LA MANIOCA

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio 

La manioca o yuca appartiene alla famiglia Euforbiacee ed è originaria del Sud America. La parte edibile è la radice, che si presenta di colore bruno con polpa bianca, di sapore leggermente legnoso con retrogusto particolare, che ricorda la mandorla. È facilmente coltivabile, crescendo addirittura allo stato selvatico. Esistono due varietà: la manioca dolce, che può essere consumata anche cruda, e la manioca amara, che deve essere necessariamente consumata cotta per la presenza di acido cianidrico (contenuto per lo più nella buccia) che scompare con la cottura ad alte temperature. Questo tubero viene consumato principalmente bollito e poi fritto come fosse una patata. La manioca contiene poche proteine, pochissimi grassi, ma molti carboidrati. Dall‘amido della manioca si ricava la tapioca, una farina che può essere usata in sostituzione della farina di grano. Si ricava grattugiando ed essiccando la polpa di manioca fino a ottenere una fecola che, ulteriormente trattata, dà origine ai fiocchi di tapioca. Molto nutriente per l’alto contenuto di carboidrati, viene utilizzata nelle preparazioni di focacce, frittelle e panini. Non contenendo glutine è anche particolarmente indicata nelle diete dei celiaci.

LA VARIABILITÀ PRESSORIA A BREVISSIMO TERMINE PREDICE INCIDENZA E RICORRENZA DI EVENTI CARDIOVASCOLARI

La variabilità della pressione arteriosa a lungo termine (giorno per giorno o visita per visita) è un predittore di rischio cardiovascolare, ma meno si conosce circa l’impatto di altre misure della variabilità pressoria intraindividuale sullo stesso rischio. Ricercatori neozelandesi hanno condotto un’analisi del rischio di incidenza e ricorrenza di eventi cardiovascolari in relazione alla variabilità a breve termine (10 secondi) della pressione arteriosa. Gli autori hanno condotto misurazioni della pressione arteriosa sistolica per 10 secondi, riproducendo forme d’onda relative alla pressione arteriosa centrale, in 4.999 adulti (58% uomini; età compresa tra 50-84 anni; 13.4% con un precedente evento cardiovascolare). Dopo un follow-up mediano di 4.6 anni si sono verificati 310 eventi cardiovascolari incidenti e 187 ricorrenti. L’analisi multivariata con correzioni multiple ha mostrato un’associazione tra variabilità pressoria sistolica centrale ed incidenza di primi eventi cardiovascolari: il rischio di sviluppare un primo evento è raddoppiato negli individui nel sestile più alto di variabilità pressoria rispetto a quelli nel sestile più basso. In maniera analoga, la variabilità pressoria sistolica centrale è anche associata a un più alto rischio di eventi cardiovascolari ricorrenti.

