LA SAUNA FA BENE AL CUORE

La sauna finlandese è una forma di esposizione a calore passivo molto usata in Finlandia e in altri Paesi, soprattutto scandinavi, per rilassarsi. E ha numerosi benefici per la salute, grazie anche all’aria secca con un’umidità del 10-20% circa; la temperatura varia da 80°C a 100°C a livello del capo, ma è più bassa a livello del pavimento (circa 30°C), condizione che mantiene efficiente la ventilazione, assicurando condizioni confortevoli. La durata dell’esposizione dipende dal comfort individuale e dalla temperatura, di solito varia da 10 a 45 minuti.

Trenta minuti di sauna quattro volte a settimana diminuiscono il rischio di eventi e mortalità cardiovascolare. È quanto dimostrano ricercatori finlandesi, che hanno condotto uno studio, durato 15 anni, su quasi 1700 individui, età media 63 anni (range 53-74). Lo studio ha evidenziato come una maggiore frequenza di saune corrisponda a una minore mortalità cardiovascolare. La relazione è lineare: maggiore è il numero di saune settimanali, minore è la mortalità. La riduzione è del 29% in coloro che fanno la sauna 2-3 volte a settimana e del 70% in coloro che fanno la sauna 4-7 volte a settimana, rispetto a chi la fa una sola volta a settimana. Anche la durata della sauna (minuti/settimana) si associa linearmente alla mortalità cardiovascolare: quattro volte alla settimana per almeno 30 minuti è l’ideale.
La sauna ha un impatto positivo su funzione circolatoria e cardiovascolare. Il calore può migliorarle agendo sulle cellule endoteliali che rivestono le arterie, riducendone la rigidità, stimolando nella fase acuta il sistema simpatico e successivamente quello vagale, infine abbassando la pressione arteriosa. Attenzione, però, a non correre pericoli: la sauna è sconsigliata nei pazienti ad alto rischio cardiovascolare, come quelli con scompenso cardiaco, ipertensione non controllata, ipotensione, o nei pazienti con infezioni acute, miocarditi, pericarditi, epilessia.

BMC Med (IF=9.088) 16:219,2018

EZETIMIBE E NUTRACEUTICO NEL PAZIENTE CORONAROPATICO INTOLLERANTE ALLA STATINA AD ALTO DOSAGGIO

In molti pazienti il raggiungimento dei valori target di LDL-colesterolo (LDL-C) è reso difficoltoso dall’intolleranza alle statine ad alto dosaggio. In questo contesto, ricercatori italiani hanno voluto approfondire il ruolo di ezetimibe e dei nutraceutici, che potrebbero essere utili per migliorare il profilo lipidico nei pazienti in cui non è possibile titolare la statina. In particolare, questo studio ha valutato la somministrazione di una statina a basso dosaggio in combinazione con ezetimibe o con Armolipid Plus, un nutraceutico contenente riso rosso, policosanoli e berberina, al fine di valutare se queste associazioni possano aumentare la percentuale di pazienti che raggiunge il target di LDL-C. Obiettivo secondario dello studio era quello di analizzare l’efficacia della tripla combinazione statina a basso dosaggio+ezetimibe+nutraceutico nei pazienti resistenti (colesterolo LDL-C > 70 mg/dl). Lo studio, prospettico randomizzato in singolo cieco, è stato condotto in 100 pazienti con coronaropatia sottoposti a rivascolarizzazione percutanea nei precedenti 12 mesi, con intolleranza alle statine ad alto dosaggio e un assetto lipidico non a target (LDL-C <70 mg/dl) con la sola statina a basso dosaggio. I partecipanti sono stati randomizzati a ricevere l’associazione statina a basso dosaggio+ezetimibe o statina+nutraceutico. Tra questi, 33 pazienti trattati con statina+ezetimibe (66%) e 31 trattati con statina+nutraceutico (62%) hanno raggiunto il target di LDL-C dopo tre mesi, mantenendolo anche a 6 mesi. I pazienti che non avevano raggiunto il target sono stati trattati con la triplice associazione statina+ezetimibe+nutraceutico per altri 3 mesi: a 6 mesi, 28/36 pazienti (78%) avevano raggiunto il target. Nel complesso, il 92% dei pazienti arruolati nello studio ha raggiunto il target di LDL-C a 6 mesi dall’inizio del trattamento e nessun paziente ha riportato effetti collaterali maggiori.

