LA FIBRA INSOLUBILE

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Non rimarrete sorpresi apprendendo che la fibra insolubile ha come caratteristica precipua quella di non sciogliersi nei liquidi. Altra sua proprietà principale è quella di aumentare il volume delle feci stimolando così la loro velocità di transito nell’intestino. La capacità di trattenere l’acqua fa si che le sostanze citotossiche e citolesive presenti nell’intestino vengano diluite e rimangano quindi meno tempo a contatto con la parete intestinale, favorendo un’azione preventiva verso alcune patologie. Esagerare, però, con l’apporto di fibra può portare a un accumulo di acido fitico: questo composto ostacola l’assorbimento di micronutrienti fondamentali per il nostro organismo, come lo zinco, il calcio, il selenio, il ferro. I Larn (Livelli di Assunzione di Riferimento di nutrienti per la popolazione italiana) indicano come assunzione adeguata di fibra insolubile nell’adulto, una quantità di 12.2-16.7 grammi per ogni 1000  Kcal assunte.

Fibra per 100 gr. Crusca 39.6 gr; lattuga 1.9 gr; melanzana 2.6 gr; banana 1.8 gr; farina integrale 9.6 gr; pane comune 2.8 gr; pasta integrale 11.5 gr; riso integrale 3.8 gr.

CARBOIDRATI, GRASSI E MORTALITÀ: LO STUDIO PURE RIACCENDE LA DISCUSSIONE

I dati più numerosi in letteratura sulla relazione fra macronutrienti e mortalità e morbilità provengono da studi eseguiti su popolazioni europee e americane, quelle con il più simile stile di vita e dove gli eccessi alimentari sono più frequenti. Come raccontavo la scorsa settimana, lo studio PURE (Prospective Urban Rural Epidemiology), ha monitorato più di 130000 soggetti fra 35 e 70 anni di età, arruolati in 18 Paesi a diverso sviluppo socio-economico e reddito, distribuiti in 5 continenti.

Durante il follow-up di 7.4 anni si è osservato che un progressivo aumento del consumo giornaliero di carboidrati aumentava il rischio di mortalità totale ma non degli eventi e della mortalità cardiovascolari (Figura). L’aumento del consumo di grassi totali e dei vari tipi di grassi (saturi, monoinsaturi e polinsaturi) era associato invece a una riduzione della mortalità totale, ma non degli eventi e della mortalità cardiovascolari. In altre parole, meglio mangiare grassi che carboidrati. Gli autori concludono (provocatoriamente) proponendo una revisione delle linee-guida nutrizionali, generalmente improntate a un contenimento del consumo di grassi alimentari. Nei paesi europei e nordamericani, infatti il consiglio è di limitare l’apporto alimentare di grassi saturi, sostituendo i grassi animali con oli vegetali, carboidrati complessi e cereali integrali. È il momento di cambiare impostazione? Sembra per lo meno prematuro. Rimangono ancora molte questioni aperte (per es. quali meccanismi sottendono i risultati dello studio PURE?) e sarà necessario un approfondimento delle ricerche con trials randomizzati controllati prima di modificare le attuali raccomandazioni (almeno nei paesi occidentali).

Lancet (IF=47.83) 390:2050,2018

ASSUMERE LA ROSUVASTATINA A DIGIUNO O DURANTE IL PASTO?

Efficacia e sicurezza di molti farmaci sono influenzate dal cibo. È questo il caso della rosuvastatina? Ricercatori canadesi hanno misurato i livelli plasmatici di rosuvastatina dopo assunzione di una compressa a digiuno, o durante un pasto ricco o povero in grassi.

Dimostrano così che l’assunzione durante il pasto (indipendentemente dal contenuto di grassi) determina una minore esposizione al farmaco, che potrebbe tradursi in un minor rischio di effetti collaterali. D’altro canto, la modalità di assunzione non influenza l’efficacia della terapia: la riduzione del colesterolo LDL, e la dose necessaria a raggiungere l’obiettivo terapeutico erano identiche quando il farmaco veniva somministrato a digiuno o durante il pasto.

