GUARIRE IL DIABETE PERDENDO PESO

È a voi noto che il sovrappeso e l’obesità predispongono all’insorgenza del diabete mellito di tipo 2. Ma vale anche il contrario? Perdendo peso si guarisce dal diabete? La risposta è sì. Lo dimostra lo studio DIRECT, i cui risultati sono stati appena pubblicati sulla prestigiosa rivista Lancet.

Lo studio ha reclutato 306 inglesi e scozzesi ai quali era stato diagnosticato un diabete di tipo 2 nei precedenti 6 anni, con età compresa tra 20 e 65 anni e indice di massa corporea (BMI) tra 27 e 45 Kg/m2 (quindi sovrappeso-obesi). Un gruppo (controllo) è stato trattato con terapia anti-diabetica convenzionale; nell’altro (intervento), la terapia anti-diabetica è stata sospesa e sostituita con un’alimentazione liquida ipocalorica (825-853 Kcal/die) per 3-5 mesi, seguita da una reintroduzione graduale di cibi solidi con supporto dietetico mirato al mantenimento del peso corporeo raggiunto con la dieta liquida. L’obiettivo primario consisteva in una perdita di peso di almeno 15 kg con remissione del diabete [definita come il raggiungimento di un’emoglobina glicata inferiore a  6,5% (< 48 mmol/mol)].

Dopo 12 mesi dal reclutamento, 36 pazienti (24%) del gruppo intervento hanno perso almeno 15 kg di peso (nessuno nel gruppo controllo); 68 pazienti (46%) del gruppo intervento e 6 (4%) del gruppo controllo sono guariti dal diabete. Nell’intera popolazione esaminata, la remissione del diabete è direttamente correlata alla perdita di peso: nessuno dei 76 pazienti che hanno aumentato il peso corporeo durante lo studio è guarito dal diabete, mentre una remissione della malattia è stata osservata in 6 degli 89 pazienti (7%) che hanno perso 0-5 kg, in 19 dei 56 pazienti (34%) che hanno perso 5-10 kg, in 16 dei 28 pazienti (57%) che hanno perso 10-15 kg, e in 31 dei 36 (86%) pazienti che hanno perso più di 15 kg. Quindi si conferma che perdere peso in modo consistente e duraturo non è semplice, ma il beneficio che si ottiene per la salute, in questo caso con la remissione del diabete e l’abbandono di qualsiasi terapia anti-diabetica, è considerevole.

Ovviamente lo studio DIRECT non si proponeva di studiare i meccanismi che sottendono alla relazione perdita di peso-remisssione del diabete, ma le conoscenze accumulate negli ultimi decenni dicono che la perdita di peso migliora la sensibilità insulinica nei muscoli e nel fegato, riduce il grasso viscerale e potrebbe migliorare la secrezione insulinica; nel lungo periodo, il calo ponderale potrebbe anche contribuire a preservare la massa beta-cellulare.

Lancet (IF=47.831) 05 Dic 2017, DOI: http://dx.doi.org/10.1016/S0140-6736(17)33102-1

METABOLISMO DEL MONOSSIDO D’AZOTO

Dalla Sonografista del Centro, Samuela Castelnuovo

Il monossido d’azoto (NO) è il principale fattore di regolazione della funzionalità endoteliale ed è stato il primo fattore di cui si è studiato il ruolo nella regolazione del tono vasale. Agli inizi degli anni ‘80 Furchgott e Zawadzki osservarono come l’acetilcolina fosse in grado di indurre rilassamento di preparati di aorta di coniglio, inducendo il rilascio da parte delle cellule endoteliali di una sostanza labile e diffusibile definita inizialmente fattore di rilassamento derivato dall’endotelio (endothelium-derived relaxing factor, EDRF). Questa vasodilatazione avveniva solo in presenza di endotelio integro: se l’endotelio era rimosso, con metodiche meccaniche o enzimatiche, l’acetilcolina non era più in grado di indurre rilassamento e causava vasocostrizione per stimolazione diretta delle cellule muscolari lisce. Successivamente Furchgott e Ignarro identificarono nel monossido d’azoto questo vasodilatatore endogeno responsabile del rilassamento endotelio-dipendente. I prodotti dell’infiammazione e dell’aggregazione piastrinica, come serotonina, istamina, bradichinina, purine e trombina esercitano tutta o parte della loro azione stimolando il rilascio di monossido d’azoto.