Am J Cardiol (IF=3.171) 123:233,2019

ANNO NUOVO, NUOVA ALIMENTAZIONE. ECCO LE CINQUE INDICAZIONI DELL’OMS CONTRO OBESITÀ, MALATTIE CARDIACHE, DIABETE E DIVERSI TIPI DI CANCRO

Un’alimentazione sana ed equilibrata offrirà molti benefici nel nuovo anno e non solo. L’OMS, in occasione dell’inizio del nuovo anno, fornisce una serie di consigli sull’alimentazione perché quello che mangiamo e beviamo può influenzare la capacità del nostro corpo di combattere le infezioni e la probabilità di sviluppare una serie di malattie. Una sana alimentazione aiuta a proteggere dalla malnutrizione, in tutte le sue forme, e dalle malattie non trasmissibili (NCD), tra cui diabete, malattie cardiache, ictus e diversi tipi di cancro. I componenti di una sana alimentazione variano in funzione di diversi fattori come età, livello di attività fisica e disponibilità nella comunità in cui si vive. L’apporto energetico (calorie assunte) deve essere in equilibrio con il dispendio energetico (calorie consumate). Pratiche alimentari sane vanno iniziate presto nella vita; per es. l’allattamento al seno favorisce una crescita sana, migliora lo sviluppo cognitivo e può avere benefici per la salute a lungo termine, come ridurre il rischio di sovrappeso o obesità e di sviluppare NCD in età avanzata.

Per gli adulti, una sana alimentazione include i seguenti ingredienti.
Almeno 400 g (ovvero cinque porzioni) al giorno di frutta (fresca e a guscio), verdura, legumi (es. lenticchie e fagioli) e cereali integrali (es. mais non trasformato, miglio, avena, frumento e riso integrale); vanno escluse patate, patate dolci, manioca e altre radici ricche di amido.
Meno del 10% dell’apporto energetico da zuccheri liberi, che equivale a 50 g (circa 12 cucchiaini) per una persona con peso corporeo normale che consuma circa 2000 calorie al giorno. L’assunzione di zuccheri scende a meno del 5% dell’apporto energetico per ottenere ulteriori benefici per la salute. Gli zuccheri liberi sono quelli aggiunti a cibi o bevande dal produttore, cuoco o consumatore, così come gli zuccheri naturalmente presenti nel miele, sciroppi, succhi di frutta e concentrati di succo di frutta.
Meno del 30% dell’apporto energetico da grassi. I grassi insaturi (che si trovano in pesce, avocado, frutta a guscio, e nei semi di girasole, soia, colza e oliva) sono preferibili ai grassi saturi (presenti nella carne grassa, burro, olio di palma e cocco, panna, formaggio, burro chiarificato e strutto), la cui assunzione deve fornire meno del 10% dell’apporto energetico totale. I grassi trans prodotti industrialmente (contenuti in cibi fritti e al forno, snacks e alimenti preconfezionati, come pizza surgelata, torte, biscotti, wafer, e oli da cucina e da spalmare) non fanno parte di una dieta sana e dovrebbero essere evitati.
Meno di 5 g di sale (equivalente a circa un cucchiaino) al giorno. Il sale dovrebbe essere iodato.

