BENVENUTO AL PRIMO CODICE DEONTOLOGICO PER GLI INTEGRATORI ALIMENTARI

Su questa pagina abbiamo spesso lamentato lo scarso controllo da parte delle agenzie regolatorie a esso preposte (EFSA in Europa e FDA negli Stati Uniti) su produzione e commercio degli integratori alimentari (o nutraceutici). Benvenuto quindi al codice del gruppo “Integratori Italia” dell’AIIPA (Associazione Italiana Industrie Prodotti Alimentari), ideato per regolamentare i rapporti su un piano etico e deontologico tra le aziende produttrici e i consumatori, il mondo scientifico e sanitario, le onlus di settore, le associazioni dei pazienti e le imprese concorrenti (http://www.integratoriitalia.it/codice-deontologico/).

È ovvio che l’adozione di un tale Codice da parte delle aziende produttrici di integratori non può supplire a una maggiore regolamentazione e a un più esteso e capillare controllo da parte delle Agenzie Governative, ma…..ben vengano iniziative di questo tipo!

IL CAFFÈ ALLUNGA LA VITA?

Si direbbe di sì. Almeno questa è la conclusione cui sono giunti i ricercatori di 10 Paesi europei coordinati da M.J. Gunter dell’International Agency for Research on Cancer di Lione. Non essendo chiara la relazione tra consumo di caffè e mortalità in varie popolazioni europee, che utilizzano metodi diversi per la preparazione del caffè, i ricercatori hanno esaminato se il consumo di caffè fosse associato alla mortalità per tutte le cause e per cause specifiche. Per far ciò, hanno analizzato i dati dello studio EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition), uno studio di coorte prospettico in 10 Paesi europei, che ha coinvolto 521.330 individui. Durante il follow-up medio di 16.4 anni, si sono verificati 41.693 decessi. Non sorprende che il consumo di caffè (valutato in ml/giorno) fosse decisamente inferiore in Italia (90 ml/giorno)(l’espresso!) che non, p. es. in Danimarca (dieci volte tanto! 900 ml/giorno). Dopo aggiustamento per una serie di fattori confondenti, si è osservato che, rispetto ai non consumatori, i partecipanti di tutti i 10 Paesi che si collocavano nel quartile più elevato di consumo di caffè (media 855 e 684 ml/giorno per maschi e femmine) avevano tassi di mortalità per tutte le cause significativamente più bassi del 12% nei maschi e del 7% nelle femmine. Non sono state riscontrate differenze tra partecipanti di diversi Paesi, a suggerire che il metodo di preparazione del caffè non influenza l’effetto sulla riduzione della mortalità, che peraltro non cambia anche quando si separano gli individui che consumano caffè decaffeinato o con caffeina.
Il maggior consumo di caffè era associato a una riduzione della mortalità per malattie dell’apparato digerente, epatiche, cardio- e cerebro-vascolari. Complessa la relazione tra consumo di caffè e cancro. L’associazione con la mortalità per cancro (qualsiasi tipo) non era significativa nei maschi, ma era positiva nelle femmine (maggior consumo di caffè = aumento della mortalità), nelle quali il consumo di caffè era associato a un aumento della mortalità per cancro all’ovaio.
Un elevato consumo di caffè si accompagnava a riduzioni in una serie di biomarcatori del metabolismo epatico, lipidico, glucidico e dell’infiammazione, a suggerire la coesistenza di molteplici meccanismi sottesi all’effetto protettivo di questa bevanda.

