POCO SONNO E L’ATEROSCLEROSI AUMENTA

Uno studio spagnolo dimostra che le persone che dormono meno di sei ore a notte hanno più probabilità di sviluppare aterosclerosi subclinica rispetto a quelle che riposano sette-otto ore. Nello studio, condotto da Jose Ordovas, ricercatore presso il CNIC di Madrid, 3.974 impiegati di banca (età 45.8±4.3 anni; 62.6% maschi) hanno indossato per una settimana un “activity tracker” per valutare il sonno e sono stati sottoposti a ecografia vascolare in 3D delle femorali e TAC coronarica per valutare rispettivamente aterosclerosi periferica e calcificazioni coronariche. I ricercatori hanno riscontrato che rispetto ai soggetti che dormivano sette-otto ore a notte, coloro che riposavano per meno di sei ore avevano una maggiore aterosclerosi periferica (OR: 1.27; 95% CI: 1.06 to 1.52). I soggetti che dormivano meno tendevano a essere più in là con gli anni, a pesare meno e ad avere livelli di colesterolo e pressione arteriosa più elevati rispetto agli individui che riposavano di più. È stato poi calcolato il rischio a 10 e 30 anni di un grave evento cardiovascolare, utilizzando il calcolatore del rischio di Framingham. Nel complesso, i partecipanti presentavano un rischio cardiovascolare del 5.9% a 10 anni e del 17.7% a 30 anni. Con meno di sei ore di sonno, il rischio a 10 anni sale al 6.9% e quello a 30 anni al 20.9%.

I risultati sottolineano l’importanza di riposare sufficientemente. Un elemento chiave per avere un sonno adeguato è rendere il sonno una priorità, spegnendo TV, computer, tablet e telefono a un’ora ragionevole, coricandosi regolarmente alla stessa ora, prendendosi del tempo per il relax prima di andare a letto ed evitando la caffeina a fine giornata; anche esercizio fisico (non subito prima di coricarsi) e una corretta alimentazione possono migliorare la qualità del sonno.

J Amer Coll Cardiol (IF=16.834) 73:134, 2019

RIDURRE IL COLESTEROLO-LDL MIGLIORA LA FUNZIONE ENDOTELIALE

La disfunzione endoteliale, come già ricordato su questa pagina, rappresenta il primo evento nella patogenesi dell’aterosclerosi. È peraltro noto che un aumento della concentrazione del colesterolo-LDL nel sangue favorisce lo sviluppo della disfunzione endoteliale e che la riduzione del colesterolo-LDL in seguito a trattamento farmacologico, p. es. con statine, migliora la funzionalità dell’endotelio.
Un’ulteriore conferma dell’effetto positivo della riduzione della colesterolemia sull’endotelio viene da un piccolo studio condotto da ricercatori foggiani, che hanno analizzato la funzionalità endoteliale, misurando la vasodilatazione flusso-mediata (FMD)(vedi articoli su www.centrogrossipaoletti.org), in 14 pazienti ipercolesterolemici infartuati trattati con evolocumab, l’anticorpo monoclonale anti-PCSK9.

Dopo due mesi di terapia (140 mg due volte al mese), il colesterolo-LDL è sceso del 59% (da 176 mg/dl a 71 mg/dl). L’FMD è aumentato del 40% (da 6.3% a 8.8%). Il miglioramento della funzionalità endoteliale, evidenziato dall’aumento dell’FMD, è proporzionale alla riduzione del colesterolo-LDL.

Ridurre il colesterolo-LDL, indipendentemente dal farmaco utilizzato, migliora rapidamente la funzionalità endoteliale, contribuendo così alla riduzione degli eventi cardiovascolari.

J Clin Lipidol (IF=3.580) 12:669, 2018

INTERLEUCHINA-1BETA. UN TARGET PER LA PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE?

È ben noto che l’infiammazione è una componente rilevante nei processi aterotrombotici che sono alla base di molti eventi cardiovascolari. Tanto che uno stato infiammatorio cronico, valutato per es. misurando la concentrazione plasmatica di proteina C reattiva, ha un effetto additivo rispetto ai classici fattori di rischio nel predire l’insorgenza di eventi cardiovascolari.

Le citochine costituiscono una classe di proteine coinvolte nell’infiammazione e nell’immunità, e giocano un ruolo importante nell’aterogenesi e in numerose malattie infiammatorie. Tra queste, le interleuchine, secrete dai leucociti, mediano la comunicazione tra vari tipi cellulari e regolano la crescita, differenziazione e motilità cellulare.