VARIA I CIBI
Il corpo umano è incredibilmente complesso e nessun singolo alimento (ad eccezione del latte materno per i bambini) contiene tutti i nutrienti di cui abbiamo bisogno per vivere al meglio. La nostra alimentazione deve quindi contenere una grande varietà di cibi freschi e nutrienti per mantenerci sani e in forma.
Nella tua alimentazione quotidiana, mira a mangiare una miscela di alimenti di base, come grano, mais e riso, con l’aggiunta di legumi (come lenticchie e fagioli), molta frutta (fresca e con guscio) e verdura, e quantità moderate di alimenti da fonti animali (carne, pesce, uova e latte).
Scegli cibi integrali come mais non trasformato, miglio, avena, grano e riso integrale quando puoi; sono ricchi di fibre preziose e possono conferire un maggior senso di sazietà.
Scegli carni magre, ove possibile, o rimuovi il grasso visibile.
Prova a cuocere a vapore o bollire invece di friggere i cibi durante la cottura.
Per spuntini, scegli verdure crude, noci senza sale e frutta fresca, piuttosto che cibi ricchi di zuccheri, grassi o sale.

CONTROLLA L’ASSUNZIONE DI GRASSI
Tutti noi abbiamo bisogno di un po’ di grasso nella nostra dieta, ma mangiarne troppo – soprattutto dei tipi sbagliati – aumenta i rischi di obesità, malattie cardiache e ictus.
Sostituisci burro, lardo e margarine con oli sani, come olio di oliva extravergine, soia, colza, mais, cartamo e girasole.
Scegli carne bianca, come il pollame, che è generalmente più povera di grassi rispetto alla carne rossa, o pesce, che è ricco di grassi omega-3, e limita il consumo di carni lavorate.
Controlla le etichette ed evita sempre tutti gli alimenti elaborati, veloci e fritti, che contengono grassi trans prodotti industrialmente (si trovano spesso in margarina, burro chiarificato, e snack preconfezionati).

LIMITA L’ASSUNZIONE DI ZUCCHERO
Troppo zucchero non solo è dannoso per i nostri denti, ma aumenta il rischio di aumentare di peso e diventare obesi, con problemi di salute cronici e gravi. È importante quindi controllare l’assunzione di zuccheri, tenendo conto della quantità di zuccheri “nascosti”, contenuti nei cibi e nelle bevande lavorati; una singola lattina di “soda” può contenere fino a 10 cucchiaini di zucchero aggiunto!
Limita l’assunzione di dolci e bevande zuccherate come bibite gassate, succhi di frutta, acqua aromatizzata, bevande energetiche e sportive, the e caffè pronti da bere e bevande al latte aromatizzate.
Scegli spuntini freschi e sani piuttosto che lavorati.
Evita di somministrare alimenti zuccherati ai bambini.

LIMITA LA QUANTITÀ DI SALE
Troppo sale può aumentare la pressione arteriosa, favorendo l’insorgenza di malattie cardiache e ictus. La maggior parte delle persone in tutto il mondo mangia troppo sale: in media, consumiamo il doppio del limite raccomandato dall’OMS di 5 g (equivalente a un cucchiaino) al giorno. Anche se non aggiungiamo sale nel cibo che prepariamo, dobbiamo essere consapevoli del fatto che molti alimenti o bevande lavorati sono comunemente addizionati di sale, e spesso in quantità elevate.
Durante la cottura e la preparazione di cibi, usa il sale con parsimonia e riduci l’uso di salse e condimenti salati (come salsa di soia, brodo o salsa di pesce).
Evita gli snack ad alto contenuto di sale e scegli spuntini freschi e salutari piuttosto che alimenti trasformati.
Quando utilizzi verdure in scatola o essiccate, noci e frutta, scegli le varietà senza aggiunta di sale.
Rimuovi i condimenti salati dal tavolo e cerca di evitare di aggiungerli per abitudine; le nostre papille gustative possono regolarsi rapidamente e una volta adattate al nuovo regime alimentare, è probabile che tu goda il cibo con meno sale, ma più gusto.
Controlla le etichette degli alimenti che acquisti e scegli prodotti con contenuto di sodio inferiore.