Ann Intern Med (IF=17.202) 167:236-381,2017

DIABETE MELLITO NELL’ADULTO. RICERCATORI SCANDINAVI PROPONGONO NUOVA CLASSIFICAZIONE A 5 GRUPPI

Un gruppo di ricercatori scandinavi coordinato da Leif Groop, della Lund University di Malmo, propone una rivoluzione nella classificazione delle varie forme di diabete mellito nell’adulto (quello comunemente detto di tipo 2). Secondo gli autori, mentre la diagnosi di diabete si basa sulla misurazione della glicemia, i pazienti presentano diverse manifestazioni cliniche della malattia, diversi tassi di progressione e complicanze. Per sviluppare la loro proposta, gli autori hanno esaminato quasi 9000 pazienti con nuova diagnosi di diabete mellito, e preso in considerazione sei caratteristiche comunemente misurate nei pazienti diabetici: età alla diagnosi, indice di massa corporea, livello di emoglobina glicata e di anticorpi anti decarbossilasi dell’acido glutammico (GADA), la stima di funzionalità delle cellule beta attraverso l’homeostatic model assessment 2 (HOMA-2), e la resistenza all’insulina. Hanno quindi confrontato i risultati ottenuti con quelli di diverse popolazioni di pazienti diabetici, dalla Svezia alla Finlandia.

L’analisi delle diverse caratteristiche ha consentito di identificare cinque gruppi di pazienti. Il gruppo 1 è caratterizzato da malattia a insorgenza precoce, indice di massa corporea relativamente basso, scarso controllo metabolico, carenza di insulina e presenza di GADA, un cosiddetto “grave diabete autoimmune”. Il gruppo 2 è simile al precedente, ma con GADA negativi, ed  è stato classificato come “grave diabete insulino-carente”. Il gruppo 3 è caratterizzato da insulino-resistenza e alto indice di massa corporea, ed è stato classificato come “diabete insulino-resistente”. Il gruppo 4 è caratterizzato da obesità non accompagnata da marcata insulino-resistenza, ed è stato classificato come” lieve diabete correlato all’obesità”. Infine, il gruppo 5, che includeva pazienti più anziani con una modesta alterazione metabolica, è stato classificato come “diabete lieve correlato all’età”.
I gruppi 1 e 2 hanno mostrato livelli di emoglobina glicata sostanzialmente più elevati e una maggior prevalenza di chetoacidosi al momento della diagnosi. Il rischio di sviluppare una retinopatia diabetica è più elevato nel gruppo 2, mentre il gruppo 3 ha mostrato una più alta prevalenza di steatosi epatica non alcoolica e un maggior rischio di sviluppare una malattia renale cronica. Gli autori propongono questa nuova classificazione nel tentativo di ottimizzare l’approccio terapeutico a pazienti con quadri dismetabolici diversi.

Lancet Diabetes Endocrinol (IF=19.742) 2018 Mar 1. pii: S2213-8587(18)30051-2.

CONFORT FOOD: TORTA SACHER

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

E’ forse la torta di cioccolato più famosa al mondo. I turisti in visita alla città di Vienna non tralasciano di assaggiare questo dolce proprio all’Hotel Sacher, che custodisce ancora la ricetta originale e la protegge religiosamente, essendo una delle torte in assoluto più imitate. E’ composta da due dischi di pan di spagna al cioccolato rigorosamente farciti con marmellata di albicocche e interamente ricoperti di glassa al cioccolato fondente. Si racconta che nel 1832 il dolce fu presentato per la prima volta da un giovanissimo pasticciere, Franz Sacher, alla Corte imperiale: il cancelliere Metternich aveva richiesto per un pranzo ufficiale un dessert capace di sorprendere gli ospiti. La torta ebbe un successo clamoroso, diffondendosi presto in tutta l’Austria. Ovviamente è una torta ricca di zuccheri, grassi, non certo indicata nelle diete; sicuramente però, ogni tanto, può giovare al nostro buonumore!

100 gr. di torta. Kcal 315; carboidrati 36.8 g; proteine 4.9 g; lipidi 17.5 g (saturi 6.97 g; polinsaturi 2.64 g; monoinsaturi 6.87 g); fibra 3.60 g.