J Hypertens (IF=4.099) 37:530,2019

LA NON ADERENZA ALLA TERAPIA ANTIPERTENSIVA AUMENTA LE CRISI IPERTENSIVE

 Un recente documento della European Society of Cardiology (ESC) e della European Society of Hypertension (ESH) ha rivisto i criteri per la definizione delle cosiddette “crisi ipertensive”, stabilendo che siano denominate “urgenze ipertensive” quelle condizioni caratterizzate da un aumento marcato dei valori pressori (oltre 180/110 mmHg) in assenza di segni acuti di danno d’organo, mentre siano denominate “emergenze ipertensive” le condizioni in cui l’aumento dei valori pressori sia associato alla comparsa di segni acuti di danno d’organo. In quest’ultimo caso, le manifestazioni cliniche possono comprendere sindromi coronariche acute, ictus o emorragia cerebrale, dissecazione aortica e insufficienza renale acuta.
Indipendentemente dalla definizione, i ricoveri presso il pronto soccorso riconducibili all’ipertensione arteriosa sono in constante aumento anche in Italia. Tale aumento comporta non solo l’occupazione del posto letto in area critica, ma anche un notevole impiego di risorse economico-sanitarie per gli accertamenti diagnostici e l’ottimizzazione terapeutica di questa tipologia di pazienti. Sulla base di tali considerazioni, l’identificazione di fattori potenzialmente in grado di predire l’accesso in pronto soccorso per urgenza/emergenza ipertensiva è rilevante al fine di contenere la spesa sanitaria e ridurre il numero di ospedalizzazioni per ipertensione. Tra questi il sesso femminile, l’obesità, la presenza di cardiopatia ipertensiva o ischemica, l’impiego di terapie farmacologiche complesse (politerapia) e l’abuso di sostanze stimolanti o di farmaci anti-infiammatori o cortisonici.
Un recente studio ha sottolineato l’importanza di un altro elemento coinvolto nello sviluppo di urgenze/emergenze ipertensive. Tale studio ha valutato l’aderenza al trattamento farmacologico prescritto mediante determinazione diretta sul campione delle urine in una coorte di 100 pazienti ipertesi trattati afferenti al pronto soccorso per “crisi ipertensiva” (16 con emergenza ipertensiva, e 84 con urgenza ipertensiva) nel periodo compreso tra ottobre 2014 e giugno 2015. Tra i pazienti in cui è stato possibile eseguire correttamente l’esame delle urine (n=62), il 24% è risultato essere non aderente alla terapia e il 36% parzialmente aderente alla terapia farmacologica prescritta. Oltre la metà dei soggetti che si sono rivolti al pronto soccorso a causa dell’ipertensione arteriosa è risultata quindi non aderente alla terapia farmacologica antipertensiva. Fattori correlati alla non aderenza sono risultati essere una storia di ipertensione di più lunga data, un numero maggiore di compresse ed un numero maggiore di farmaci.
Sebbene lo studio abbia incluso un numero relativamente ridotto di pazienti, fornisce ugualmente alcuni spunti interessanti di riflessione sulla necessità di mantenere nel tempo un efficace controllo dei valori pressori entro i limiti raccomandati attraverso la semplificazione del trattamento farmacologico antipertensivo e l’uso sempre più esteso di terapie di associazione in singola pillola, come raccomandato dalle recenti linee guida ESC/ESH 2018 sull’ipertensione arteriosa.

J Clin Hypertens (IF=2.629) 21:55,2019

FEGATO GRASSO NELL’ANZIANO. ATTENZIONE ALLE PROTEINE ANIMALI

Un elevato consumo di proteine animali aumenta la probabilità di avere un eccesso di grasso nel fegato e il rischio di malattia epatica rispetto al consumo di proteine vegetali. È quanto emerge da uno studio olandese, che ha messo in relazione il consumo di macronutrienti (proteine, carboidrati, grassi e fibre) con dati ultrasonografici sul grasso epatico in 3.882 adulti con un’età media pari a 70 anni. Le scansioni hanno mostrato che 1.337 partecipanti (il 34%) avevano una NAFLD (Non Alcoholic Fatty Liver Disease); di questi 132 erano normopeso e 1.205 sovrappeso. Tra i partecipanti sovrappeso, quelli che assumevano soprattutto proteine animali hanno fatto registrare il 54% di probabilità in più di avere il fegato grasso rispetto a coloro che consumavano quantitativi inferiori di carne,
indipendentemente dall’assunzione calorica totale. I risultati dello studio  confermano l’importanza di abitudini alimentari sane nel ridurre il rischio di malattia del fegato grasso. La carne, in particolare quella rossa e quella lavorata, è particolarmente insidiosa perché può generare infiammazione e insulino-resistenza, che fanno accumulare grasso nel fegato. I risultati dello studio suggeriscono che si dovrebbe limitare la carne rossa e lavorata e provare a mangiare più pesce, seguendo una dieta mediterranea ricca di cereali integrali, verdure e olio d’oliva.