LIMITA L’ASSUNZIONE DI ALCOL
L’OMS avverte che non esiste un livello sicuro di assunzione di alcol; per molte persone anche un consumo ridotto di alcolici può comportare rischi significativi per la salute.
Ricorda, meno alcol è sempre meglio per la salute ed è perfettamente ok non bere.
Non dovresti bere alcolici se: sei incinta o in allattamento; devi guidare, utilizzare macchinari o intraprendere altre attività che comportano rischi legati a scarsa attenzione; hai problemi di salute che possono essere peggiorati dall’alcol; stai assumendo medicinali che interagiscono direttamente con l’alcol; hai difficoltà a controllare il tuo bere.
Se pensi che il tuo compagno o qualcuno che ami possa avere problemi con l’alcol (o altre sostanze psicoattive), non aver paura di chiedere aiuto al tuo operatore sanitario o a un servizio specializzato. L’OMS ha anche sviluppato una guida di auto-aiuto per fornire indicazioni alle persone che cercano di ridurre o interrompere l’uso di alcol.

L’ATTIVITÀ FISICA PUÒ RALLENTARE IL DETERIORAMENTO COGNITIVO

Gli anziani che presentano già un deterioramento cognitivo, ma non demenza, potrebbero trarre giovamento, per quanto riguarda la capacità di pensiero, dal praticare un’attività fisica aerobica come camminare o andare in bicicletta qualche volta a settimana.
I ricercatori, guidati da James Blumenthal del Duke University Medical Center di Durham, North Carolina, hanno studiato 160 adulti, con un’età media di 65 anni, sedentari e con deterioramento cognitivo, ma senza demenza. I partecipanti sono stati assegnati in modo randomizzato a 4 gruppi: 1) attività fisica aerobica tre volte a settimane, 2) counseling nutrizionale e dieta sana per il cuore, 3) attività fisica aerobica e counseling nutrizionale, 4) gruppo di controllo, che non ha cambiato abitudini alimentari o motorie.
I partecipanti assegnati al gruppo (1) hanno svolto tre sessioni settimanali di 45 minuti, composte da 10 minuti di riscaldamento e 35 minuti di attività come camminare, fare jogging o andare in bicicletta. Per i primi tre mesi, si sono allenati al 70% della loro frequenza cardiaca massima, mentre per i successivi tre mesi lo hanno fatto all’80%.
I soggetti nel gruppo (2) sono state informati su come seguire la dieta DASH, che prevede un’alimentazione povera di sodio e ricca di fibre con molta frutta e verdura, fagioli, noci, latticini a basso contenuto di grassi, cereali integrali e carni magre. L’end-point primario era costituito da un composto di misure derivate da vari tests che valutavano diverse funzione cognitive (come capacità di pensiero, linguaggio, memoria…).
I soggetti nel gruppo di controllo non hanno mostrato miglioramenti nelle funzioni cognitive; di fatto, in media, le loro funzioni sono leggermente calate, l’equivalente di sei mesi di invecchiamento. La sola dieta DASH non ha influito sulle capacità cognitive, che sono migliorate invece nei soggetti assegnati al gruppo (2), un miglioramento equivalente all’annullamento di quasi nove anni di invecchiamento. In particolare, l’attività fisica ha migliorato capacità di pensiero note come funzioni esecutive, che riguardano la capacità di  controllare il proprio comportamento, prestare attenzione, organizzare idee e raggiungere obiettivi; non ha invece migliorato la memoria. I miglioramenti più evidenti delle funzioni cognitive sono stati osservati negli individui del gruppo (3), che hanno seguito il programma di attività fisica e dieta DASH, indicando che la dieta potrebbe potenziare gli effetti dell’attività fisica.
Attualmente non esistono terapie mediche approvate per fermare o annullare il deterioramento cognitivo legato all’età; questo studio dimostra che cambiamenti nello stile di vita possono ritardare di alcuni anni il decadimento di alcune funzioni cognitive.