ODYSSEY OUTCOME TRIAL. NEI PAZIENTI CON SINDROME CORONARICA ACUTA RECENTE L’ANTICORPO ANTI-PCSK9 ALIROCUMAB RIDUCE GLI EVENTI CARDIOVASCOLARI E LA MORTALITÀ PER TUTTE LE CAUSE, ED È BEN TOLLERATO

Queste sono le conclusioni presentate al Congresso annuale dell’American College of Cardiology (ACC), tenutosi a Orlando la scorsa settimana, da Gabriel Steg, principal investigator dello studio. I pazienti che hanno avuto una sindrome coronarica acuta (SCA) sono ad alto rischio di nuovi eventi cardiovascolari ischemici (CV). Un indice predittore di tali eventi è il livello residuo di LDL-colesterolo (LDL-C) durante trattamento con statine. Dal momento che l’inibizione della proproteina convertasi subtilisina kexina tipo 9 (PCSK9) è un efficace mezzo per abbassare la concentrazione di LDL-C nei pazienti trattati in modo ottimale con statine, i ricercatori hanno voluto valutare l’ipotesi che il trattamento con Alirocumab, anticorpo monoclonale completamente umano inibitore di PCSK9, riduca gli eventi cardiovascolari ischemici rispetto al placebo. Sono stati inclusi 18.924 pazienti con SCA recente (entro 12 mesi). I pazienti erano in trattamento con atorvastatina 40-80 mg die o rosuvastatina 20-40 mg die o la dose massima tollerata di una statina e presentavano LDL-C ≥70 mg/dl o non-HDL-C ≥100 mg/dl o apolipoproteina B ≥80 mg/ dL. I pazienti sono stati randomizzati al trattamento con alirocumab 75 mg sc 2 settimane (Q2W) o placebo. La dose di Alirocumab veniva incrementata a 150 mg Q2W nei pazienti che non raggiungevano il valore-target di LDL-C <50 mg/dl.

A un follow-up medio di 2.8 anni (quasi la metà dei più comuni trials di prevenzione cardiovascolare con farmaci ipolipidemizzanti) i valori medi di LDL-C erano di 53.3 mg/dl nei pazienti trattati con Alirocumab e di 101.4 mg/dl in quelli che hanno assunto placebo. Questa riduzione dell’LDL-C è associata a una diminuzione del 14% degli infarti non fatali, del 27% degli eventi cerebrali, del 39% degli episodi di angina. La mortalità totale è diminuita del 15%, ma la riduzione della mortalità cardiovascolare (-13%) non ha raggiunto la significatività statistica. Il beneficio maggiore, in termini di riduzione degli end-points clinici, è stato riscontrato nei pazienti con LDL-C >100 mg/dl all’arruolamento (nei quali era significativa anche la riduzione della mortalità cardiovascolare). Il trattamento con Alirocumab è stato ben tollerato, con l’unico effetto collaterale di modeste reazioni al sito di somministrazione.

Risultati simili sono scaturiti dallo studio FOURIER con Evolocumab, un altro anticorpo monoclonale anti-PCSK9, presentati allo stesso congresso lo scorso anno. Si conferma quindi che inibire con anticorpi monoclonali PCSK9 rappresenta una strategia valida e sicura per ridurre ulteriormente i valori di LDL-C, prevenire nuovi eventi cardiovascolari e prolungare la vita in pazienti con SCA già in trattamento ottimale con statine.

OMS. MALATTIE CARDIOVASCOLARI, CANCRO E DIABETE: SENZA ATTIVITÀ FISICA IL RISCHIO DI MORTE SALE DEL 20-30%.