L’NO è sintetizzato a partire da L-arginina e ossigeno molecolare per opera dell’enzima nitrossido sintetasi (NOS), che catalizza l’ossidazione dell’azoto contenuto nella L-arginina, producendo NO e citrullina. La NOS è costituita da un omodimero e ciascuna molecola presenta: a) un dominio C-terminale ad azione riducente, contenente i cofattori nicotinammide adenin dinucleotide fosfato (NADPH) e flavin adenin dinucleotide (FAD); b) un dominio N-terminale ad azione ossidante, contenente eme e il cofattire tetraidrobiopterina (BH4); c) un dominio di legame per la Ca-calmodulina (Ca-CAM). Si conoscono almeno tre isoforme di NOS con localizzazione specifica: la nNOS, localizzata prevalentemente nei neuroni del sistema nervoso centrale e periferico e nel muscolo scheletrico; la iNOS, presente in molti tipi cellulari, fra cui cellule muscolari lisce, endotelio e macrofagi; la eNOS, presente nell’endotelio vascolare, nelle piastrine, nei miociti cardiaci e nei neuroni dell’ippocampo. Le isoforme nNOS ed eNOS sono calcio-sensibili, in quanto caratterizzate da un’attività basale modulata dai livelli di calcio intracellulare, mentre la iNOS produce NO in modo calcio indipendente. Nelle cellule, nNOS ed eNOS sono espresse in modo costitutivo, mentre la iNOS, detta appunto “inducibile”, è espressa solamente quando indotta a livello trascrizionale da stimoli specifici come le citochine. Nelle cellule vascolari, la iNOS è espressa in condizioni di infiammazione o infezione e, una volta stimolata, produce elevate quantità di NO. L’endotelio vascolare produce NO grazie sia all’attività di eNOS che di iNOS; è tuttavia da sottolineare che solo la eNOS è responsabile della vasodilatazione NO-mediata.

Grazie alla sua natura di gas e alle sue caratteristiche lipofile, l’NO generato nella cellula endoteliale diffonde facilmente verso la muscolatura liscia sottostante dove innesca un processo di rilassamento vasale. In particolare, NO attiva la guanilato ciclasi che aumenta la concentrazione intracellulare di GMP-ciclico (c-GMP). Il c-GMP attiva la proteina chinasi GMP-ciclico dipendente o PKG che fosforila proteine bersaglio, provocando una diminuzione dei livelli di calcio intracellulare e un conseguente rilassamento della muscolatura liscia.

NO è un composto altamente instabile e quindi la sua azione è di breve durata; infatti, dopo pochi secondi dalla sua formazione, è ossidato a nitrito oppure a nitrato.

Oltre a regolare la funzionalità endoteliale, NO ha altre numerose importanti funzioni: nel sistema immunitario costituisce un importante effettore della citotossicità indotta dai macrofagi, mentre nei neuroni agisce come mediatore del potenziamento sinaptico a lungo termine della neurotrasmissione non-adrenergica e non-colinergica. Come già detto, non va dimenticato che NO gioca anche un ruolo importante nell’inibizione dell’adesione e dell’aggregazione piastrinica. NO è anche in grado di interagire con altri target come DNA, tioli, gruppo eme o altre proteine contenenti ferro. Infine, interagendo con gli enzimi della catena respiratoria, NO è in grado di modulare la respirazione mitocondriale tissutale.

ATTIVITÀ BIOLOGICHE DELLA CURCUMINA

Numerosi studi in vitro e in modelli animali hanno dimostrato che i curcuminoidi esercitano una serie di effetti potenzialmente favorevoli sul cardiocircolo. Sono in grado di contrastare lo stress ossidativo, hanno attività anti-infiammatoria, modulano il rimodellamento tissutale, aumentano la sensibilità di vari tessuti all’insulina e ne stimolano la secrezione pancreatica, aumentano l’ossidazione epatica di acidi grassi, riducendo la sintesi di trigliceridi, e inibiscono la biosintesi del colesterolo e l’ossidazione delle LDL (Figura).