L’interleuchina-1 (IL-1) è stata la prima a essere identificata quasi quarant’anni fa. Esiste in due forme correlate strutturalmente: IL-1alfa, che rimane associata alle cellule che la producono e agisce per contatto diretto con altre cellule, e IL-1beta, che invece agisce da mediatore solubile. L’IL-1 esercita molte funzioni nella regolazione delle risposte infiammatorie/immunitarie ed è coinvolta nella patogenesi di varie malattie. Attiva la produzione di prostaglandine e di monossido d’azoto, induce la produzione di sé stessa e di altre citochine, aumenta l’espressione di molecole d’adesione e fattori trombogeni, aumenta la produzione di metalloproteasi, e attiva le cellule del sistema immunitario. Tutte le cellule coinvolte nell’aterogenesi (endoteliali, muscolari, macrofagi) rispondono all’IL-1, attivando processi che favoriscono l’erosione e la rottura degli ateromi. Se ne deduce che limitando l’azione dell’IL-1 si potrebbe ridurre l’insorgenza di eventi cardiovascolari.

FISIOLOGIA DEL MONOSSIDO D’AZOTO

Dalla Sonografista del Centro, Samuela Castelnuovo

Una produzione continua di NO è essenziale per il mantenimento della vasodilatazione nell’uomo. Questa dilatazione basale mediata da NO è stata osservata in diversi distretti arteriosi quali le arterie coronarie epicardiche, il microcircolo coronarico e brachiale e il distretto cerebrale, polmonare e renale. NO è anche implicato in numerosi processi che legano la funzionalità endoteliale all’aggregazione piastrinica, all’adesione e alla migrazione dei leucociti sulla parete arteriosa, all’ossidazione delle LDL, alla proliferazione e alla migrazione delle cellule muscolari lisce, all’espressione di fattori di adesione per i monociti e alla produzione di anione superossido.

Una diminuita produzione di NO ha come conseguenza la vasocostrizione, la perdita dell’attività antitrombotica e la perdita delle capacità di controllo dei processi proliferativi delle cellule muscolari lisce. NO può essere inattivato da parte dei radicali liberi dell’ossigeno, principalmente anione superossido, che può essere prodotto dagli enzimi NAD(P)H ossidasi e xantina ossidasi, ma anche dalla stessa NOS in assenza del substrato (L-arginina) o di cofattori come la tetraidrobiopterina (BH4). L’anione superossido reagisce con NO formando perossinitrito (ONOO), potente ossidante che può attenuare la risposta fisiologica mediata dall’NO stesso e produrre effetti inibitori irreversibili nella funzionalità mitocondriale. L’aumento di radicali liberi dell’ossigeno porta, inoltre, alla formazione di LDL ossidate, che, a loro volta, riducono i livelli di NO, sia in modo diretto formando perossinitriti lipidici o in modo indiretto, diminuendo l’espressione di eNOS tramite destabilizzazione dell’mRNA. Una diminuita biodisponibilità di NO promuove la trombogenicità, la migrazione e l’adesione piastrinica sulla superficie endoteliale e un’amplificazione della risposta infiammatoria.

Numerosi studi hanno dimostrato come fattori di rischio cardiovascolari, ipercolesterolemia, ipertensione, diabete, iperomocisteinemia e fumo siano in grado di interferire con l’attività dell’NO con conseguente alterazione della funzionalità vascolare, definita “disfunzione endoteliale”, caratterizzata dall’espressione di molecole adesive alla superficie cellulare e dalla compromissione dell’attività endocrino-paracrina dell’endotelio, con secrezione di sostanze biologicamente attive (citochine, fattori di crescita, radicali liberi, ecc.), che, a loro volta, sono responsabili dell’attivazione dei leucociti e del controllo del tono vasale.