Gut (IF=17.016) 2018 Jul 31. doi:10.1136/gutjnl-2017-315940

LA CIPOLLA ROSSA

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

La cipolla rossa è un bulbo appartenente alla famiglia delle Liliacee. Ne esistono molte varietà ma in Italia una delle più famose è la cipolla rossa di Tropea. Coltivata in Calabria, la raccolta viene ancora effettuata a mano, quindi si raggruppano più elementi che si fanno seccare in forma di trecce in modo da ottenere una perfetta conservazione. La cipolla rossa ha un buon contenuto di zucchero, potassio, fosforo. Le vitamine del gruppo B sono presenti, come pure un interessante contenuto di beta-carotene, luteina. Il flavonoide che la caratterizza di maggiormente è la quercetina. Recenti studi in vitro hanno evidenziato come  l’estratto di quercetina, posto a contatto con cellule neoplastiche, riesca a creare un ambiente sfavorevole, ostacolando così la comunicazione tra cellule e inibendone la crescita. Gli studi devono essere ancora confermati sull’uomo; già da ora, comunque, si sta ricercando un metodo efficace di estrazione della quercetina nella prospettiva di un suo utilizzo come nutraceutico.

L’IPERCOLESTEROLEMIA È UN FATTORE DI RISCHIO PER LA SLA

La SLA (sclerosi laterale amiotrofica) è una malattia degenerativa progressiva che colpisce i motoneuroni cerebrali e del midollo spinale che controllano il movimento muscolare volontario, compromettendo il movimento degli arti, la fonazione, la deglutizione. La SLA colpisce circa 5000 persone in Italia. Attualmente non esiste alcuna cura della SLA, ma vari fattori sono stati associati al suo sviluppo, come alcuni geni, lo stile di vita, i traumi e l’attività sportiva.
Lo studio che vi proponiamo oggi ha utilizzato la tecnica della randomizzazione mendeliana, che permette di valutare la relazione causale tra polimorfismi genetici che alterano variabili fenotipiche e rischio di malattia. Questa tecnica di analisi elimina i fattori confondenti e permette di studiare l’effetto predisponente a una malattia dell’esposizione a variabili genetiche-fenotipiche per l’intera vita dell’individuo, e non per un periodo limitato.
Le analisi sono state condotte su 20.806 casi di SLA e 59.804 controlli, e hanno esaminato 10.031.630 varianti geniche associate a 889 ‘tratti’, che includono un’ampia gamma di caratteristiche fisiologiche e di fenotipi di malattia. Ciascun tratto è stato analizzato separatamente per determinare la relazione causale con l’insorgenza di SLA.
Questa analisi metodologicamente molto complessa ha rivelato che elevati livelli di LDL-colesterolo sono un fattore di rischio indipendente per la SLA, e aumentano del 7.5% la probabilità di sviluppare la malattia. Il fumo di sigaretta e un’intensa attività fisica sono pure fattori di rischio per la SLA, mentre un’attività fisica moderata e un maggiore livello di istruzione sono fattori protettivi per la malattia.

Ann Neurol (IF=10.250) 2019 Feb 5. doi:10.1002/ana.25431.

 

UNO SCARSO CONTROLLO GLICEMICO NEL DIABETICO DI TIPO 1 AUMENTA IL RISCHIO DI FRATTURE OSSEE

I pazienti diabetici di tipo 1 con scarso controllo glicemico hanno maggiori probabilità di procurarsi una frattura se cadono rispetto a quelli ben controllati. Non è così nei pazienti con diabete di tipo 2. L’evidenza giunge da uno studio su una popolazione britannica condotto dall’Università di Basilea. I ricercatori hanno esaminato i dati relativi a 47.000 diabetici, di cui 3.329 con diabete di tipo 1 e 44.275 con diabete di tipo 2, con diagnosi eseguita tra il 1995 e il 2015. Durante il periodo di studio, 672 pazienti con diabete di tipo 1 e 8.859 con diabete di tipo 2 hanno riportato fratture ossee.
Nei diabetici di tipo 1, il rischio di fratture è più elevato del 39% quando i il controllo glicemico non è adeguato (emoglobina glicata, HbA1c>8.0%), rispetto ai pazienti ben controllati dal punto di vista glicemico (HbA1c≤7.0%). Nei pazienti con diabete di tipo 2, invece,  un inadeguato controllo glicemico non aumenta il rischio di fratture.
Diverse complicanze del diabete possono contribuire a un aumento del rischio di cadute e fratture: il deterioramento cognitivo, la neuropatia, che riduce la capacità di mantenere una corretta postura, la retinopatia o altri danni agli occhi, che rendono più difficile individuare gli ostacoli. Nei pazienti con diabete di tipo 1 reclutati nello studio, la presenza di complicanze vascolari, come la retinopatia, e l’insufficienza renale hanno aumentato del 29% e del 100% la probabilità di incorrere in fratture.