Clin Pharmacol Ther (IF=7.27) doi.org/10.1002/cpt.973

 

IL CODICE A BARRE

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Ogni volta che andiamo al supermercato siamo abituati ormai da tempo, all’atto del pagamento, a scansire ciascun acquisto tramite codice a barre. E’ un metodo ideato negli Stati Uniti che permette mediante la lettura con lettore ottico di ottimizzare i tempi, automatizzando le modalità di carico, scarico, vendita e inventario di ogni singolo prodotto. Dal 1997 i paesi dell’Unione Europea hanno adottato un unico sistema per identificare le merci: EAN (European Article Numbering) è formato da trenta barre verticali di spessore e distanza differenti con alcuni numeri alla base. Con un apposito lettore è possibile in modo automatico e senza possibilità di errore, grazie alla distanza e al diverso spessore, identificare il prodotto e registrarne la vendita con descrizione sullo scontrino. I numeri hanno un significato preciso:
Flag sono le prime due cifre e identificano la nazionalità di provenienza (vedi sotto); le successive 5 cifre sono il codice attribuito al produttore; altre 5 cifre sono assegnate al prodotto dall’ azienda che ne descrive le caratteristiche; l’ultima cifra è il codice di controllo.

00-13 Usa e Canada
30-37 Francia
400-440 Germania
45-49 Giappone
471 Taiwan
489 Hong Kong
50 Regno Unito
520 Grecia
539 Irlanda
54 Belgio, Lussemburgo
560 Portogallo
57 Danimarca
690-692 Cina
70 Norvegia
729 Israele
73 Svezia
76 Svizzera
789 Brasile
80-83 Italia
84 Spagna
869 Turchia
87 Paesi Bassi

II GIORNATA DELLA RICERCA DEL CENTRO GROSSI PAOLETTI

II GIORNATA DELLA RICERCA DEL CENTRO GROSSI PAOLETTI
“Scienza a colazione:la comunicazione della salute alla società civile”
Venerdì 29 Giugno, Ospedale Niguarda di Milano

Per registrarti: segreteria.cegp@unimi.it

L’evento è gratuito!

Programma:
08.30 – 09.00   Registrazione e benvenuto
 
09.00 – 09.45   Salute a colazione: il menù della dietista
                            Raffaella Bosisio (Centro Dislipidemie)
 
09.45 – 10.30   Alimentarsi correttamente per vivere meglio: ma cosa significa                                 esattamente?
                             Andrea Poli (Nutrition Foundation of Italy)
 
10.30 – 12.00   Tavola Rotonda: Comunicare con i cittadini in tema di salute
    Partecipano:
        Andrea Ceron (Dip. Scienze Sociali e Politiche,UNIMI)
        Ivano Eberini (Dip. Scienze Farmacologiche e Biomolecolari, UNIMI)          Alessandra Perotta (HealthCom Consulting)
        Roberta Villa (giornalista scientifica)
 
12.00                Saluti finali

RIDUZIONE DEL COLESTEROLO-LDL CON EVOLOCUMAB E LIVELLI PRE-TRATTAMENTO DI PCSK9

La “Proprotein Convertase Subtilisin Kexin type 9” (PCSK9), come già raccontato su questo sito, è una proteina di origine prevalentemente epatica, in grado di legare il recettore delle lipoproteine a bassa densità (LDL-R) e causarne la degradazione. Attraverso questa funzione, PCSK9 contribuisce alla regolazione dei livelli plasmatici di LDL-colesterolo (LDL-C).

Evolocumab è un anticorpo monoclonale diretto contro PCSK9, prescrivibile in Italia in regime di rimborsabilità SSN e sottoposto a piano terapeutico. È indicato nel trattamento delle ipercolesterolemie primarie e delle dislipidemie miste in associazione con statine, oppure in monoterapia o associato ad altri ipolipidemizzanti nei pazienti intolleranti alle statine. È molto efficace nel ridurre i livelli di LDL-C (dal 55% al 75%), con una certa variabilità individuale. Ricercatori americani hanno valutato se tale variabilità fosse attribuibile a differenze nei valori pre-trattamento di PCSK9, esaminando i dati di 3016 pazienti reclutati in quattro differenti studi clinici di fase III. Come atteso, i livelli di PCSK9 al reclutamento erano molto variabili (intervallo interquartile 258-406 ng/ml); pazienti con valori più elevati di PCSK9 avevano valori ridotti di LDL-C (da 123 mg/dl a 137 mg/dl, dal quarto al primo quartile), ma più facilmente ricevevano una terapia con statine ad alta intensità (dal 56% al 13%, dal quarto al primo quartile). Quando i pazienti sono stati stratificati in quartili in base ai valori pre-trattamento di PCSK9, non è stata osservata alcuna correlazione tra livelli di PCSK9 e riduzione di LDL-C. Si può concludere che la misurazione dei livelli di PCSK9 non è d’aiuto per identificare i pazienti che traggono maggior beneficio da una terapia con evolocumab (e verosimilmente con altri anticorpi contro PCSK9).