In linea con le evidenze sperimentali, gli studi clinici hanno confermato l’azione anti-ossidante e anti-infiammatoria della curcumina. Nei pazienti con sindrome metabolica, la supplementazione con curcumina ha determinato una riduzione significativa dei livelli di hs-PCR e dei marcatori di perossidazione lipidica, con un aumento dell’attività della superossido-dismutasi (SOD), mentre in pazienti obesi, la co-somministrazione di curcumina e piperina ha ridotto i livelli circolanti di due interleuchine pro-infiammatorie, IL-1b e IL-4 e di marcatori di stress ossidativo. Due diverse metanalisi dimostrano poi che la somministrazione di curcumina riduce i livelli plasmatici di altre due citochine pro-infiammatorie, IL-6 e TNF-alfa. L’azione anti-infiammatoria della curcumina è generalmente più marcata nel caso di trattamenti prolungati con formulazioni a maggiore biodisponibilità orale.

Gli studi clinici sugli effetti metabolici della curcumina hanno prodotto invece risultati in parte contrastanti con le evidenze sperimentali. In pazienti con steatosi epatica non alcolica (NAFLD), la somministrazione di curcumina ha prodotto un significativo miglioramento del profilo lipidico e glucidico. Nei pazienti con sindrome metabolica la curcumina migliora la glicemia e i livelli di emoglobina glicata, mentre in pazienti diabetici diminuisce l’insulino-resistenza e riduce i livelli plasmatici di trigliceridi e VLDL. Tuttavia, una metanalisi di 5 trials ha mostrato che la curcumina non riduce i livelli di colesterolo totale, colesterolo LDL e trigliceridi. Forse più rilevante è il fatto che la supplementazione con curcumina si è rivelata in grado di migliorare alcuni marcatori surrogati di aterosclerosi, quali la disfunzione endoteliale e la rigidità arteriosa.

Giornale Italiano dell’Arteriosclerosi 8:90, 2017

PANETTONE…O…TORRONE?

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Due dolci delle festività natalizie. Il panettone, tipicamente milanese, sembra che esistesse già nel 1200 come semplice pane arricchito di uva secca e miele. Solo nella prima metà del ‘900 per opera di Angelo Motta si cominciò a produrre il panettone nella forma ora conosciuta in tutto il mondo. Il torrone è diffuso in molte regioni italiane; il più noto è quello di Cremona che prevede l’aggiunta di canditi e aromi. Nato storicamente nel 1441 per festeggiare le nozze di Bianca Maria Visconti, si dice che abbia la forma del Torrazzo simbolo di Cremona.

COS’È LA DISFUNZIONE ENDOTELIALE?

L’endotelio forma il rivestimento interno di arterie e vene, nonché la parete dei capillari. Non costituisce solo una barriera di separazione tra il compartimento ematico e quello tissutale, ma è un vero e proprio organo capace di svolgere un ruolo chiave nella modulazione del tono vascolare, nell’inibizione dell’aggregazione piastrinica, nella proliferazione della muscolatura liscia vascolare e, in determinate condizioni, anche nell’angiogenesi.

In risposta a stimoli fisici e chimici, l’endotelio è in grado di rilasciare numerose sostanze vasoattive. Tra queste sono incluse: il monossido d’azoto (NO), le endoteline, diverse prostaglandine tra cui la prostaciclina, il fattore di crescita endoteliale, il fattore attivante le piastrine (PAF), le molecole di adesione cellulare (VCAM ed ICAM), le citochine, lo ione superossido, l’attivatore tissutale del plasminogeno (tPA), l’inibitore dell’attivatore del plasminogeno (PAI 1), il trombossano A2 ed il fattore Von Willebrand. Parte di queste sostanze sono secrete dalle cellule endoteliali e agiscono su cellule della parete vasale site nelle immediate vicinanze (azione paracrina) o sono immesse in circolo per un’azione a distanza (azione endocrina). Altre molecole prodotte dall’endotelio esplicano la loro azione rimanendo legate alla superficie delle cellule endoteliali che le hanno prodotte: questo è il caso delle molecole di adesione per i leucociti o per quelle coinvolte nella coagulazione. Alcune di queste sostanze sono prodotte costitutivamente, ovvero in condizioni basali in assenza di stimoli, altre in seguito all’attivazione da parte di stimoli spesso di tipo infiammatorio.