J Clin Endocrinol Metab (IF=5.789) 2019 Jan 16. doi: 10.1210/jc.2018-01879

PRESSIONE ARTERIOSA ED ETÀ: IL RUOLO DELLO STILE DI VITA

L’aumento della pressione arteriosa associato all’età non è un fenomeno naturale, ma è piuttosto legato allo stile di vita. È quanto emerge da uno studio trasversale su due comunità amerindie isolate, gli Yanomami e gli Yekwana, che vivono in un’area remota della foresta pluviale venezuelana, inaccessibile via terra. La comunità Yanomami è composta da cacciatori-raccoglitori dalla cultura tra le più primitive al mondo. Il popolo Yekwana vive vicino alla comunità Yanomami, ma la presenza di una pista di atterraggio per aerei di piccolo motore ha consentito che fosse raggiunto da missioni umanitarie, con simultanea diffusione di aspetti dello stile di vita occidentale, compresa l’esposizione intermittente ad alimenti sofisticati e al sale da cucina.

Gli autori dello studio hanno esaminato la pressione arteriosa di 72 Yanomami e 83 Yekwana, di età compresa tra 1 e 60 anni, nel periodo tra ottobre 2015 e febbraio 2016. I due gruppi erano omogenei in termini di età, genere e altezza, mentre differivano per peso e BMI, più elevati negli Yekwana (48.4 vs 41.4 kg e 23.4 vs 21.2 kg/m²). Rispetto agli Yekwana, gli Yanomami avevano una pressione arteriosa media più bassa, sia sistolica (PAS, 95.4 mmHg vs 104.0 mmHg) che diastolica (PAD, 62.9 mmHg vs 66.1 mmHg). PAS e PAD non variavano con l’età negli Yanomami (0.00 mmHg/anno e -0.02 mmHg/anno), ma aumentavano negli Yekwana (0.25 mmHg/anno e 0.18 mmHg/anno). I dati indicano che le curve pressorie delle due comunità già divergono nell’infanzia: all’età di 1-20 anni, la pendenza della curva PAS-età era più accentuata negli Yekwana rispetto agli Yanomami (differenza media 0.99 mmHg/anno). Questo piccolo studio trasversale dimostra un diverso andamento pressorio con l’età in due comunità isolate con diversa esposizione a influenze occidentali. Nella comunità Yekwana, più occidentalizzata, l’aumento della pressione arteriosa è correlato all’età e inizia già nell’infanzia, diversamente da quanto avviene nella comunità Yanomami, non raggiunta da tali influssi. L’aumento della pressione arteriosa associato all’età non sembra essere quindi un fenomeno naturale, ma è piuttosto correlato all’esposizione a precise abitudini occidentali. Questa osservazione rende ragione del potenziale beneficio di intervenire sullo stile di vita già nei bambini per prevenire l’ipertensione arteriosa.

