L’OBESITÀ (MA ANCHE IL SOTTOPESO) PUÒ COSTARE 4 ANNI DI VITA

Essere troppo grassi o troppo magri può costare quattro anni di vita. È il risultato di uno studio che ha coinvolto più di 3 milioni e mezzo di individui registrati presso gli ambulatori del Regno Unito. L’indagine, che qui è limitata ai quasi due milioni (1.969.648) di non-fumatori, ha messo in relazione l’indice di massa corporea (BMI, calcolato dividendo il peso in chilogrammi per il quadrato dell’altezza espressa in metri) e mortalità. Il risultato mostra che tale relazione si esprime in una curva a U, con la mortalità più bassa negli individui con BMI di 21-25 kg/m2. Un BMI troppo alto o troppo basso si associa a un eccesso di mortalità per quasi tutte le principali cause di morte (cancro, malattie cardiovascolari e respiratorie), ma non per incidenti che coinvolgono mezzi di trasporto.
Esiste poi una relazione inversa tra BMI (fino al valore di 24-27 kg/m2) e mortalità dovuta a malattie mentali, comportamentali o neurologiche.
L’aspettativa di vita per gli individui obesi (BMI ≥ 30 kg/m2) è più corta di 4 anni e due mesi per gli uomini e di 3 anni e cinque mesi per le donne, rispetto ai normopeso (BMI 18.5-25 kg/m2). Negli individui sottopeso (BMI<18.5 kg/m2) l’aspettativa di vita è di 4 anni e tre mesi più breve per gli uomini e di 4 anni e cinque mesi per le donne.
La relazione tra BMI e mortalità è più forte nei giovani che negli anziani, nei quali il valore di BMI associato alla mortalità più bassa è più elevato che nei giovani, quasi a indicare che un certo aumento di peso con l’avanzare dell’età, purché contenuto, possa addirittura promuovere la longevità.

Lancet Diabetes & Endocrinology (IF=19.313) 30 Oct 2018. doi: 10.1016/S2213-8587(18)30288-2.

ANCORA UN ALLARME SULL’EFFICACIA DELL’ASPIRINA IN PREVENZIONE PRIMARIA. QUESTA VOLTA NELL’ANZIANO

Una serie di grandi studi clinici sta sollevando importanti dubbi sull’efficacia dell’aspirina in prevenzione primaria. Alla fine di agosto, i risultati degli studi ASCEND e ARRIVE, che hanno reclutato quasi 30.000 individui a rischio cardiovascolare moderato o diabetici senza malattia cardiovascolare (ne abbiamo parlato su questa pagina), avevano dimostrato l’assenza di benefici da aspirina sulla mortalità e sugli eventi cardiovascolari. Ora un terzo colpo si abbatte sulla molecola. Sono stati pubblicati, in tre articoli contemporanei sul New England Journal of Medicine, i risultati dello studio ASPREE (Aspirin in Reducing Events in the Elderly), condotto in più di 19.000 individui di età superiore a 70 anni, senza malattie cardiovascolari, demenza o disabilità, quindi ancora in prevenzione primaria. Il trattamento consisteva in 100 mg/die di aspirina o placebo, e l’end-point primario era un composito di mortalità, demenza e disabilità. Lo studio è stato terminato in anticipo, dopo 4.7 anni di follow-up, perché le analisi dimostravano che non ci sarebbe stato alcun beneficio sull’end-point primario nel continuare il trattamento con aspirina. Ecco i risultati.

La mortalità totale è più elevata del 14% nei pazienti trattati con aspirina (HR, 1.14; 95% CI, 1.01-1.29). In particolare, si è riscontrato un aumento della mortalità per cancro (HR, 1.31; 95% CI, 1.10-1.56), come già osservato nello studio ASCEND, e peraltro a oggi inspiegabile . L’incidenza di eventi cardiovascolari è ridotta, seppur modestamente e in maniera non statisticamente significativa, dall’aspirina (HR, 0.95; 95% CI, 0.83-1.08). Questo potenziale beneficio è però controbilanciato da un eccesso di emorragie (HR, 1.38; 95% CI, 1.18-1.62). L’aspirina non ha alcun effetto sull’insorgenza di demenza e grave disabilità.

Il risultato globale emerso da questi tre grandi studi è perlomeno scoraggiante. In tre categorie diverse di individui (a rischio cardiovascolare moderato, diabetici e anziani) non affetti da malattie cardiovascolari la somministrazione di una bassa dose giornaliera di aspirina (peraltro quella raccomandata dalle linee guida internazionali) si è rivelata inefficace nel prolungare la vita e ridurre gli eventi cardiovascolari. Aumenta invece il rischio di sanguinamento e forse di cancro. Alla luce di queste evidenze appare chiaro che non tutti i pazienti traggono beneficio dalla somministrazione di aspirina in prevenzione primaria (ferma restando l’indicazione in prevenzione secondaria).