METABOLISMO DEL MONOSSIDO D’AZOTO

Dalla Sonografista del Centro, Samuela Castelnuovo

Il monossido d’azoto (NO) è il principale fattore di regolazione della funzionalità endoteliale ed è stato il primo fattore di cui si è studiato il ruolo nella regolazione del tono vasale. Agli inizi degli anni ‘80 Furchgott e Zawadzki osservarono come l’acetilcolina fosse in grado di indurre rilassamento di preparati di aorta di coniglio, inducendo il rilascio da parte delle cellule endoteliali di una sostanza labile e diffusibile definita inizialmente fattore di rilassamento derivato dall’endotelio (endothelium-derived relaxing factor, EDRF). Questa vasodilatazione avveniva solo in presenza di endotelio integro: se l’endotelio era rimosso, con metodiche meccaniche o enzimatiche, l’acetilcolina non era più in grado di indurre rilassamento e causava vasocostrizione per stimolazione diretta delle cellule muscolari lisce. Successivamente Furchgott e Ignarro identificarono nel monossido d’azoto questo vasodilatatore endogeno responsabile del rilassamento endotelio-dipendente. I prodotti dell’infiammazione e dell’aggregazione piastrinica, come serotonina, istamina, bradichinina, purine e trombina esercitano tutta o parte della loro azione stimolando il rilascio di monossido d’azoto.

L’NO è sintetizzato a partire da L-arginina e ossigeno molecolare per opera dell’enzima nitrossido sintetasi (NOS), che catalizza l’ossidazione dell’azoto contenuto nella L-arginina, producendo NO e citrullina. La NOS è costituita da un omodimero e ciascuna molecola presenta: a) un dominio C-terminale ad azione riducente, contenente i cofattori nicotinammide adenin dinucleotide fosfato (NADPH) e flavin adenin dinucleotide (FAD); b) un dominio N-terminale ad azione ossidante, contenente eme e il cofattire tetraidrobiopterina (BH4); c) un dominio di legame per la Ca-calmodulina (Ca-CAM). Si conoscono almeno tre isoforme di NOS con localizzazione specifica: la nNOS, localizzata prevalentemente nei neuroni del sistema nervoso centrale e periferico e nel muscolo scheletrico; la iNOS, presente in molti tipi cellulari, fra cui cellule muscolari lisce, endotelio e macrofagi; la eNOS, presente nell’endotelio vascolare, nelle piastrine, nei miociti cardiaci e nei neuroni dell’ippocampo. Le isoforme nNOS ed eNOS sono calcio-sensibili, in quanto caratterizzate da un’attività basale modulata dai livelli di calcio intracellulare, mentre la iNOS produce NO in modo calcio indipendente. Nelle cellule, nNOS ed eNOS sono espresse in modo costitutivo, mentre la iNOS, detta appunto “inducibile”, è espressa solamente quando indotta a livello trascrizionale da stimoli specifici come le citochine. Nelle cellule vascolari, la iNOS è espressa in condizioni di infiammazione o infezione e, una volta stimolata, produce elevate quantità di NO. L’endotelio vascolare produce NO grazie sia all’attività di eNOS che di iNOS; è tuttavia da sottolineare che solo la eNOS è responsabile della vasodilatazione NO-mediata.

Grazie alla sua natura di gas e alle sue caratteristiche lipofile, l’NO generato nella cellula endoteliale diffonde facilmente verso la muscolatura liscia sottostante dove innesca un processo di rilassamento vasale. In particolare, NO attiva la guanilato ciclasi che aumenta la concentrazione intracellulare di GMP-ciclico (c-GMP). Il c-GMP attiva la proteina chinasi GMP-ciclico dipendente o PKG che fosforila proteine bersaglio, provocando una diminuzione dei livelli di calcio intracellulare e un conseguente rilassamento della muscolatura liscia.

NO è un composto altamente instabile e quindi la sua azione è di breve durata; infatti, dopo pochi secondi dalla sua formazione, è ossidato a nitrito oppure a nitrato.

Oltre a regolare la funzionalità endoteliale, NO ha altre numerose importanti funzioni: nel sistema immunitario costituisce un importante effettore della citotossicità indotta dai macrofagi, mentre nei neuroni agisce come mediatore del potenziamento sinaptico a lungo termine della neurotrasmissione non-adrenergica e non-colinergica. Come già detto, non va dimenticato che NO gioca anche un ruolo importante nell’inibizione dell’adesione e dell’aggregazione piastrinica. NO è anche in grado di interagire con altri target come DNA, tioli, gruppo eme o altre proteine contenenti ferro. Infine, interagendo con gli enzimi della catena respiratoria, NO è in grado di modulare la respirazione mitocondriale tissutale.

COS’È LA DISFUNZIONE ENDOTELIALE?