Neurology (IF=8.055) Dec 2018, doi: 10.1212/WNL.0000000000006784

L’AUTO-MISURAZIONE INDIVIDUALE DOMICILIARE DELLA PRESSIONE ARTERIOSA È FONDAMENTALE PER LA DIAGNOSI DELL’IPERTENSIONE

 Le recenti linee guida europee per il trattamento dell’ipertensione arteriosa hanno importanti novità tra le quali spicca la raccomandazione a un maggior utilizzo delle misurazioni della pressione arteriosa (PA) al di fuori dell’ambulatorio del medico, in particolare l’auto-misurazione domiciliare. Questa raccomandazione risponde a diverse esigenze, tra cui la disponibilità di un ulteriore strumento per confermare la presenza di ipertensione arteriosa e la possibilità di diagnosticare la presenza di ipertensione da camice bianco (caratterizzata da valori di PA elevata in ambulatorio medico ma PA normale domiciliare) o mascherata (caratterizzata invece da PA normale in ambulatorio ma PA elevata domiciliare). L’ipertensione da camice bianco è presente del 30% degli individui (>50% nei pazienti molto anziani) e dipende dalla reazione d’allarme alla misurazione da parte del medico. L’ipertensione mascherata è presente in circa il 15% dei pazienti con valori normali di PA misurata nell’ambulatorio medico, ed è associata a stress, obesità, diabete, malattia renale cronica, e familiarità di ipertensione. Inoltre l’auto-misurazione della PA da parte del paziente può avere effetto positivo sull’aderenza alla terapia e sul controllo pressorio

I valori da riportare al medico sono rappresentatati dalla media delle misurazioni ottenute con un apparecchio semiautomatico (acquistabile in farmacia), ottenute in almeno 3 giorni (anche se meglio 6-7 giorni) consecutivi, prima di ogni visita ambulatoriale. È importante che il paziente venga istruito a eseguire due misurazioni a distanza di 1-2 minuti al mattino e alla sera; il paziente deve essere seduto da almeno 5 minuti, comodamente, in modo che la schiena sia correttamente supportata dallo schienale della sedia e che l’avambraccio sia appoggiato su una superficie (per esempio di un tavolo o di una scrivania) in modo che il braccio sia all’altezza del cuore.

L’importanza di ottenere dati dall’auto-misurazione domiciliare è sostenuta dagli studi che dimostrano una migliore riproducibilità, una migliore correlazione alla presenza di danno d’organo mediato dall’ipertensione e un maggior valore predittivo degli eventi cardiovascolari rispetto alla PA misurata in ambulatorio medico.

PRODOTTI AGROALIMENTARI TRADIZIONALI: LA JOTA

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

La jota è una minestra di fagioli, crauti e patate che viene consumata nel Friuli Venezia Giulia, in Carnia e nel goriziano. Il nome jota deriva dal latino jutta che fa riferimento a un beverone o una brodaglia. È una minestra che nasce nelle zone rurali dove, per sfruttare gli avanzi di fagioli e di cavolo cappuccio fermentato (chiamato “garbi” a Trieste), si cucinava un piatto che doveva durare per più giorni. Nel tempo la ricetta è stata arricchita con nuovi ingredienti: spezie, aromi, avanzi di carne di maiale. La ricetta triestina è forse quella più diffusa e più vicina a quella tramandata nel tempo: i fagioli  vengono lessati  in una pentola con una foglia di alloro mentre in un’altra pentola si fa un soffritto con l’aglio e olio aggiungendo i crauti che vengono coperti  a raso con acqua, aggiustando quindi con cumino, sale pepe. Poi si tagliano a pezzetti le patate e si portano a cottura con i fagioli, si passa il tutto fino ad ottenere una densa purea che si versa sui crauti. Per ultimo, in un pentolino con olio si tosta un po’ di farina che  viene aggiunta alla minestra. La jota cosi si presenta nel suo bel colore bruno e può finalmente essere servita calda e gustata con crostini di pane.

LA RIGIDITÀ ARTERIOSA È UN PREDITTORE DI SVILUPPO DI DEMENZA

Sono sempre più numerose le evidenze di un’associazione tra i tradizionali fattori di rischio cardiovascolare (diabete mellito, ipertensione arteriosa,…) e i disturbi cognitivi, compresa la malattia di Alzheimer. Nello studio che vi proponiamo oggi, ricercatori francesi hanno analizzato la relazione tra alcuni indicatori di invecchiamento vascolare e progressione da decadimento cognitivo (Mild Cognitive Impairment, MCI) a demenza.