JAMA Cardiol 2:556,2017

FRUTTA, VEGETALI E LEGUMI FANNO BENE ALLA SALUTE

Vegetables and Fruits

Lo studio PURE (Prospective Urban Rural Epidemiology) è uno dei più grandi studi epidemiologici mai condotti al mondo. La sua eccezionalità sta, oltre che nel numero di soggetti reclutati, nell’eterogeneità geografica dello studio: sono stati coinvolti ben 18 Paesi, in 7 aree geografiche a diversi livelli di sviluppo (Nord America ed Europa, Sud America, Medio Oriente, Asia del sud, Cina e Asia del sud-est). Lo studio ha prodotto una molteplicità di risultati. Oggi racconto quanto emerso sugli effetti sulla salute del consumo alimentare di frutta, vegetali e legumi.

Per lo studio sono stati reclutati 135335 individui, di età compresa tra 35 e 70 anni, non affetti da malattie cardiovascolari al momento del reclutamento. Durante il follow-up di 7.4 anni sono stati registrati 4784 eventi cardiovascolari e 5796 decessi totali, di cui 1649 per cause cardiovascolari. I soggetti esaminati consumavano in media 3.91 porzioni giornaliere di frutta/vegetali/legumi. Dopo aver aggiustato i dati per vari fattori di rischio cardiovascolare (includendo tra gli altri l’attività fisica, il livello di istruzione e il consumo giornaliero di carne), un più alto consumo di frutta/vegetali/legumi era associato a una significativa riduzione della mortalità totale e della mortalità per cause non cardiovascolari.

3 porzioni (375 gr) giornaliere di frutta/vegetali/legumi erano sufficienti per raggiungere la massima riduzione della mortalità totale, che non variava con l’ulteriore aumento del consumo di frutta/vegetali/legumi. Diminuivano anche gli eventi cardiovascolari e la mortalità cardiovascolare, ma in entrambi i casi non si raggiungeva la significatività statistica.

La prossima settimana vi parlerò dell’effetto di grassi e carboidrati.

Lancet (IF=47.83) 390:2037,2018

UN PO’ DI ALCOL FA BENE (AL CUORE), TROPPO FA MALE. MA DOVE SI PONE IL CONFINE?

Bere troppo alcol accorcia la vita. Ma di quanto? Un team internazionale di ricercatori, che ha appena pubblicato uno studio sulla rivista Lancet, ha cercato di rispondere a questa domanda analizzando 83 studi condotti in 19 Paesi sviluppati (incluso il nostro), per un totale di quasi 600000 individui consumatori di alcol, nessuno dei quali soffriva di malattie cardiovascolari. Metà dei consumatori aveva riferito di consumare più di 100 gr di alcol settimanali, e l’8,4% superava i 350 gr.

Il consumo di alcol non ha effetto sulla longevità fino a quando il consumo settimanale supera i 100 gr (Figura 1), una quantità che corrisponde grosso modo a cinque o sei bicchieri di vino (di gradazione alcolica media), di gran lunga al di sotto alla soglia raccomandata in molti Paesi, come Stati Uniti, Portogallo, Spagna e la stessa Italia. A differenza del Regno Unito, dove la soglia è stata recentemente abbassata a 6 bicchieri a settimana per uomini e donne, in linea con i risultati dello studio. Poi, all’aumentare del consumo di alcol corrisponde un riduzione della longevità: uno-due anni di vita in meno per chi consuma 200-350 gr di alcol a settimana, e quattro-cinque anni per chi va oltre i 350 gr settimanali, circa 18 bicchieri in 7 giorni. L’analisi dimostra che bere alcolici a livelli ritenuti sicuri è in realtà legato a una minore aspettativa di vita. Molto particolare la relazione tra consumo di alcol e malattie cardiovascolari, come infarto miocardico, coronaropatia e ictus. La curva che descrive la relazione tra consumo di alcol e sviluppo di queste malattie ha una tipica forma a U; consumare fino a 100 gr riduce progressivamente l’incidenza di malattie cardiovascolari, che poi risale in chi supera questa soglia (Figura 1).