L’endotelio forma il rivestimento interno di arterie e vene, nonché la parete dei capillari. Non costituisce solo una barriera di separazione tra il compartimento ematico e quello tissutale, ma è un vero e proprio organo capace di svolgere un ruolo chiave nella modulazione del tono vascolare, nell’inibizione dell’aggregazione piastrinica, nella proliferazione della muscolatura liscia vascolare e, in determinate condizioni, anche nell’angiogenesi.

In risposta a stimoli fisici e chimici, l’endotelio è in grado di rilasciare numerose sostanze vasoattive. Tra queste sono incluse: il monossido d’azoto (NO), le endoteline, diverse prostaglandine tra cui la prostaciclina, il fattore di crescita endoteliale, il fattore attivante le piastrine (PAF), le molecole di adesione cellulare (VCAM ed ICAM), le citochine, lo ione superossido, l’attivatore tissutale del plasminogeno (tPA), l’inibitore dell’attivatore del plasminogeno (PAI 1), il trombossano A2 ed il fattore Von Willebrand. Parte di queste sostanze sono secrete dalle cellule endoteliali e agiscono su cellule della parete vasale site nelle immediate vicinanze (azione paracrina) o sono immesse in circolo per un’azione a distanza (azione endocrina). Altre molecole prodotte dall’endotelio esplicano la loro azione rimanendo legate alla superficie delle cellule endoteliali che le hanno prodotte: questo è il caso delle molecole di adesione per i leucociti o per quelle coinvolte nella coagulazione. Alcune di queste sostanze sono prodotte costitutivamente, ovvero in condizioni basali in assenza di stimoli, altre in seguito all’attivazione da parte di stimoli spesso di tipo infiammatorio.

Quando la capacità delle cellule endoteliali di elaborare le sostanze prodotte in condizioni fisiologiche è compromessa, si sviluppa una disfunzione endoteliale, che può essere misurata valutando la capacità delle arterie di dilatarsi in risposta a opportuni stimoli. Nelle prossime settimane vedremo come.

 

PSORIASI E ATEROSCLEROSI CORONARICA

La psoriasi è una malattia infiammatoria cronica della pelle, non infettiva né contagiosa, a carattere cronico e recidivante. La pelle si accumula rapidamente e si ispessisce nelle zone interessate dalle lesioni conferendo un aspetto squamoso bianco-argenteo (figura). Anche se il disturbo può comparire in qualsiasi zona del corpo, in genere si localizza in corrispondenza di gomiti, ginocchia, cuoio capelluto, parte lombare della schiena, palmi delle mani e piante dei piedi, e in regione genitale (figura). La malattia, ad andamento cronico e ricorrente, è variabile nell’estensione dell’interessamento cutaneo; alcuni soggetti sono affetti da un numero molto limitato di piccole chiazze, altri hanno il corpo quasi completamente coperto da lesioni.

La psoriasi è un modello umano ideale per studiare la relazione tra infiammazione cronica e aterosclerosi coronarica in vivo. I ricercatori coordinati da Joseph B. Lerman del National Institutes of Health, Bethesda, USA hanno confrontato la prevalenza di placche coronariche, di placche non calcificate (NCP) e di placche ad alto rischio di rottura (HRP) in pazienti con psoriasi (n=105), pazienti iperlipidemici ammissibili alla terapia statinica (n=100) e volontari sani non affetti da psoriasi (HV) (n 25). Nonostante i pazienti psoriasici fossero di dieci anni più giovani e avessero un minor rischio cardiovascolare, la prevalenza di NCB era maggiore e quella di HRP uguale a quella riscontrata nei pazienti iperlipidemici. Rispetto ai volontari sani, i pazienti psoriasici avevano un maggior numero di placche coronariche, di NCP e di HRP. Inoltre, la regressione della malattia psoriasica indotta dalla terapia si associava a una riduzione delle placche coronariche.

Lo studio conferma che l’infiammazione cronica gioca un ruolo rilevante nello sviluppo di aterosclerosi coronarica e dimostra che il controllo dei siti remoti di infiammazione può tradursi in un ridotto rischio cardiopatia.

