. Componente importante è il resveratolo che agisce sull’aggregazione piastrinica e nel contempo esercita azione antinfiammatoria. In questi ultimi anni, specialmente in Germania, viene proposta la cosiddetta “cura dell’uva”. Si tratta di un vero e proprio regime dietetico che prevede un consumo quasi esclusivo di uva per tre giorni consecutivi, con lo scopo di disintossicare l’organismo.

LA RICETTA. Schiacciata all’uva

Ingredienti (per 6 persone): uva nera g. 700, farina g. 300, lievito di birra g. 10, olio extravergine d’oliva g. 20, zucchero g. 90. Impastare la farina con il lievito, l’olio e g. 30 di zucchero. Lasciare lievitare per due ore. Stendere la pasta dopo averla divisa in due parti, in una teglia quadrata e coprire con gli acini d’uva. Ripetere l’operazione con un secondo strato. Spolverare con lo zucchero rimasto. Cuocere in forno per 30 minuti. Buon appetito!

Kcal (per porzione): 332,36. Proteine 5,21 g. Lipidi 6,61 g; saturi 0,61 g; insaturi 0,67 g; monoinsaturi 2,52 g. Carboidrati 72,89 g. Fibra 3,11 g.

FARMACI INCRETINO-MIMETICI PER IL TRATTAMENTO DEL DIABETE – 2

Come vi dicevo la scorsa settimana, sono due le famiglie di farmaci che agiscono con azione incretino-mimetica: ormoni naturali simil-GLP-1 e analoghi sintetici del GLP-1. Tutti questi farmaci aumentano la secrezione pancreatica glucosio-dipendente di insulina, interagendo con il recettore del GLP-1 (GLP1R) espresso sulla membrana delle cellule beta-pancreatiche, riducono la glicemia e l’emoglobina glicata e sono indicati per il trattamento del paziente con diabete mellito di tipo 2. Gli effetti indesiderati sono rappresentati soprattutto da nausea e vomito, peraltro in progressiva diminuzione con il proseguimento del trattamento, reazioni allergiche e ipoglicemia (quando utilizzati in associazione con insulina o sulfaniluree).

Appartiene alla prima famiglia l’Exenatide, forma sintetica dell’exendin-4, un peptide naturale di 39 aminoacidi prodotto dal Gila Monster, un rettile che vive nel deserto dell’Arizona. Exendin-4 è codificato da un gene distinto da quello del GLP-1 e mostra un’omologia di sequenza del 52% con il GLP-1. L’Exenatide ha una struttura identica alla molecola naturale exendin-4, mostra un’affinità di legame al GLP1R identica al GLP-1 umano, è resistente alla degradazione ad opera della DPP-IV (Figura), viene rapidamente assorbita dopo iniezione sc e si presta a schemi di trattamento basati su due somministrazioni giornaliere. Di Exenatide è stata sviluppata, una forma ritardo (LAR) che viene somministrata una volta alla settimana.

La famiglia degli analoghi sintetici del GLP-1 include quattro prodotti oggi in commercio. Il primo a essere introdotto in terapia, nel 2010, è la Liraglutide: rispetto alla sequenza del GLP-1 umano presenta una sostituzione (arginina al posto di lisina) in posizione 34 e l’aggiunta di un acido grasso a 16 atomi di carbonio ancorato a un residuo di glutammato a sua volta legato alla lisina in posizione 26 (Figura). L’acilazione e la diversa sequenza della molecola ne modificano la farmacocinetica, determinandone un più lento assorbimento dal deposito sottocutaneo, una più lunga emivita per il legame dell’acido grasso con l’albumina circolante e una più lenta degradazione da parte della DPP-IV. Grazie a queste caratteristiche, Liraglutide può essere somministrata per via sc una volta al giorno. Gli altri analoghi sintetici di GLP-1 sono Albiglutide (un dimero del GLP-1 fuso all’albumina), Dulaglutide (il GLP-1 legato covalentemente al frammento Fc dell’IgG4 umana) e Lixisenatide (un derivato dell’exendin-4).