Se si analizzano separatamente le varie malattie cardiovascolari si nota che un moderato consumo di alcol riduce il rischio di infarto, ma non di ictus o insufficienza cardiaca, che invece aumenta linearmente all’aumentare del consumo, anche al di sotto della soglia di 100 gr settimanali (Figura 2). La diverse relazioni tra consumo di alcol e vari tipi di malattie cardiovascolari potrebbero essere spiegate, almeno in parte, dall’effetto dell’alcol sulla pressione sanguigna e sul colesterolo HDL, che tendono ad aumentare con l’aumento del consumo.

 

Lancet (IF=47.831) 391:1513, 2018

PRODOTTI AGROALIMENTARI TRADIZIONALI: LA MIASCIA

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

È un dolce tipico del lago di Como, noto fin dai tempi passati. Molto povero, veniva preparato con pane raffermo (pan poss) ammollato nel latte. Si aggiungeva mela o pera o uvetta sultanina per sopperire alla mancanza di zucchero, alimento scarso sulle tavole popolari. Naturalmente ogni famiglia aveva una ricetta particolare dettata dai pochi ingredienti a disposizione. La miascia a volte veniva consumata anche come pasto e, nella versione in po’ più ricca (aggiunta di frutta secca), come dessert durante qualche festa. Ancora oggi si prepara con diverse ricette.  Nell’alto Lario si è conservata la vecchia ricetta fatta di pane, latte, uvetta, uova, e mele: per la festa dell’Assunta il 15 agosto si usa arricchire la torta con un numero maggiore di uova.  Da un punto di vista nutrizionale può essere considerata una buona merenda o un dessert non troppo impegnativo.

Una fetta di torta. Kcal 342.00; carboidrati 70.18 g; proteine 11.80 g; lipidi 5.76 g (saturi 1.68 g; polinsaturi 1.67 g; monoinsaturi 2.16 g); fibra 3.93 g.

SMETTERE DI FUMARE FA BENE AL CUORE. ANCHE SE SI AUMENTA DI PESO

Questo studio ha valutato l’associazione tra la cessazione del fumo, le successive variazioni del peso corporeo (valutato come indice di massa corporea, BMI) e il rischio di infarto miocardico e ictus. A partire dai dati del National Health Insurance Service relativi al periodo 2002-2013, è stato condotto uno studio prospettico di coorte nel quale 108.242 uomini di età > 40 anni e senza storia di infarto o ictus sono stati suddivisi nei seguenti sottogruppi: fumatori; individui che avevano cessato di fumare, con aumento, riduzione o nessuna variazione del BMI; non fumatori. Durante il follow-up di 8 anni si sono verificati 1.420 casi di infarto miocardico e 3.913 casi di ictus. Tra i partecipanti che avevano smesso di fumare, 1.633 hanno avuto un incremento del BMI > 1 kg/m2 (mediana 1.54). Come atteso, il rischio di infarto e ictus era ridotto (rispettivamente del 63% e del 32%) nei non fumatori rispetto ai fumatori. Tra coloro che avevano smesso di fumare, il rischio di infarto e ictus era ridotto rispetto ai fumatori, sia che avessero aumentato il peso (-67% e -25%), o che il peso non fosse cambiato (-45% e -25%); paradossalmente, smettere di fumare perdendo peso era molto meno efficace nel ridurre il rischio di infarto (-9%) e ictus (-14%, entrambi non significativi).

Sembra quindi che l’eventuale aumento di peso in seguito alla cessazione del fumo non faccia male al cuore e al cervello.

 Eur Heart J (IF=20.212) 39:1523,2018