Circulation (IF=19.309) 136:263,2017

DETERMINANTI AMBIENTALI DI ATEROSCLEROSI. IL FUMO DI SIGARETTA

Dall’ultrasonografista del Centro, Samuela Castelnuovo

Il fumo di sigaretta rappresenta uno dei più importanti fattori di rischio modificabili dell’aterosclerosi ed è fortemente associato alla malattia coronarica, cerebrovascolare e periferica. L’importanza di questo fattore di rischio emerge non solo dalla sua associazione con le malattie vascolari, ma anche dal fatto che è stato dimostrato esserne un importante agente causale. Il fumo incrementa di circa tre volte il rischio di mortalità per cause anche non cardiovascolari. Le evoluzioni più gravi della malattia si osservano, inoltre, in una percentuale sensibilmente maggiore nei fumatori rispetto ai non fumatori. Il fumo aumenta il rischio di occlusione dei by-pass dopo chirurgia arteriosa ricostruttiva ed è particolarmente dannoso nelle persone che hanno un rischio di patologie cardiovascolari aumentato per altre ragioni. Il Framingham Heart Study ha dimostrato che l’effetto del fumo è dose dipendente. Il rischio di eventi vascolari aumenta, infatti, all’aumentare del numero di sigarette fumate al giorno, degli anni di abitudine al fumo e dell’età in cui il soggetto ha iniziato a fumare. Uomini e donne sono entrambi suscettibili, anche se nelle donne il rischio può essere più elevato.

Il fumo aumenta l’ossidazione delle LDL, riduce i livelli di HDL colesterolo, aumenta il monossido di carbonio ematico (con possibile ipossia endoteliale) e favorisce la vasocostrizione delle arterie già ristrette a causa della patologia aterosclerotica. Aumenta poi la reattività piastrinica (con possibile formazione di un trombo), la concentrazione ematica di fibrinogeno e l’ematocrito (con un conseguente aumento della viscosità ematica) e favorisce lo sviluppo del danno endoteliale. Anche il fumo passivo può aumentare il rischio di malattia coronarica. Nei soggetti non fumatori esposti al fumo ambientale si sviluppa una disfunzione endoteliale sia coronarica che brachiale, e aumenta lo spessore del complesso medio-intimale delle arterie carotidi (C-IMT), un marcatore precoce di aterosclerosi.

La cessazione del fumo porta riduce il rischio cardiovascolare e la mortalità. L’effetto positivo compare rapidamente e cresce all’aumentare del periodo trascorso dalla cessazione del fumo; dopo 3 anni, il rischio si avvicina a quello degli individui che non hanno mai fumato.

In tempi relativamente recenti sono state introdotte sul mercato e rapidamente diffuse le cosiddette sigarette elettroniche. L’associazione tra utilizzo di questi prodotti e rischio cardiovascolare è ancora incerta. Ve ne parlerò presto.

COME SI VALUTA LO SVILUPPO DELL’ATEROSCLEROSI NELL’UOMO? LO SPESSORE DEL COMPLESSO MEDIO-INTIMALE (IMT)

Dall’ultrasonografista del Centro, Samuela Castelnuovo

Uno dei parametri più utilizzati per la valutazione dell’aterosclerosi e della sua progressione è lo spessore del complesso medio-intimale (IMT dall’inglese “Intima-Media Thickness”) delle carotidi extracraniche, che può essere misurato con l’ultrasonografia B-mode (vedi articoli precedenti).

Corrisponde alla distanza tra le interfacce “sangue-intima” e “media-avventizia” delle arterie carotidee. Analizzando ecograficamente una parete arteriosa si orservano due linee ecogene parallele separate da uno spazio anecoico; la linea ecogena più luminale è generata dall’interfaccia sangue-intima, mentre quella più esterna è generata dall’interfaccia media-avventizia (figura. CC-IMT: IMT della carotide comune; ICA: carotide interna; ECA: carotide esterna). La corrispondenza anatomica fra l’immagine ultrasonografica e il complesso medio-intimale è stata definita dai ricercatori del Centro più di trent’anni fa in uno studio dove si dimostrava che l’IMT misurato ecograficamente rappresentava una stima reale dello spessore della parete arteriosa (Circulation 74:1399,1986). Nel corso del processo aterosclerotico il complesso medio-intimale tende a ispessirsi formando prima le strie lipidiche, poi le placche fibrose o fibro-lipidiche, e infine le lesioni aterosclerotiche vere e proprie. Pertanto, un aumento dell’IMT riflette un maggiore sviluppo dell’aterosclerosi.