Quando la capacità delle cellule endoteliali di elaborare le sostanze prodotte in condizioni fisiologiche è compromessa, si sviluppa una disfunzione endoteliale, che può essere misurata valutando la capacità delle arterie di dilatarsi in risposta a opportuni stimoli. Nelle prossime settimane vedremo come.

 

BIODISPONIBILITÀ DELLA CURCUMINA

La curcumina è un composto a bassa biodisponibilità orale. Questa caratteristica farmacocinetica è riconducibile a diversi fattori. Innanzitutto la sua instabilità, per cui in soluzioni acquose a pH alcalino la curcumina viene degradata per il 90% in circa 30 minuti, mentre in soluzioni a pH acido si degrada di circa il 20% in 1 ora. Inoltre la curcumina è scarsamente solubile in soluzioni acquose, ha un ridotto assorbimento intestinale e subisce un notevole metabolismo di primo passaggio intestinale ed epatico. Dopo assunzione orale, il picco plasmatico di curcumina si osserva a distanza di 1-2 ore, con concentrazioni ematiche non rilevabili a circa 12 ore.

Potenziali strategie finalizzate a incrementare la biodisponibilità orale della curcumina mirano ad aumentare la dose (totale o frazionata) somministrata, potenziarne la stabilità, ridurne l’inattivazione intestinale, impedirne il metabolismo e migliorarne la captazione a livello enterocitario tramite l’inclusione in complessi fosfolipidici, micro-emulsioni, nano particelle e preparati liposomiali, fitosomiali, micellari o polimerici (Figura). Studi di farmacocinetica hanno mostrato un significativo incremento dell’assorbimento intestinale di curcumina con tali formulazioni, che favoriscono il raggiungimento di maggiori concentrazioni plasmatiche, maggiore emivita e maggiore efficacia. Un’ulteriore strategia finalizzata all’incremento della biodisponibilità orale dei curcuminoidi è rappresentata dalla co-somministrazione di sostanze capaci di inibirne la coniugazione, quali la piperina, la quercetina e la silibinina, inibitori naturali della UDP-glucoroniltransferasi, enzima chiave nel metabolismo di primo passaggio intestinale ed epatico dei curcuminoidi.

Giornale Italiano dell’Arteriosclerosi 8:90, 2017

PASTA E FAGIOLI…O…PASTA CON LE SARDE

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Due primi piatti tipici italiani. Il primo, la pasta e fagioli, affonda le radici nella tradizione rurale ed è una pietanza povera ed economica ma estremamente gustosa. Il secondo, la pasta con le sarde, appartiene alla tradizione siciliana, ed è un piatto stagionale perché si utilizzano le sarde fresche e il finocchietto selvatico; portato in tavola a Palermo per la festa di San Giuseppe, è stato dichiarato prodotto agroalimentare tradizionale (PAT). Avendo entrambi un buon potere saziante possono, se seguiti da una fresca insalata, costituire un pasto completo.

 

GLI INIBITORI DEI COTRASPORTATORI DEL GLUCOSIO ANCHE NEL DIABETE DI TIPO 1?

I pazienti con diabete mellito di tipo 1 debbono costantemente assumere insulina per mantenere un adeguato controllo della glicemia. Non esistono in commercio farmaci somministrabili per via orale che possano aiutarli in questa complicata terapia. Lo studio che vi proponiamo oggi apre la strada all’approvazione per il trattamento di questa forma di diabete di una nuova molecola, il sotagliflozin.

Il sotagliflozin appartiene alla famiglia degli inibitori dei cotrasportatori del glucosio SGLT, come empagliflozin, canagliflozin e dapagliflozin, già approvati per il trattamento del diabete di tipo 2. In particolare, il sotagliflozin inibisce sia il cotrasportatore SGLT1 intestinale che l’SGLT2 renale, riducendo così il riassorbimento del glucosio nell’intestino e nel rene.