Sono stati arruolati 375 anziani con MCI, seguiti annualmente per individuare l’eventuale progressione a demenza. È stata misurata la rigidità arteriosa mediante Pulse Wave Velocity (PWV) carotido-femorale (vedi articoli su questo sito), mentre la struttura vascolare è stata analizzata con metodica ultrasonografica, valutando lo spessore medio intimale carotideo, il diametro della carotide e la presenza di placche carotidee. Durante il follow-up medio di 4.5 anni, 105 pazienti (28%) hanno mostrato una progressione da MCI a demenza. Questi pazienti presentavano una PWV significativamente più elevata (12.7 vs 11.4 m/s; p<0.01), un maggiore spessore medio-intimale (0.85 vs 0.82 mm; p=0.03) e una maggiore presenza di placche carotidee (41.2% vs 21.3%; p<0.01). Avevano inoltre valori pressori sistolici più elevati. Una volta suddivisi in quartili di PWV, i pazienti che si collocavano nel terzo e quarto quartile presentavano un maggior rischio di progressione a demenza (rispettivamente HR 2.13; 95% CI, 1.13–4.02; p=0.02 e HR 3.54; 95% CI 1.93–6.48; p<0.01).

All’analisi multivariata, valori più elevati di PWV erano predittivi di un maggior rischio di progressione a demenza, dopo aggiustamento per età, sesso, scolarità, pressione sistolica, malattie cardiovascolari, BMI, assunzione di calcio-antagonisti, punteggio basale al Mini–Mental State Examination (MMSE) e status apoE ε4. Inoltre, l’età, un punteggio più basso al MMSE basale e l’allele apoE ε4 erano associati a un maggior rischio di progressione a demenza. Lo spessore medio-intimale, la presenza di placche carotidee e il diametro carotideo non hanno mostrato alcun valore predittivo di progressione a demenza.

Pertanto, la rigidità arteriosa stimata mediante PWV è associata al rischio di progressione dell’MCI a demenza e può quindi fornire informazioni utili a identificare i pazienti che presentano un maggior rischio di sviluppare demenza. Inoltre, potrebbe rappresentare un target di trattamento, al fine di ritardare o addirittura prevenire l’evoluzione a demenza.

Hypertension (IF=6.823) 72:1109,2018

QUANDO ASSUMERE LA TERAPIA ANTIPERTENSIVA?

Il dilemma se assumere il trattamento antipertensivo al mattino, per coprire soprattutto le ore nel giorno in cui gli stimoli ipertensivanti sono maggiori, o alla sera, per ripristinare o implementare il “dipping pressorio”, ossia il fisiologico decremento notturno della pressione arteriosa, ha interessato a fasi alterne il dibattito scientifico tra gli ipertensiologi. Lo studio Hellenic-Anglo Research into Morning or Night Antihypertensive Drug Delivery (HARMONY) è stato disegnato specificamente per verificare se la somministrazione di farmaci antipertensivi nell’orario “canonico” (06.00-11.00) o in quello pomeridiano-serotino (18.00-23.00) potesse avere una diversa efficacia in termini di controllo pressorio delle 24 ore. Lo studio ha arruolato 103 pazienti di età compresa tra i 18 e gli 80 anni, stabilmente in trattamento con almeno un farmaco antipertensivo e con pressione discretamente controllata (≤150/90 mmHg). I pazienti sono stati randomizzati ad assumere il trattamento antipertensivo in una delle due fasce orarie previste dallo studio per 12 settimane per poi passare ad assumere il trattamento per ulteriori 12 settimane nella seconda delle due fasce orarie, secondo un disegno cross-over. Ogni paziente è stato sottoposto a monitoraggio pressorio delle 24 ore al momento dell’arruolamento e al termine di ciascuna delle due fasi dello studio. L’analisi dei risultati relativi ai 95 pazienti che hanno completato lo studio ha evidenziato per i due regimi di somministrazione della terapia una simile riduzione della pressione arteriosa diurna (07.00-22.00), notturna (22.00-07.00) e delle 24 ore. L’analisi dei dati stratificata per età (65/65 anni) o sesso non ha evidenziato differenze significative. Le evidenze dello studio HARMONY dimostrano che il momento dell’assunzione del trattamento non è un determinante rilevante della risposta a una buona terapia antipertensiva, togliendo in tal modo ogni alibi a chi adduce motivazioni di carattere orario per giustificare una scarsa aderenza al trattamento antipertensivo, vero fattore di rischio occulto nella prevenzione cardiovascolare. I risultati dello studio Treatment in Morning versus Evening (TIME), che ha arruolato 10.200 pazienti seguiti per 10 anni, ci diranno nel prossimo futuro se i due regimi orari di somministrazione potranno garantire anche la medesima protezione cardiovascolare. Nel frattempo, non appare inutile ricordare di tenere sempre nella debita considerazione la ridotta capacità adattativa del circolo cerebrale dell’iperteso anziano ai cambiamenti posturali. Un trattamento antipertensivo assunto di sera potrebbe determinare, sommando i suoi effetti ipotensivanti al fisiologico dipping pressorio notturno, una riduzione pressoria eccessiva rispetto alle capacità di autoregolazione del flusso ematico cerebrale, condizionando problemi di ipoperfusione. Ciò è soprattutto vero per i farmaci che possono interferire con la risposta adattativa del circolo ai cambiamenti posturali (alfa litici e beta-bloccanti) e creare, quindi, situazioni di potenziale pericolosità in occasione dei non infrequenti risvegli notturni degli anziani.