Va ricordato che già prima dei risultati di ASPREE, ARRIVE e ASCEND, nel 2016, la United States Preventive Services Task Force (USPSTF) aveva rivisto le raccomandazioni in materia, affermando che l’aspirina a basse dosi in prevenzione primaria deve essere utilizzata negli adulti di età compresa tra 50 e 59 anni con un rischio cardiovascolare a 10 anni ≥10%, non a rischio di sanguinamento, e con un’aspettativa di vita di almeno 10 anni. L’utilizzo di aspirina in individui di età compresa tra 60 e 69 anni, con un rischio cardiovascolare a 10 anni ≥10%, deve essere valutato su base individuale analizzando i potenziali rischi/benefici. Infine l’ USPSTF afferma che non vi sono prove sufficienti per raccomandare la somministrazione di aspirina in soggetti di età ≥70 anni.

 

New Engl J Med (IF=79.260) 379:1499,1509,1519;2018

PRODOTTI AGROALIMENTARI TRADIZIONALI: LA SHTRIDHLA

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Piatto dal nome complicato, in realtà poverissimo. Si consuma in Basilicata e si dice che fu introdotto da profughi albanesi nel 1500. La preparazione di questa pasta fresca segue le tradizioni della cucina arberësche dove ancor oggi si usa la ksistra (paletta di ferro per il taglio della pasta), la druga (il mattarello), lo shkanatur (il tavolo di preparazione). L’impasto è formato da una miscela di farina di carosella e semola, olio e uova. Si ottengono dei bastoncini tipo matassa di 20, 30 centimetri di lunghezza, che una volta cotti in acqua bollente sono conditi con sugo di carne o al pomodoro. La particolarità di questo tipo di pasta è l’uso della farina di carosella. Si tratta un grano antichissimo coltivato solo nel sud Italia, che viene usato nella produzione della pasta perché, pur essendo un grano tenero, ha un buon contenuto di glutine e semola (caratteristica  del grano duro), mantenendo cosi una buona cottura. Come tutti i cosiddetti grani antichi, anche il grano carosella non ha subito incroci con altri grani preservando tutti i suoi pregi.Tra questi sembra che nelle persone intolleranti al glutine sia quello con meno controindicazioni anche se per ora non esistono studi che lo dimostrino.

LA SALSA DI POMODORO

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Attualmente vengono definiti alimenti funzionali quegli alimenti che per il loro contenuto di componenti naturali vengono consumati nella dieta quotidiana avendo un effetto benefico sull’organismo. Tra questi frutta e verdura rappresentano una buona fonte di  antiossidanti e antinfiammatori e non a caso, l’aumento  del  loro consumo viene raccomandato. Tra gli ortaggi il pomodoro, molto presente nella cucina mediterranea, è riconosciuto da tempo cibo ricco di antiossidanti. Uno studio svolto dall’università Politecnica di Valencia, pubblicato su Journal of Functional Foods, ha evidenziato come probiotici  presenti nell’intestino e gli antiossidanti del pomodoro  possano svolgere un’azione benefica sull’organismo. Lo studio ha dimostrato come L. reutieri, un probiotico normalmente presente nell’intestino e capace di mantenere l’omeostasi microbica, in presenza di licopene e composti fenolici del pomodoro possa aumentare la  propria funzionalità durante il processo digestivo. Infatti i composti antiossidanti proteggono il ceppo di probiotico da perdita di vitalità. Si è dimostrato che la maggior protezione si ottiene quando la salsa di pomodoro è cotta: questo provoca una isomerizzazione del licopene che porta a una sua maggiore biodisponibilità, che  favorisce l’azione di L. reutieri.

RIDURRE IL COLESTEROLO-LDL MIGLIORA LA FUNZIONE ENDOTELIALE

La disfunzione endoteliale, come già ricordato su questa pagina, rappresenta il primo evento nella patogenesi dell’aterosclerosi. È peraltro noto che un aumento della concentrazione del colesterolo-LDL nel sangue favorisce lo sviluppo della disfunzione endoteliale e che la riduzione del colesterolo-LDL in seguito a trattamento farmacologico, p. es. con statine, migliora la funzionalità dell’endotelio.
Un’ulteriore conferma dell’effetto positivo della riduzione della colesterolemia sull’endotelio viene da un piccolo studio condotto da ricercatori foggiani, che hanno analizzato la funzionalità endoteliale, misurando la vasodilatazione flusso-mediata (FMD)(vedi articoli su www.centrogrossipaoletti.org), in 14 pazienti ipercolesterolemici infartuati trattati con evolocumab, l’anticorpo monoclonale anti-PCSK9.