Lo studio clinico di fase 3, i cui risultati sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine, ha reclutato 1.402 pazienti con diabete di tipo 1 provenienti da 133 centri di ricerca dislocati in 19 Paesi del Mondo, ovviamente trattati con insulina. Metà di essi ha assunto anche sotagliflozin (400 mg/die per os) per un periodo di 24 settimane. L’aggiunta del sotagliflozin ha consentito di aumentare del 30% il numero di pazienti che ha raggiunto valori di emoglobina glicata inferiori al 7%, indice di un buon controllo del metabolismo glicemico. Ha permesso anche di ridurre in modo significativo il fabbisogno di insulina, le ipoglicemie, la pressione arteriosa (meno 3,5 mm Hg di sistolica) e il peso corporeo (meno 2,98 kg).

N Engl J Med (IF=72.406) September 13, 2017DOI:10.1056/NEJMoa1708337

VITAMINA D E DISFUNZIONE ENDOTELIALE

Come sapete, la disfunzione endoteliale gioca un ruolo rilevante nella patogenesi dell’aterosclerosi ed è un fattore di rischio per lo sviluppo di eventi ischemici. La carenza di vitamina D, come l’abbiamo definita la scorsa settimana, ha effetti negativi sulla funzione endoteliale, che potrebbero promuovere l’aterogenesi.

È provato che la carenza di vit. D si associa a una riduzione della vasodilatazione flusso-mediata (flow-mediated dilatation, FMD), un indicatore di disfunzione endoteliale che a sua volta si associa ad aterosclerosi preclinica ed è un predittore di eventi cardiovascolari. D’altro canto, alcuni studi dimostrano che la supplementazione con vit. D in soggetti carenti migliora significativamente la FMD. Una metanalisi di tutti i trials randomizzati disponibili esclude un beneficio della supplementazione, che però potrebbe essere efficace nel migliorare la FMD in alcune categorie di pazienti, che già presentano una disfunzione endoteliale, come gli ipertesi.

I meccanismi attraverso i quali la carenza di vit. D potrebbe favorire l’insorgenza di una disfunzione endoteliale sono diversi e documentati da numerosi studi in vitro. Per es. la vit. D riduce lo stress ossidativo nelle cellule endoteliali, modulando l’espressione delle sirtuine, e limita l’espressione di geni coinvolti nell’apoptosi. Regola poi la contrattilità delle cellule muscolari lisce, modulando i flussi di calcio e la liberazione da parte dell’endotelio di fattori contratturanti derivati dall’acido arachidonico.

FANS E PRESSIONE ARTERIOSA. IBUPROFENE AUMENTA LA PRESSIONE PIÙ DI NAPROSSENE E CELECOXIB

Nel 2015, la Food and Drug Administration (FDA) ha rafforzato gli avvertimenti riguardo ai rischi cardiovascolari dei farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS),sia non selettivi che inibitori selettivi della ciclo ossigenasi-2 (COX-2). Il trial PRECISION, i cui risultati sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine nel 2016, dimostrava che la sicurezza cardiovascolare di celecoxib non era inferiore a quella di naprossene o ibuprofene.

Nel sottogruppo del PRECISION analizzato in questo nuovo studio, 444 pazienti con artrite, è stato condotto un monitoraggio ambulatoriale della pressione sanguigna per 24 ore, all’inizio e dopo quattro mesi di somministrazione di celecoxib (100-200 mg al giorno due volte al giorno), ibuprofene (600-800 mg tre volte al giorno) o naprossene (375-500 mg due volte al giorno). La pressione media iniziale era simile tra i tre gruppi e pari a 125/75 mmHg. Dai risultati emerge che la pressione sanguigna sistolica media aumenta di 3,7 mmHg in chi ha assunto ibuprofene e di 1,6 mmHg in chi ha assunto naprossene, mentre è diminuita di 0,3 mmHg in chi ha assunto celecoxib. Tra i pazienti normotesi all’inizio dello studio si è sviluppata un’ipertensione nel 23,2% dei pazienti in terapia con ibuprofene, nel 19% di quelli in terapia con naprossene, e nel 10,3% di quelli trattati con celecoxib.

Eur Heart J (IF=20.212) 28/8/2017