Hypertension (IF=6.823) 72:870,2018

SPRECO ZERO

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Il 16 ottobre è stata la giornata dell’alimentazione. Il progetto Reduce-Spreco Zero del Ministero dell’ambiente ha raccolto numerosi dati interessanti: nel mondo sono 815 milioni le persone che soffrono la fame; una  persona  su tre  è malnutrita e una  persona su otto soffre di obesità. Il cibo che ogni anni finisce nella spazzatura ammonta a 37 kg per individuo. In Italia i Diari di Famiglia dello spreco hanno evidenziato che le famiglie ogni giorno  gettano circa 100 grammi di cibo a testa, cioè 36.92 chili l’anno per un costo di 250 euro annui (a persona!). Gli alimenti che più di tutti finiscono tra i rifiuti sono la verdura e la frutta, seguite dai latticini e dai prodotti da forno. Nelle mense scolastiche si è calcolato che un 1/3 dei pasti viene gettato. Rispetto al 2016 c’è stata molta sensibilizzazione e i dati sono migliorati  con un risparmio del 40%  sul cibo sprecato, ma le cifre  sono ancora importanti.  In questa ottica, in accordo con le raccomandazioni della FAO, è stato stilato un decalogo per predisporre la popolazione a contenere  lo spreco alimentare mediante  gesti concreti e facili da applicare.

I GRANI ANTICHI

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Si sente parlare sempre più spesso di grani antichi, attribuendo loro qualità benefiche maggiori rispetto a quelli di uso comune. Sull’argomento esiste una grande disinformazione, che tende a confondere il consumatore; sarebbe meglio definire i grani antichi cereali originari, per meglio chiarire la loro provenienza e le caratteristiche nutrizionali. Khorasan, Cappelli, Timilia sono i più diffusi grani tornati in voga in questi ultimi anni. Il Khorsan, più conosciuto come Kamut, viene prodotto in Canada. Il Cappelli (prende nome da un senatore che fece una importante riforma agraria) fu ottenuto dall’incrocio di due grani duri (Rieti e varietà tunisina) nei primi del novecento; è molto pregiato e diffuso nell’Italia meridionale. Il farro è il più antico, consumato in abbondanza già dai romani, oggi presenta tre varietà: monococco il più digeribile, il dicocco con  un basso indice glicemico e lo spelta, che è un ibrido tra il frumento e il farro. Ma allora quali sono i vantaggi e gli svantaggi di grani antichi e tradizionali per il consumatore? Nella tabella sono a confronto le due tipologie di grani.