Come già ricordato, la metodica ultrasonografica utilizzata per la misurazione dell’IMT è assolutamente non invasiva, e può essere ripetuta molte volte senza alcun danno al paziente. Questo metodo, validato in centri clinici di tutto il mondo, è attualmente utilizzato in numerosi studi clinici ed epidemiologici, ed è considerato come metodo di riferimento per lo studio dell’aterosclerosi carotidea e per la valutazione del rischio cadiovascolare. Oltre alla non invasività e alla relativa semplicità della misurazione, il grande vantaggio dell’IMT carotideo è che permette una valutazione della predisposizione dell’individuo a sviluppare la patologia aterosclerotica estremamente precoce, ben prima della comparsa delle lesioni aterosclerotiche vere e proprie (placche).

L’IMT carotideo è un indice di aterosclerosi non solo carotidea, ma anche di altri distretti vascolari e in particolare di quello coronarico. L’IMT è direttamente associato alla maggior parte dei fattori di rischio cardiovascolare, quali diabete, dislipidemia e ipertensione. Fornisce un quadro complessivo delle alterazioni strutturali causate dai diversi fattori di rischio nel tempo sulla parete arteriosa ed è stato proposto esso stesso come fattore di rischio da includere in algoritmi per il calcolo del rischio cardiovascolare globale di ciascun individuo. Sulla base di tutte queste evidenze la misura dell’IMT carotideo è attualmente utilizzata in centri clinici e di ricerca per aiutare il medico nella decisione di prescrivere o meno un trattamento farmacologico in pazienti in prevenzione primaria.

ECOTOMOGRAFIA B-MODE AD ALTA RISOLUZIONE PER LA VALUTAZIONE DELL’ATEROSCLEROSI

Dall’ultrasonografista del Centro, Samuela Castelnuovo

L’ultrasonografia B-Mode è una tecnica diagnostica non invasiva che consente di studiare l’aterosclerosi subclinica nei principali distretti vascolari superficiali. Con questa tecnica è possibile ottenere informazioni morfologiche relative sia al lume che alla parete vasale. L’ecotomografia B-Mode ad alta risoluzione utilizza ultrasuoni ad elevata frequenza (7-13 Mhz) e consente di ottenere, in tempo reale, immagini bidimensionali dei principali vasi sanguigni superficiali non schermati da superfici ossee. Tale tecnica fornisce informazioni dettagliate anche su dimensione e caratteristiche di lesioni precoci delle pareti vasali anche se di piccole dimensioni. L’ultrasonografia B-Mode presenta caratteristiche più che soddisfacenti di sensibilità, specificità, accuratezza e riproducibilità. È sicuramente più economica delle tecniche invasive e consente di eseguire valutazioni molto precise dell’evoluzione della patologia aterosclerotica e dell’effetto di trattamenti antiaterosclerotici. Fra i limiti di questa tecnica possiamo annoverare l’impossibilità di visualizzare strutture che non riflettono gli ultrasuoni (anecogene, aree prettamente lipidiche) o strutture con impedenza acustica simile a quella del sangue (emorragie intraplacca od occlusioni trombotiche recenti). Infine, l’eventuale presenza di lesioni calcifiche e/o complicate rende tale tecnica inadatta per la misurazione di stenosi calcifiche. In questo caso sono da preferirsi l’ecocolordoppler e l’angiografia.

In una tipica immagine ultrasonografica, l’anatomia delle arterie carotidi è facilmente riconoscibile. Possiamo osservare, infatti, la carotide comune, la biforcazione e le arterie carotidi interna ed esterna (Figura). Dal punto di vista ultrasonografico il limite distale della carotide comune è riconoscibile dall’inizio della dilatazione della biforcazione e dalla presenza di un ispessimento medio-intimale fisiologico denominato “cresta della biforcazione”. La carotide comune si suddivide, tramite la biforcazione, nella carotide interna, che irrora le parti anteriori dell’encefalo e gli organi della vista, e carotide esterna che irrora collo, faccia e pareti craniche. La biforcazione carotidea ha due riferimenti anatomici chiave che ne permettono la corretta identificazione. II margine inferiore della biforcazione carotidea è definito dalla parte prossimale della dilatazione della biforcazione, il limite superiore è dato dal cosiddetto “flow-divider” che separa l’origine delle arterie interna ed esterna. La carotide interna è delimitata a livello prossimale dal flow-divider e si differenzia dalla carotide esterna per il calibro maggiore e per l’origine con morfologia tipicamente bulbare. La diramazione dell’arteria tiroidea dall’arteria carotide esterna è un altro indice che permette la distinzione tra le due arterie.