JAMA Cardiol (IF=10.133) 3:1247,2018

TUMORI, IN AUMENTO TRA I GIOVANI QUELLI LEGATI ALL’OBESITÀ

Non solo giovani sempre più obesi, ma anche giovani che hanno una salute sempre più a rischio. Perché molte forme di cancro legate all’obesità sono in forte aumento nelle nuove generazioni. Come suggeriscono i risultati di un’ampia indagine americana, che ha preso in esame i dati relativi all’incidenza di 30 tipi di tumori diagnosticati dal 1995 al 2014 a persone di età compresa tra i 25 e gli 84 anni. Dei 30 tumori presi in esame, 12 sono quelli legati all’obesità secondo l’International Agency for Research on Cancer (IARC): tumore del colon-retto, dell’esofago, della cistifellea, dello stomaco, del rene, del fegato, del pancreas, della tiroide, del seno, dell’endometrio, delle ovaie e il mieloma multiplo. Il rischio di sviluppare il tumore è maggiore nei giovani adulti rispetto alle persone più anziane, almeno per la metà delle forme di cancro legate all’obesità. Rispetto ai nati negli anni ’50, i nati negli anno ’80 hanno un rischio più elevato di sviluppare un mieloma multiplo (+59%), un cancro al fegato (+49%), al colon-retto (+81%), all’endometrio (+105%), alla cistifellea (+152%), al pancreas (+125%), al rene (+391%) o alla tiroide (+599%). Sebbene questi dati riguardino soltanto la popolazione statunitense, anche in Europa sono emerse evidenze sul maggior rischio dei giovani di sviluppare un cancro del colon-retto.

“Considerato il forte aumento di giovani in sovrappeso o obesi e l’aumento del rischio di sviluppare tumori legati all’obesità in queste fasce della popolazione, non possiamo trascurare il peso che avranno queste malattie sia sulla prospettiva di vita che sulla spesa sanitaria”, commentano gli autori dello studio, che riflettono sull’esigenza di trovare nuove strategie per arginare e contrastare la morbilità e la mortalità premature associate alle malattie legate all’obesità. Il pericolo – secondo i ricercatori – è quello di rendere in parte vane le conquiste ottenute negli ultimi anni nella lotta contro il cancro.

Lancet Public Health 2019 Feb 1. doi: 10.1016/S2468-2667(18)30267-6

L’ESERCIZIO AEROBICO MIGLIORA LE CAPACITÀ DI PENSIERO A TUTTE LE ETÀ

La gente pensa al declino mentale come a qualcosa che si verifica tardi nella vita, ma molti studi mostrano un declino quasi lineare delle funzioni cognitive dai 30 anni in poi. Tra le poche misure in grado di migliorare le capacità cognitive negli anziani, l’esercizio aerobico ha un ruolo importante. Un nuovo piccolo studio rivela che l’esercizio aerobico aumenta le capacità di pensiero anche negli adulti più giovani. Dopo un allenamento aerobico di sei mesi, un gruppo di adulti ha infatti mostrato miglioramenti nella funzione esecutiva – i processi cognitivi importanti per il ragionamento, la pianificazione e la risoluzione dei problemi – e l’espansione della materia grigia nella regione del cervello responsabile di tali funzioni.
Un gruppo di confronto, che ha fatto solo stretching e tonificazione durante lo stesso periodo non ha riportato gli stessi benefici.
Gli autori hanno reclutato 132 volontari di età compresa tra 20 e 67 anni, che non avevano fatto esercizio fisico aerobico continuativo prima dello studio. Ai volontari sono stati somministrati dei test per valutare la funzione esecutiva, la memoria episodica, la velocità di elaborazione mentale, le abilità linguistiche e l’attenzione. I ricercatori li hanno poi assegnati in modo casuale a uno di due gruppi: una metà in quello aerobico, che si allenava per aumentare la frequenza cardiaca, mentre l’altra metà doveva compiere sessioni di tonificazione non aerobica e stretching. I volontari di ciascun gruppo hanno partecipato a quattro sessioni di allenamento settimanali per 24 settimane. Sono stati nuovamente testati per le capacità cognitive a 12 e 24 settimane, e sottoposti a risonanza magnetica cerebrale all’inizio e alla fine dello studio. Alla fine del periodo di studio, il gruppo di stretching e tonificazione non ha fatto registrare variazioni delle capacità cognitive, mentre il gruppo “esercizio aerobico” ha mostrato aumenti significativi delle funzioni cognitive a tutte le età, sebbene i partecipanti più anziani mostrassero miglioramenti maggiori rispetto ai più giovani. Le risonanze magnetiche hanno anche mostrato un aumento di spessore nella corteccia frontale del cervello alla fine delle 24 settimane di esercizio aerobico.

Neurology (IF=8.055) 2019 Jan 30. doi:10.1212/WNL.0000000000007003