Un adulto su quattro nel mondo non fa attività fisica e tra gli adolescenti è inattivo fisicamente oltre l’80% dei ragazzi. Eppure un minimo di attività fisica (anche non sportiva) è capace di ridurre sensibilmente il rischio di morte prematura per molte malattie come quelle cardiovascolari, il cancro e il diabete. Al contrario la sedentarietà può portare a un aumento dal 20 al 30% della mortalità
L’allarme è lanciato ancora una volta dall’OMS, che ricorda come sia stato pianificato a livello globale l’obiettivo di guadagnare al movimento fisico almeno un 10% di sedentari entro il 2025. Per farlo, ricorda l’OMS, servono politiche incentivanti e sensibilizzanti, considerando che attualmente solo il 56% degli Stati membri è già impegnato in tal senso.
Intendiamoci, l’OMS non vuole un mondo di “atleti”; per “attività fisica” si intende infatti un qualsiasi movimento corporeo che richiede un dispendio energetico, comprese le attività intraprese durante il lavoro, il gioco, lo svolgimento di lavori domestici, il turismo e il coinvolgimento in attività ricreative.
Muoversi fa bene a tutte le età e l’OMS ha preparato uno schema riassuntivo di raccomandazioni disegnate per tutti, dai 5 ai 65 anni e più.
Bambini e adolescenti dai 5 ai 17 anni. Fare almeno 60 minuti di attività fisica da moderata a intensa ogni giorno; essere attivi anche oltre 60 minuti fornirà ulteriori benefici per la salute; includere anche attività che rafforzano muscoli e articolazioni almeno 3 volte a settimana.
Adulti tra 18 e 64 anni. Minimo 75 minuti a settimana di attività fisica, ma la soglia media consigliata è quella di 150 minuti a settimana; tuttavia per ottenere reali benefici in grado di incidere sulla salute bisognerebbe arrivare a 300 minuti a settimana.
Adulti di età pari o superiore a 65 anni Per gli ultrasessantacinquenni in buona forma stesse soglie consigliate ai più giovani (75-150-300). Per chi ha scarsa mobilità il consiglio è comunque quello di fare movimento 3 o più giorni alla settimana, anche se controllato, utile a migliorare l’equilibrio e prevenire cadute.
Livelli regolari e adeguati di attività fisica possono: migliorare la forma fisica muscolare e cardiorespiratoria; migliorare le articolazioni e la salute funzionale; ridurre il rischio di ipertensione, cardiopatia ischemica, ictus, diabete, vari tipi di cancro (incluso cancro alla mammella e tumore del colon) e depressione; ridurre il rischio di cadute e fratture dell’anca o vertebrali.

OMS. UN MONDO DI SEDENTARI? I PIÙ INATTIVI SONO GLI ADOLESCENTI

I dati OMS indicano che circa un quarto della popolazione è sedentaria e non compie alcuna attività fisica, più le donne (27%) che gli uomini (20%).
Numeri che salgono nei Paesi ricchi dove a non muoversi sono il 26% degli uomini e il 35% delle donne, rispetto al 12% degli uomini e al 24% delle donne nei paesi a basso reddito.
Il calo dell’attività fisica è in parte dovuto all’inattività durante il tempo libero e al comportamento sedentario sul posto di lavoro e a casa. Allo stesso modo, un aumento dell’uso di modalità di trasporto “passive” contribuisce anche a un’attività fisica insufficiente.
E gli adolescenti? I dati indicano una platea adolescenziale che non ama fare attività fisica e che vede una preoccupante sedentarietà nell’81% degli adolescenti di età compresa tra 11 e 17 anni, più le ragazze (84%) che i ragazzi (78%)
La colpa, spiega l’OMS, è imputabile a diversi fattori, di cui molti legati all’urbanizzazione: traffico ad alta densità; bassa qualità dell’aria, inquinamento; mancanza di parchi, marciapiedi e strutture sportive/ricreative; paura della violenza e della criminalità nelle aree periferiche.
Che fare? Diverse le politiche e le azioni da attuare: camminare e andare in bicicletta come forme di trasporto attive da rendere accessibili e sicure per tutti; implementare politiche del lavoro e sul posto di lavoro che incoraggino l’attività fisica; attrezzare le scuole con spazi sicuri e strutture adeguate per consentire agli studenti di trascorrere il loro tempo libero attivamente; aumentare le strutture sportive e ricreative che offrano a tutti l’opportunità di praticare sport.
Si tratta di politiche complesse che richiedono investimenti e azioni concrete e che sulla carta hanno visto predisporre piani ad hoc in otto paesi su dieci dell’OMS, ma che in realtà risultano attive in poco più della metà (56%).
Del resto è dal 2013 che l’OMS ha aggiornato i suoi obiettivi in questo campo, fissando un target neanche troppo ambizioso per il 2025, con la riduzione di almeno il 10% del numero dei soggetti inattivi. E ora è al lavoro per un ulteriore sviluppo del Piano cercando di coordinare ancora meglio gli sforzi con tutte le parti interessate, tenendo conto delle attuali conoscenze scientifiche, delle prove disponibili, dell’esame di esperienze, innovazioni e dei nuovi dati internazionali.

STREET FOOD: HOT DOG

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

L’ “hot dog” è tra i panini forse il più famoso al mondo. Si tratta di un panino dalla forma allungata farcito con un wustel e condito con salse varie. La sua origine risale addirittura al trecento, in Germania, quando per festeggiare l’incoronazione dell’imperatore Maximilian II vennero distribuiti dei panini ripieni di salsicce chiamate “dachshund“ perché la loro forma allungata ricordava un cane tedesco di razza, il bassotto. Altra tradizione attribuisce la nascita del curioso nome alla forma del “dente di arresto” (in inglese”cane”) che bloccava le rotaie alle traversine di legno. Importato negli Stati Uniti dagli immigrati tedeschi, la sua popolarità esplose solo nel XX secolo quando fuori dagli stadi di football i “dachshund hot” cominciarono ad essere distribuiti ai numerosi tifosi. Al giorno d’oggi esistono negli Stati Uniti numerose catene che distribuiscono il prodotto in strada su larga scala con i loro carrettini ambulanti. Esse generano un fatturato che non ha nulla da invidiare a quello di rinomati ristoranti, tanto che alcune sono addirittura quotate in borsa.

Un panino. Kcal 500,76; carboidrati 29,60 g; proteine 19,67 g; lipidi 33,80 g (saturi 8,73 g; polinsaturi 8,44 g; monoinsaturi 12,22 g; fibra 1,10 g.

SETTIMANA BIANCA. COME SALIRE IN QUOTA SENZA CORRERE RISCHI PER IL CUORE

È la stagione dello sci e delle settimane bianche. Sono migliaia le persone che, ogni anno e soprattutto in questi mesi, vanno oltre i 2.500 metri di altezza. Sull’European Heart Journal sono state pubblicate le raccomandazioni per l’esposizione ad alta quota di persone con malattie cardiovascolari (insufficienza cardiaca, cardiopatia ischemica, ipertensione arteriosa, aritmie cardiache, ipertensione polmonare, cardiopatie congenite, malattie cerebrovascolari, come ictus e TIA, valvulopatie cardiache, o problemi di coagulazione del sangue e trombosi). Un documento redatto da un gruppo internazionale di esperti destinato ai medici, ma realizzato per rispondere ai dubbi di chi ama la montagna e non intende rinunciarci anche se soffre di una patologia cardiovascolare.
Cosa succede all’apparato cardiocircolatorio quando si va tanto in alto? Con l’aumento dell’altitudine si riduce la pressione atmosferica e di conseguenza diminuisce la pressione di ossigeno nell’aria. Si viene cioè a creare un ambiente ‘ipossico’ in cui la tolleranza all’esercizio fisico si riduce. In queste condizioni è piuttosto comune la comparsa del cosiddetto ‘mal di montagna’, ovvero la manifestazione della difficoltà di adattamento dell’organismo all’alta quota, che si manifesta con cefalea, nausea, affaticabilità e disturbi del sonno. É una condizione benigna e transitoria ma che qualche volta può evolvere in forme più gravi, in particolare se si hanno patologie cardiocircolatorie.
La riduzione della pressione di ossigeno tipica dell’alta quota provoca una serie di reazioni: un aumento di pressione arteriosa e frequenza cardiaca, una stimolazione del cuore che cambia forza e modalità di contrazione, un irrigidimento delle arterie, un aumento del numero di globuli rossi con conseguente maggiore densità del sangue, la modifica di alcuni ormoni che possono avere effetti sull’apparato cardiovascolare. Per tutte queste ragioni  i pazienti affetti da malattie dell’apparato cardiocircolatorio devono valutare con attenzione la possibilità di andare in alta montagna, insieme al medico: in molti casi è possibile, ma solo a patto che si seguano alcune semplici regole.
1. Prepararsi fisicamente prima di ascendere con jogging, camminate, ascese in quota ripetute nei mesi precedenti.
2. Accertarsi di essere in condizioni cliniche stabili. Se c’è stato un infarto al cuore o una ischemia, ed è stata effettuata procedura di rivascolarizzazione (angioplastica, by pass, eccetera) far passare almeno 6 mesi prima di considerare ascese in quota. E verificare sempre prima la stabilità delle condizioni cliniche con esami ad hoc da decidere con il proprio medico.
3. Se si assume una terapia, come nel caso di chi soffre di pressione alta, valutare caso per caso se vada modificata in quota su consiglio del medico. Questo è il caso soprattutto per pazienti con un elevato rischio cardiovascolare, per i quali una destabilizzazione in quota potrebbe rappresentare un problema. Non è il caso del giovane iperteso a basso rischio, per esempio, per il quale anche un rialzo pressorio in quota di pochi giorni non rappresenta un vero problema.
4.  Non ascendere troppo velocemente. Se si pensa di soggiornare in quota per più di 6-7 ore, salire progressivamente, con lentezza. Se possibile trovare un posto dove dormire un poco più in basso (di notte la saturazione di ossigeno nel sangue diventa minore per l’insorgere di apnee nel sonno).
5.  Curare l’alimentazione, che deve essere leggera, con sali minerali, vitamine, contenuto bilanciato di zuccheri, proteine e grassi in forma digeribile. Bere. Evitare fumo di tabacco e alcoolici.  Eventualmente assumere farmaci per prevenire il mal di montagna, ma sempre con consiglio del medico.
6. Non stancarsi troppo,  una volta raggiunta la quota non fare attività fisica intensa immediatamente, ma prendersi un periodo di riposo e acclimatazione (24 ore almeno).

Eur Heart J (IF=20.212) Jan 11 2018; doi: 10.1093/eurheartj/ehx720

UN’INSALATA AL GIORNO MANTIENE IL CERVELLO PIÙ GIOVANE

Mangiare un’insalata al giorno mantiene il cervello più giovane di una decina d’anni e protegge dalla demenza. Lo dimostrano i risultati di uno studio prospettico pubblicati su Neurology dai ricercatori del Rush University Medical Center di Chicago. La ricerca ha interessato 960 individui di età compresa tra i 58 e i 99 anni, arruolati nel Memory and Aging Project, uno studio avviato alla fine degli anni ’70 presso il Knight Alzheimer’s Disease Research Center della Washington University. Ai partecipanti veniva richiesto di compilare un questionario sulle abitudini alimentari per un periodo di cinque anni; ogni anno venivano sottoposti a una valutazione neuropsicologica. I risultati evidenziano che le persone che consumano regolarmente vegetali a foglia hanno un’età cerebrale di circa 11 anni più giovane rispetto ai non consumatori. Facile pensare all’esistenza di un bias di ‘salutismo’, ovvero che questo risultato potrebbe essere il frutto non solo del consumo elevato di insalate, ma anche di altri comportamenti salutari ad esso associati. Gli autori dello studio dimostrano tuttavia che i vantaggi dell’insalata si mantengono anche dopo aver considerato possibili fattori confondenti quali livello di istruzione, attività fisica, consumo di alcol, fumo di sigaretta, obesità e depressione. Il merito di questa azione anti-aging cognitiva secondo gli autori potrebbe essere dovuto ad alcune sostanze contenute in questi alimenti e in particolare a fillochinone (vitamina K), luteina, folati, alfa-tocoferolo (vitamina E) e kampferolo. In attesa che futuri studi identifichino i componenti bioattivi e i meccanismi responsabili dell’effetto anti-invecchiamento, gli autori consigliano di inserire nel menu giornaliero una bella insalata, corredandola anche di altri alimenti con proprietà anti-ossidanti.

Neurology (IF=8.320) 90:e214,2018