Dopo due mesi di terapia (140 mg due volte al mese), il colesterolo-LDL è sceso del 59% (da 176 mg/dl a 71 mg/dl). L’FMD è aumentato del 40% (da 6.3% a 8.8%). Il miglioramento della funzionalità endoteliale, evidenziato dall’aumento dell’FMD, è proporzionale alla riduzione del colesterolo-LDL.

Ridurre il colesterolo-LDL, indipendentemente dal farmaco utilizzato, migliora rapidamente la funzionalità endoteliale, contribuendo così alla riduzione degli eventi cardiovascolari.

J Clin Lipidol (IF=3.580) 12:669, 2018

PER IL CUORE UN ANTINFIAMMATORIO NON STEROIDEO NON VALE L’ALTRO

In parte già note, le indicazioni che vengono da un grande studio di coorte danese, condotto su impulso dell’EMA, confermano che al momento di iniziare un trattamento cronico con un antinfiammatorio non steroideo è opportuno valutare attentamente il rapporto rischio/beneficio. In particolare se si tratta del diclofenac, farmaco che ha una selettività per la ciclossigenasi-2 analoga a quella dei cosiddetti COX2-inibitori, i cui effetti negativi sulla salute di cuore e vasi sono noti da tempo. I ricercatori hanno valutato il rischio di eventi cardiovascolari maggiori (MACE: morte cardiovascolare, infarto e ictus non fatali, insufficienza cardiaca e fibrillazione atriale) nel corso dei primi 30 giorni di terapia, in individui non affetti da malattie cardiovascolari, epatiche, renali o cancro, che cominciano un trattamento con diclofenac (1.370.832) rispetto a coloro cui viene prescritto ibuprofene (3.878.454), naprossene (291.490), paracetamolo (764.781) oppure nessun farmaco (1.303.209).

L’uso del diclofenac, anche a basso dosaggio, aumenta i MACE del 50% rispetto ai pazienti che non assumono nessuno farmaco antinfiammatorio, del 20% rispetto a chi viene trattato con ibuprofene o paracetamolo, e del 30% rispetto a chi assume naprossene. In termini assoluti, l’aumento degli eventi cardiovascolari è più marcato negli individui con rischio cardiovascolare basale più elevato. Secondo gli autori dello studio, ci sarebbero elementi per non rendere disponibile il diclofenac quale farmaco da banco e, comunque, di evitarne l’impiego in prima battuta nei trattamenti prolungati.

BMJ (IF=23.259) 362:k3426, 2018

PRODOTTI AGROALIMENTARI TRADIZIONALI: LA SCHERPADA

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Nata in Lunigiana, la scherpada è una torta di verdure molto povera, che veniva preparata in inverno con le poche  erbe colte nei prati. Ai tempi dei romani rappresentava una offerta votiva a Giano bifronte e veniva chiamata “granfarro”. Le cronache ci raccontano che fin dal 1400 era consumata sia dalla popolazione più povera che dai ricchi castellani. Attualmente è stata riscoperta e anche se non è più cotta nei vecchi “testi” come richiederebbe la vera ricetta, è cucinata in molti paesi liguri e toscani con numerose varianti a seconda della disponibilità delle verdure del territorio. La ricetta consiste in una sfoglia fatta di farina di grano e acqua che contiene un ripieno di biete o altre erbe, zucca, porri, mollica di pane e formaggi del luogo. Cotta nei testi di terracotta o semplicemente in forno viene servita con formaggio grattugiato e olio di oliva extravergine.

100 gr. di scherpada. Kcal 138.47; carboidrati 22.40 g; proteine 5.33 g; lipidi 3.58 g (saturi 1.45 g, monoinsaturi 1.65 g, polinsaturi 0.29 g); fibra 1.43 g.