IL MIRTILLO

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

E’ un piccolo arbusto della famiglia delle Ericacee, cresce nelle zone montane, nelle brughiere e nei boschi come pianta spontanea. Se ne conoscono 130 specie differenti. I frutti possono essere neri, rossi o blu. Il mirtillo nero è ricco di principi salutari: in particolare, i glucosidi antocianici contenuti hanno proprietà capillaroprotettrice, inibendo l’attività di enzimi che distruggono il connettivo e il tessuto elastico dei capillari. Le antocianine favoriscono la rigenerazione della porpora retinica (rodopsina) favorendo la visione notturna. Il mirtillo rosso, conosciuto come cranberry, è un buon antisettico. Viene utilizzato nella prevenzione delle infezioni urinarie grazie alla sua capacità di ridurre l’adesività dei batteri alla parete vescicale. Anche questa proprietà è dovuta alla presenza delle antocianine, in particolare del tipo A. L’assunzione quotidiana di succo di cranberry, acidificando le urine, crea un ambiente sfavorevole ai batteri, riducendo così il numero delle cistiti, patologie caratterizzate da una notevole recidiva.

LA RICETTA. Porridge ai mirtilli

Ingredienti (per 4 persone): 140 g. di fiocchi d’avena, 200 ml. di acqua, 200 ml. di latte parzialmente scremato, 20 g. di miele, 280 g. di frutti di bosco. Mettere in un pentolino il latte con l’acqua, aggiungere i fiocchi di avena e cuocere per 6-7 minuti. Togliere dal fuoco e aggiungere il miele e i mirtilli. Buon appetito!

 Kcal (per porzione): 185,84. Proteine: 5,21 g. Lipidi: 3,51 g; saturi 0,92 g; insaturi 1,06 g; monoinsaturi 1,08 g. Carboidrati: 35,56 g. Fibra: 5,07 g.

 E con questo vi auguro Buone Vacanza. Ci rivediamo a Settembre.

RIGIDITÀ ARTERIOSA (ARTERIAL STIFFNESS) E IPERTENSIONE

La pressione arteriosa rappresenta, dopo l’età, il principale determinante della rigidità arteriosa (arterial stiffness). L’influenza della pressione arteriosa sulla rigidità vascolare dipende da una caratteristica intrinseca della parete arteriosa: la sua anisotropia.

L’equazione di Moens e Korteweg assume che la parete arteriosa sia isotropica, ossia che a un determinato stress (rappresentabile come pressione differenziale) corrisponda sempre la stessa distensione. Per una data variazione di volume (DV) in un determinato volume (V) in risposta a una variazione applicata di pressione (DP), il valore di DP×V/DV è noto come K (se la variazione di volume è espressa come variazione di diametro o di area la costante K è detta modulo elastico di Peterson). Tuttavia, tale assunzione non è giustificata per la parete arteriosa. Le tre principali componenti elastiche della parete arteriosa – collagene, elastina e cellule muscolari lisce – hanno valori molto diversi di K. Inoltre, la rigidità intrinseca delle varie componenti è influenzata dalle modificazioni della matrice mucopolisaccaridica in cui essi sono immersi. Il risultato è che il valore di K di una data arteria varia in maniera non lineare con la pressione e con la frequenza di applicazione dello stress. In altri termini, con l’aumento della distensione di un vaso (cioè, con l’aumento della pressione media) è necessaria una variazione di pressione (DP) sempre maggiore per ottenere la stessa dilatazione.

Dati sperimentali confermano che nei ratti spontaneamente ipertesi si verificano una serie di modificazioni strutturali della parete arteriosa (es. la riduzione delle fenestrazioni nella lamina elastica interna e un maggior numero di connessioni tra le cellule muscolari lisce e la lamina elastica interna), che ridistribuiscono il carico dalle componenti più elastiche, come l’elastina, a quelle più rigide come le fibre collagene, con il risultato di aumentare la rigidità complessiva della parete.

J Hypertens (IF=4.085) 26:182, 2008.

IL PROGETTO “ZERO EVENTI CARDIO E CEREBROVASCOLARI”

La Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa (SIIA) e la Società Italiana di Medicina Generale e delle cure primarie (SIMG) hanno lanciato il progetto “zero eventi cardio e cerebrovascolari”, finalizzato alla sensibilizzazione degli utenti delle farmacie nei riguardi dei fattori di rischio cardiovascolare, ipertensione in primis. Oggi più che mai le farmacie rappresentano, importanti strutture di riferimento per i pazienti in ragione della loro diffusione capillare e dei preziosi consigli che possono fornire agli utenti in tema di salute. E’ evidente, quindi, che le farmacie sono anche la sede ideale per le iniziative di promozione della salute e del benessere e di prevenzione delle malattie. Il progetto “zero eventi cardio e cerebrovascolari” prevede la somministrazione di un semplice questionario agli utenti delle farmacie da parte di un infermiere adeguatamente formato al fine di raccogliere informazioni sui diversi fattori di rischio cardiovascolare e stimare il “rischio globale” del singolo individuo. E’ prevista la misurazione pressoria con strumenti automatici e, limitatamente ad alcune farmacie, anche la misurazione della colesterolemia e della glicemia. La stima del rischio verrà effettuata attraverso le carte del rischio del Progetto Cuore (donne e uomini di età compresa fra 40 e 69 anni, che non hanno avuto precedenti eventi cardiovascolari, e con valori non estremi dei fattori di rischio – pressione arteriosa sistolica superiore a 200 mmHg o inferiore a 90 mmHg e colesterolemia totale superiore a 320 mg/dl o inferiore a 130 mg/dl).

Il questionario prevede anche la raccolta di informazioni cliniche addizionali sul singolo individuo e sulla sua familiarità per fattori di rischio cardiovascolare al fine di tracciare un profilo più definito del rischio cardiovascolare del paziente. Gli utenti delle farmacie riceveranno indicazioni sugli stili di vita più opportuni unitamente a una scheda riassuntiva sul proprio profilo di rischio cardiovascolare da consegnare al medico curante per la definizione degli approcci terapeutici più adeguati. Coloro che si mostreranno interessati riceveranno anche informazioni sulla corretta misurazione della pressione arteriosa a livello domiciliare e sull’interpretazione dei valori misurati.

I dati raccolti consentiranno di definire aspetti di notevole interesse scientifico tra cui la reale percezione del proprio profilo di rischio da parte dei pazienti, la prevalenza dei diversi profili di rischio e dei relativi determinanti e le abitudini comportamentali che possono influenzare il rischio cardiovascolare medesimo.

OBESITÀ E MORTALITÀ NEL DIABETICO

L’obesità è un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari e si associa a un’aumentata mortalità per tutte le cause. Quest’ultima relazione non è però del tutto chiara nel paziente diabetico, con alcuni studi che dimostrano addirittura il contrario, ovvero che nel diabetico l’obesità riduce la mortalità rispetto al normopeso. Per cercare di chiarire questo paradosso studiosi sudcoreani hanno condotto un’enorme indagine prospettica in cui hanno esaminato l’associazione tra indice di massa corporea (BMI) e mortalità in soggetti normoglicemici (glicemia a digiuno <100 mg dL), o con alterata glicemia a digiuno (IFG) (100-125 mg dl), diabete di nuova diagnosi (≥126 mg dL), e diabete prevalente (auto-riferito). Quasi 13 milioni di adulti sono stati monitorati per più di 10 anni, durante i quali 454.546 uomini e 239.877 donne sono deceduti.

È stata osservata un’associazione a forma di U tra BMI e mortalità, indipendentemente dalla condizione della glicemia, sesso, età e storia di fumo; la mortalità aumentava al variare del BMI al di sotto o al di sopra di un valore ideale, diverso per ciascuna delle quattro categorie esaminate. Il valore di BMI ideale, associato alla mortalità più bassa, andava aumentando con l’aggravarsi della condizione metabolica: 23,5-27,9 kg/m2 nei soggetti normoglicemici, 25-27,9 kg/m2 in quelli con IFG, 25-29,4 kg/m2 nei diabetici di nuova diagnosi, e 26,5-29,4 kg/m2 in quelli con diabete prevalente. La mortalità aumentava con l’aggravarsi della condizione metabolica negli individui a basso BMI, ma la relazione si invertiva all’aumento del BMI, a conferma che nel paziente diabetico il sovrappeso favorisce la longevità.

Diabetes Care (IF=11.857) April 2017, DOI: https://doi.org/10.2337/dc16-1458

FARMACI INCRETINO-MIMETICI PER IL TRATTAMENTO DEL DIABETE – 1

Il concetto di incretina si sviluppa a partire dagli anni ‘30 del secolo scorso e definisce l’insieme di sostanze endogene, successivamente identificate come ormoni, responsabili del fenomeno per cui la risposta della secrezione di insulina a una dose standard di glucosio è significativamente superiore se lo stesso glucosio viene somministrato per via orale rispetto alla via endovenosa (Figura). Si è successivamente osservato che questo effetto incretinico dipendeva in larga misura dalla secrezione di due ormoni peptidici prodotti nel tratto gastroenterico: il GIP (gastric inhibitory polipeptide), prodotto dalle cellule K di duodeno e digiuno, e il GLP-1 (glucagon-like peptide-1), prodotto dalle cellule L dell’ileo.

GIP e GLP-1 sono simili in quanto la loro produzione viene stimolata dalla ingestione di cibo, aumentano la secrezione pancreatica di insulina in risposta al glucosio, e vengono rapidamente (emivita di 1-2 minuti) degradati a peptidi inattivi dall’enzima DPP-IV (dipeptidil peptidasi-IV). Il GLP-1 ha funzioni aggiuntive, come il rallentamento dello svuotamento gastrico, la soppressione della secrezione pancreatica di glucagone e la riduzione dell’assunzione di cibo. Il GLP-1 svolge anche un’azione diretta sulla cellula beta pancreatica, con stimolo della proliferazione e neogenesi dalle cellule duttali, e riduzione dell’apoptosi, favorendo così la crescita della massa beta-cellulare. Un ulteriore elemento di distinzione tra i due ormoni riguarda la secrezione nel diabete di tipo 2, ridotta per il GLP-1, inalterata per il GIP.

Con l’identificazione del GLP-1 nei primi anni ’80 e la progressiva dimostrazione dei suoi effetti metabolici si è reso attraente un suo possibile impiego terapeutico, soprattutto nel diabete di tipo 2. In effetti il GLP-1, ottenuto in forma ricombinante, si è dimostrato in grado di migliorare significativamente il controllo glicemico in pazienti con diabete di tipo 2.

Tuttavia un trattamento con GLP-1 non poteva rappresentare una terapia applicabile su larga scala a causa della necessità di ricorrere a una infusione continua per ovviare alla breve emivita. Si sono pertanto esplorate diverse possibilità terapeutiche alternative all’infusione di GLP-1, incentrate sul principio di riprodurne l’azione; di qui il termine di incretino-mimetici. Alcuni composti sono recentemente approdati alla pratica clinica, altri sono in fase avanzata di sperimentazione. Sono due le famiglie di farmaci che agiscono con azione incretino-mimetica: ormoni naturali simil-GLP-1 e analoghi sintetici del GLP-1. Una terza famiglia include molecole, non propriamente incretino-mimetiche, che prolungano l’azione del GLP-1 endogeno, inibendo l’enzima DPP-IV. Ve ne parlerò presto.