RISCHIO CARDIOVASCOLARE NEI PAZIENTI CON IPERCOLESTEROLEMIA FAMILIARE (ETEROZIGOTE) TRATTATI CON STATINA

Lo studio che vi proponiamo oggi si è proposto di valutare il rischio di infarto miocardico acuto (AMI) e malattia coronarica (CHD) in pazienti con FH, confrontandolo con quello della popolazione generale. Tutti i pazienti con FH geneticamente diagnosticata in Norvegia sono inclusi nel Registro nazionale UCCG (Unit for Cardiac and Cardiovascular Genetics); il registro include 4273 pazienti, di cui 8 omozigoti. Quelli diagnosticati nel periodo 2001-2009, non affetti da AMI o CHD sono stati inclusi nel campione di studio. La coorte complessiva includeva 2795 pazienti con FH senza CHD e 3071 pazienti con FH senza AMI. L’età media al momento della diagnosi genetica era di 32.7 anni. L’89.1% seguiva una terapia ipocolesterolemizzante, generalmente con statine.
L’età media del primo evento (AMI o CHD) è stata rispettivamente di 56.2 e 55.1 anni.
Il rischio di sviluppare un AMI è 2.3 volte superiore nei pazienti FH (identico per maschi e femmine), rispetto alla popolazione generale. È più elevato nella fascia d’età 25-39 anni, di 7.5 volte (CI 3.7-14.9) negli uomini e di 13.6 volte (CI 5.1-36.2) nelle donne, per poi diminuire con l’età (Figura).

Il rischio di sviluppare CHD è più elevato nelle pazienti FH (4.7 volte, CI 3.9-5.7, rispetto alla popolazione generale che nei maschi FH (4.2 volte, CI 3.6-5.0). Anche in questo caso, il rischio è più elevato nei pazienti giovani e diminuisce con l’età.

Lo studio ha quindi confermato l’aumento del rischio di AMI e CHD nei pazienti FH rispetto alla popolazione generale, particolarmente marcato nei pazienti più giovani. Data la natura genetica della malattia, l’effetto dell’FH sui vasi si estrinseca sin dalla giovane età, con esposizione a livelli elevati di colesterolo e consistente aumento del rischio cardiovascolare. È da notare che l’età media della diagnosi genetica nei pazienti esaminati era di 32,7 anni; se ne può dedurre che essi non siano stati adeguatamente trattati per almeno due decenni. Questi dati ribadiscono la necessità di una diagnosi precoce, e di un avvio tempestivo del trattamento ipocolesterolemizzante.

Heart (IF=5.42) 104:1600, 2018

GRUPPO ITALIANO PAZIENTI FH

Il Gruppo Italiano Pazienti FH, GIP-FH, costituito in associazione l’otto giugno 2015, ha come missione principale quella di garantire gli interessi dei pazienti malati di ipercolesterolemia familiare tramite la promozione di attività di informazione ed educazione mirate a incrementare e diffondere la conoscenza della patologia e delle terapie e trattamenti disponibili per la sua cura.

Per questo scopo l’associazione si propone di:
promuovere attività e progetti di ricerca scientifica focalizzati all’indagine delle cause, del trattamento e della terapia dell’ipercolesterolemia familiare e delle patologie ad essa collegate;
contribuire alla divulgazione delle problematiche relative all’ipercolesterolemia familiare, tramite attività educative e campagne informative e di sensibilizzazione, a livello dell’opinione pubblica e delle autorità istituzionali;
promuovere la diagnosi precoce dell’ipercolesterolemia familiare e della sua prevenzione attraverso l’informazione e l’identificazione di centri specializzati nella diagnosi e nel trattamento terapeutico delle dislipidemie familiari;
collaborare con altre associazioni e gruppi scientifici, in Italia ma anche a livello europeo ed internazionale, attivi nel campo delle dislipidemie familiari e che condividono gli scopi della nostra associazione;
promuovere attività educative e formative, rivolte a personale qualificato medico e paramedico e mirate al miglioramento dell’assistenza dei malati di ipercolesterolemia familiare.

www.gip-fh.it

LE PORZIONI

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

La quantità di cibo che ogni individuo deve assumere per mantenersi in buona salute dipende dall’età, dal sesso e dall’attività fisica svolta. Una corretta alimentazione prevede un apporto calorico bilanciato, ma nella vita quotidiana non sempre è possibile controllarci al meglio. Molto spesso, vuoi per allietare le nostre occasioni conviviali oppure semplicemente per soddisfare la nostra golosità, mangiamo quantità di cibo maggiori di quelle che servono. Ma quanto si deve mangiare? Come possiamo capire se esageriamo nella quantità o qualità di alimenti? La SINU (Società italiana di Nutrizione Umana) ha quantificato in apposite tabelle le porzioni dei vari gruppi di alimenti, intendendo come porzione “la quantità standard di alimento espressa in grammi assunta come unità di misura da utilizzare in una alimentazione equilibrata”. Ovviamente una variazione di pochi grammi non incide significativamente sul nostro bilancio energetico (ad esempio un uovo può pesare 55 o 65 grammi secondo la grandezza). Abituarsi a valutare il peso degli alimenti porta a non sottostimare quello che realmente mangiamo e a renderci più consapevoli del valore degli alimenti.

Fonte SINU (Società Italiana Nutrizione Umana) – LARN 2014 (Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia)