ANZIANI E CUORE. OBIETTIVI DA CENTRARE PER EVITARE PROBLEMI

Sono sette gli obiettivi individuati dall’American Heart Association (AHA), per promuovere la salute cardiovascolare nella popolazione: 1) non essere in sovrappeso; 2) non fumare o smettere di farlo; 3) svolgere un’attività fisica costante; 4) seguire una dieta sana; 5) essere normotesi; 6) mantenere un livello di colesterolo normale; 7) mantenere la glicemia nella norma.

Nello studio che vi proponiamo oggi, Gaye e colleghi hanno reclutato 7371 uomini e donne di età superiore a 65 anni, e li hanno seguiti per quasi 11 anni. I 7 obiettivi erano da considerarsi raggiunti quando: 1) l’indice di massa corporea (BMI) era <25 kg/m2; 2) il soggetto non fumava o aveva smesso da almeno 12 mesi; 3) il soggetto svolgeva un’attività fisica vigorosa per 75 minuti a settimana o un’attività fisica moderata per almeno 150 minuti a settimana; 4) il soggetto seguiva una dieta che includesse verdure e frutta fresca ogni giorno, pesce due volte o più a settimana e meno di 450 calorie a settimana di zuccheri; 5) la pressione sanguigna era <120/80 mmHg senza assunzione di farmaci; 6) il livello di colesterolo totale era <200 mg/dl senza farmaci; 7) la glicemia era <100 mg/dl senza farmaci. Solo un individuo ha raggiunto tutti i 7 obiettivi di cui sopra, 46 hanno raggiunto 6 obiettivi e 320 ne hanno raggiunti 5; in totale solo il 5% dei partecipanti ha raggiunto almeno 5 obiettivi. Ad eccezione dell’attività fisica e del colesterolo, le donne avevano maggiori probabilità rispetto agli uomini di centrare gli obiettivi.

All’aumentare del numero di obiettivi raggiunti diminuiva la mortalità totale (figura), per malattie cardiovascolari, per cancro. La mortalità era ridotta del 29% nei soggetti che avevano centrato 5-7 obiettivi, e del 16% in quelli che avevano centrato 3-4 obiettivi, rispetto ai soggetti che non raggiungevano più di due obiettivi. In modo analogo, diminuiva il rischio di eventi coronarici e ictus.

Seppur con le dovute limitazioni (quanti anziani oggi non assumono farmaci per il controllo della pressione, del colesterolo o della glicemia?) lo studio dimostra che anche nell’anziano il controllo dei fattori di rischio cardiovascolare produce grandi benefici sulla salute e la sopravvivenza. Dimostra anche che tale beneficio aumenta gradualmente all’aumentare del numero di fattori di rischio portati a livello ottimale. L’obiettivo di un invecchiamento di successo non è l’immortalità, ma il tempo trascorso senza malattia e disabilità. Gli anziani dovrebbero concentrarsi non tanto sul perfetto raggiungimento dei 7 obiettivi di salute cardiovascolare proposti dall’AHA, quanto sul percorso individuale necessario per raggiungere questi obiettivi. Anche un numero limitato di obiettivi raggiunti con pochi sacrifici può essere sufficiente per mantenersi in buona salute e allungare la vita.

Journal of the American College of Cardiology (IF=19.896) 69:3015, 2017

STATINE IN PREVENZIONE PRIMARIA ANCHE NEI GRANDI ANZIANI?

È indubbio che il trattamento con statine in adulti ipercolesterolemici con e senza patologie cardiovascolari, e quindi in prevenzione secondaria e primaria, produca enormi benefici in termini di riduzione della morbilità e mortalità cardiovascolare. Ma lo stesso avviene nel grande anziano (età >75 anni)? La domanda non è di scarso rilievo, visto che la popolazione invecchia sempre più e le aspettative di vita si allungano sensibilmente, nella femmina e nel maschio. D’altro canto, la risposta è incerta, soprattutto per mancanza di adeguati dati scientifici in una popolazione di questo tipo.

Una risposta abbastanza chiara viene da un’analisi dei dati dello studio ALLHAT-LLT (Antihypertensive and Lipid-Lowering treatment to prevent Heart Attack Trial – Lipid Lowering Trial), che ha esaminato gli effetti di un trattamento di 6 anni con pravastatina in soggetti anziani senza patologie cardiovascolari, ipertesi con moderata ipercolesterolemia, suddivisi in anziani (età 65-74 anni) e grandi anziani (età ≥ 75 anni). Ebbene, nel grande anziano la statina non produce alcuna riduzione degli eventi cardiovascolari e della mortalità totale, suggerendo che in questa particolare popolazione i benefici vengano compensati dai rischi, e scoraggiando quindi l’uso del farmaco.

JAMA Internal Med (IF=16.538) 177:955, 2017.

COME VALUTARE LA CREDIBILITÀ DI UN’INFORMAZIONE SCIENTIFICA?

Si parla tanto di “bufale” in riferimento all’informazione scientifica. Ma come ci si può difendere dalle cattive informazioni? In altre parole, esiste un metodo per valutare la credibilità di un’informazione scientifica?

Premesso che tutti, anche i migliori scienziati insigniti del Premio Nobel, possono sbagliare, producendo così informazioni scientifiche errate, ecco alcune regole che vi possono aiutare nel valutare la credibilità di un’informazione scientifica.

1) Il dato scientifico deve essere soggetto al processo di peer review, o revisione dei pari, che consiste in una valutazione accurata del dato scientifico eseguita da esperti del settore, al fine di giudicarne l’ammissibilità alla pubblicazione su una rivista scientifica. Dati scientifici, e quindi pubblicazioni che non siano stati soggetti a una revisione dei pari non sono generalmente considerati scientificamente validi dai ricercatori e dai professionisti del settore, e non dovrebbero essere considerati attendibili dal pubblico.

2) Il dato scientifico è tanto più credibile quanto maggiore è la credibilità della rivista scientifica su cui è stato pubblicato. La classificazione delle riviste scientifiche e la ricerca di metodologie convincenti per la definizione di adeguati ranking delle riviste, specie al fine di valutare la qualità della produzione scientifica, rappresentano un tema molto dibattuto nella comunità scientifica nazionale e internazionale. Negli anni sono stati proposti vari indicatori, tra cui si è andato sempre più affermando il cosiddetto Impact Factor (IF), che è calcolato ogni anno per ogni rivista scientifica (valuta quindi l’attendibilità della rivista su cui il dato scientifico è pubblicato, non l’attendibilità del singolo dato scientifico), e rappresenta il rapporto tra il numero di citazioni raccolte da una rivista e il numero di articoli pubblicati sulla stessa rivista in un determinato arco di tempo (in genere 2 o 5 anni). Come tutti gli indicatori, anche l’IF non è perfetto e soffre di una serie di limitazioni, legate all’abitudine degli autori di auto-citarsi (e quindi aumentare “artificiosamente” il numero di citazioni), al numero di articoli pubblicati da ciascuna rivista, all’area scientifica di riferimento della pubblicazione….Nondimeno rimane, a mio parere, l’indicatore più semplice per valutare l’attendibilità di una rivista scientifica, come dimostrato dalla forte correlazione tra IF e citazioni per pubblicazione scientifica (Figura da Nature Materials 12:89, 2013). Purtroppo l’IF è un prodotto commerciale della Thomson Reuters Corporation, divisione Healthcare & Science, disponibile solo a pagamento. Dalla figura potete farvi un’idea della credibilità delle riviste scientifiche più comuni. Nelle citazioni delle fonti da cui attingerò per i prossimi articoli aggiungerò l’IF, per aiutarvi a valutarne la credibilità.

3) Il dato scientifico è tanto più credibile quanto maggiore è la credibilità dell’autore. Anche qui può essere d’aiuto un indicatore, l’H-index, o indice di Hirsch, che valuta l’impatto scientifico di un autore, basandosi sul numero delle pubblicazioni prodotte durante l’intera vita scientifica e il numero delle citazioni ricevute. Un H-index più elevato indica una maggiore produttività scientifica e un maggiore riconoscimento di tale attività da parte della comunità scientifica, e quindi valuta l’autore (lo scienziato, non il singolo dato scientifico) più credibile. L’H-index di un autore può essere recuperato tramite PoP (Publish or Perish), un software open source disponibile per il download all’indirizzo.

4) Il dato scientifico deve essere riproducibile (e riprodotto) da parte di ricercatori indipendenti.

RISCHI E BENEFICI DI UN TRATTAMENTO AGGRESSIVO DELL’IPERTENSIONE

È a tutti voi noto che l’ipertensione è uno dei principali fattori di rischio cardiovascolare, e che una riduzione della pressione arteriosa, quando elevata, produce una marcata diminuzione della morbilità e mortalità cardiovascolare. Gli studi epidemiologici indicano che il rischio aumenta quando la pressione sistolica (PAS) supera i 115 mmHg, ma le linee-guida Europee e Americane raccomandano di ridurre la PAS al di sotto dei 140 mmHg. Lo studio SPRINT (Systolic Blood Pressure Intervention Trial) è stato disegnato e condotto per verificare se un obiettivo più aggressivo (ridurre la PAS a < 120 mm Hg) producesse un beneficio cardiovascolare superiore rispetto a quello ottenibile seguendo le raccomandazioni delle linee-guida in pazienti ad elevato rischio cardiovascolare, che non fossero diabetici, non avessero subito un ictus e non soffrissero di insufficienza cardiaca. I risultati mostrano una riduzione del 27% della mortalità per tutte le cause quando si raggiunge un target di PAS < 120 mmHg rispetto al target raccomandato di < 140 mmHg.

I potenziali benefici e rischi di uno stretto controllo pressorio nella popolazione generale sono stati stimati applicando i risultati dello studio SPRINT all’intera popolazione di americani adulti con le stesse caratteristiche dei pazienti reclutati nello studio SPRINT. È stato così calcolato che un trattamento intensivo dell’ipertensione (con un target di PAS < 120 mmHg) è in grado di prevenire ~107.500 morti all’anno, al prezzo di 56.100 episodi di ipotensione, 34.400 episodi di sincope, 43.400 disturbi elettrolitici gravi e 88.700 casi di danno renale acuto all’anno. In conclusione, un trattamento aggressivo dell’ipertensione produce una marcata riduzione della mortalità, ma richiede anche un accurato monitoraggio del paziente al fine di prevenire i potenziali rischi. D’altra parte è bene qui ricordare che, anche nelle nazioni cosiddette evolute, un numero ancor oggi molto elevato di pazienti ipertesi non sa di esserlo o non viene adeguatamente trattato, non raggiungendo i valori-target di PAS raccomandati dalle Società Scientifiche specializzate. In termini di politiche sanitarie, è forse più importante far emergere questa popolazione di pazienti ignoti o mal-trattati, che suggerire terapie aggressive con un rapporto beneficio/rischio incerto.

 Circulation (IF: 19.309) 135:1617, 2017.

L’UOVO

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Ricchissimo di proteine, l’uovo è un alimento che, in cucina, si presta a molteplici preparazioni. Dal 2004 sul guscio delle uova viene stampato un codice che certifica la categoria in base all’allevamento di provenienza (biologico, all’aperto, a terra, in voliera), alla nazione e al comune di provenienza. Possono essere dichiarate “extra freschissime” solo se sulla confezione appare la data entro la quale devono essere consumate. Le proteine contenute nell’uovo sono di elevato valore biologico. Nell’albume si trovano ovoalbumina e ovotransferrina. Il tuorlo ha un contenuto di grassi maggiori, tra questi la quota principale è rappresentata dai trigliceridi, poi dai fosfolipidi e da un 5% di colesterolo. Questo elevato valore di colesterolo ha messo sotto accusa per molto tempo le uova, ma gli ultimi studi svolti hanno evidenziato come una quantità moderata (2 uova alla settimana) non alteri il valore di colesterolo nel sangue di pazienti ipercolesterolemici. Ricche di ferro, zinco, vitamine del gruppo B le uova sono consigliate nelle diete ipocaloriche dove possono essere consumate non solo per la buona qualità proteica, ma anche per il modesto contenuto calorico.

LA RICETTA. Uova strapazzate al pomodoro

Ingredienti (per 4 persone): 4 uova, 8 cucchiai di passata di pomodoro, mezza cipolla, un cucchiaio di olio extravergine, sale, pepe, maggiorana. In una padella scaldare l’olio extravergine con la cipolla tritata, aggiungere la passata e portare a cottura. Condire con sale, pepe e maggiorana. Aggiungere le uova e amalgamarle al sugo. Buon appetito!

Kcal (per porzione): 125,78. Proteine: 8,61 g. Lipidi: 8,02 g; saturi 2,30 g; insaturi 1,07 g; monoinsaturi 3,42 g. Carboidrati: 5,07 g. Fibra: 0,91 g.

COSA SONO LE HDL?

Le lipoproteine sono le macromolecole costituite, come dice il nome, da lipidi e proteine altamente specializzate (le apolipoproteine), che hanno la funzione di trasportare i lipidi, insolubili in acqua, nel sangue. Le lipoproteine, come abbiamo già visto, si distinguono in cinque classi, chilomicroni, VLDL, IDL, LDL e HDL, in funzione della loro densità, che correla con le dimensioni, per cui le lipoproteine meno dense (i chilomicroni) sono quelle più grandi e le lipoproteine più dense (le HDL) sono quelle più piccole.

Le lipoproteine ad alta densità (HDL) (densità 1.063–1.21 g/mL) rappresentano un gruppo eterogeneo di macromolecole di piccole dimensioni con diametro compreso tra 7 e 12 nm. La componente proteica principale delle HDL è rappresentata dall’apolipoproteina A-I (apoA-I), che gioca un ruolo fondamentale nella biogenesi e nella funzione delle HDL; l’apoA-II rappresenta la seconda proteina strutturale delle HDL. Oltre ad apoA-I e apoA-II, le HDL trasportano numerose proteine, tra cui enzimi, proteine di trasporto dei lipidi e proteine di fase acuta.

Le HDL possono essere separate in sottoclassi in funzione di densità, dimensioni, composizione e mobilità elettroforetica. In base alla densità le HDL possono essere distinte in HDL2 (1.063–1.125 g/ml), più grandi e leggere, e HDL3 (1.125–1.21 g/ml), più piccole e dense. Le HDL2 e le HDL3 possono essere ulteriormente separate in base alla dimensione in cinque sottoclassi: HDL3c, diametro 7.2-7.8 nm; HDL3b, 7.8-8.2 nm; HDL3a, 8.2-8.8 nm; HDL2a, 8.8.-9.7 nm; HDL2b, 9.7-12.0 nm in HDL2a e HDL2b. La gran parte delle HDL circolanti ha forma sferica e presenta la tipica migrazione in posizione alfa all’elettroforesi su gel di agarosio, da cui il nome di alfa lipoproteine. Una piccola porzione di HDL ha invece forma discoidale con conseguente migrazione in posizione pre-beta all’elettroforesi.

Il sistema HDL è molto dinamico e le particelle HDL sono sottoposte a un continuo rimodellamento nel plasma, grazie all’azione di numerosi enzimi e proteine di trasferimento dei lipidi, di cui vi parlerò nei prossimi giorni.

LEGUMI: I CECI

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Tra tutti i legumi sono senz’altro i più calorici. Hanno un buon contenuto di proteine (20%) e pochi grassi. Conosciuti da millenni in ogni parte del mondo, vengono consumati in forme diverse: in medioriente sotto forma di hummus, salsa di ceci schiacciati con pasta di sesamo e spezie, o falafel, polpettine ormai conosciute anche in Italia. Nel nostro paese viene consumata soprattutto la farina di ceci che si ottiene, togliendo la crusca, dalla macinazione dei ceci secchi. Famosissima è la farinata ligure oppure la torta di Livorno, per non parlare delle panelle siciliane. Sono alimenti molto semplici ma entrati nella tradizione italiana da tempo immemore: già gli antichi romani conoscevano questo legume e ne erano buoni consumatori. Contengono il 14% di fibra che ne fa un buon alleato nel controllo dei livelli di colesterolo nel sangue. Ricchi di magnesio, fosforo, calcio e ferro, sono un alimento che si presta a numerose preparazioni culinarie.

LA RICETTA. Frittata di ceci

Ingredienti (per 4 persone): 200 g. di farina di ceci, 300 ml. di acqua, ½ cucchiaino di curry, sale, olio extravergine di oliva, 1 zucchina, 1 peperone rosso, ½ cipolla.
Porre la farina di ceci in una ciotola e aggiungere il sale, il curry e l’acqua, mescolare fino al ottenere una pastella liscia e senza grumi. In una padella rosolare con l’olio le verdure precedentemente affettate. A cottura ultimata mischiare con la pastella e cuocere in forno a 1800 per 15 minuti. Lasciare intiepidire e servire. Buon appetito!

Kcal (per porzione): 217. Proteine: 12,50 g. Lipidi: 7,67 g; saturi 1,12 g; insaturi 2,17 g; monoinsaturi 4,40 g. Carboidrati: 132,62 g. Fibra: 8,77 g.

SVOLGERE ATTIVITÀ FISICA INTENSA RALLENTA L’INVECCHIAMENTO CELLULARE E ALLUNGA LA VITA

Decine di studi dimostrano che l’attività fisica (AF) riduce la mortalità, in particolare quella per malattie cardiovascolari. I meccanismi responsabili dell’azione protettiva dell’AF sono molteplici. Uno studio appena pubblicato su “Preventive Medicine” da ricercatori della Brigham Young University negli USA dimostra una relazione tra AF, invecchiamento cellulare, valutato misurando la lunghezza dei telomeri, e mortalità.

Il telomero è una struttura costituita da DNA e proteine, collocata nella regione terminale dei cromosomi, che protegge l’estremità del cromosoma stesso dal deterioramento o dalla fusione con cromosomi confinanti. Ad ogni divisione cellulare i telomeri si accorciano, la cellula invecchia e a lungo andare può morire per apoptosi. L’accorciamento dei telomeri, e quindi l’invecchiamento cellulare, è promosso da una serie di fattori, quali l’infiammazione e lo stress ossidativo, o da condizioni ad essi associate, come il diabete, l’obesità, il fumo di sigaretta. Un accorciamento dei telomeri aumenta la mortalità non solo delle cellule, ma anche dell’individuo, mentre il loro allungamento aumenta la longevità.

I ricercatori americani hanno misurato la lunghezza dei telomeri dei leucociti di 5823 adulti americani, 2766 uomini e 3057 donne. Come atteso, l’età anagrafica correla con la lunghezza dei telomeri; per ogni anno di età, i telomeri si accorciano di 15.6 nucleotidi. Una volta suddivisi i partecipanti in base all’AF svolta, misurata calcolando i MET-minuti (come abbiamo visto ieri), i soggetti che svolgono AF intensa (>1000 MET-minuti a settimana) hanno telomeri più lunghi di 140, 137, e 111 nucleotidi rispetto ai soggetti sedentari, o che svolgono AF modesta (<500 MET-minuti a settimana) o moderata (500-1000 MET-minuti a settimana). In altre parole, l’AF intensa regala ai soggetti che la praticano 9 anni di vita; un’AF moderata allunga la vita di 2 anni, mentre un’AF modesta non conferisce alcun vantaggio.

Preventive Medicine 100:145, 2017

RIGIDITÀ ARTERIOSA (ARTERIAL STIFFNESS) E INVECCHIAMENTO

La rigidità arteriosa, valutata misurando la Pulse Wave Velocity aortica, come abbiamo visto nei giorni scorsi, costituisce un marcatore integrato dell’azione di numerosi fattori di rischio cardiovascolare.

L’età rappresenta il principale determinante della rigidità arteriosa. Con l’età e con il ripetersi di cicli di stress, le fibre elastiche vanno incontro a fratturazione e frammentazione, con conseguente dilatazione del vaso e irrigidimento della parete. Il progressivo irrigidimento dell’aorta che si osserva con l’età non è un innocuo e inevitabile effetto “fisiologico” dell’invecchiamento, ma comporta almeno due conseguenze emodinamiche sfavorevoli: a) l’aumento della velocità sia dell’onda incidente che di quella riflessa fa sì che l’onda riflessa si fonda con quella incidente più precocemente, ossia già nella prima della parte della sistole, invece che alla fine della sistole. Ciò aumenta la pressione sistolica aortica (con conseguente aumento del post-carico cardiaco) e riduce la pressione diastolica, che riduce il flusso ematico miocardico, favorendo l’evoluzione verso l’ischemia miocardica e l’insufficienza cardiaca; b) l’aumento della rigidità arteriosa è molto più marcato nelle arterie elastiche (aorta e carotidi) che nelle arterie muscolari (più periferiche). Succede così che con l’età la rigidità aortica raggiunga e superi quella periferica, riducendo o addirittura invertendo il normale gradiente centro-periferia che è il principale responsabile della riflessione dell’onda sfigmica. Ciò fa sì che il sito di riflessione dell’onda si sposti con l’età più distalmente e che l’entità dell’onda riflessa si riduca. Tutto ciò aumenta la trasmissione in periferia di un’ampia onda incidente, che espone arterie ed arteriole periferiche a livelli dannosi di pulsatilità pressoria e può contribuire all’ampio spettro di alterazioni micro vascolari che si osservano comunemente nell’anziano, specialmente negli organi ad alto flusso e bassa resistenza come l’encefalo e i reni.

DIETA IPOCALORICA E Lp(a)

Abbiamo già visto come livelli elevati di lipoproteina(a) [Lp(a)] siano un fattore di rischio indipendente dai fattori più convenzionali (colesterolo, pressione…) per lo sviluppo di malattia cardiovascolare. Ciò sembra particolarmente rilevante nei pazienti con diabete di tipo 2. È poi noto che la perdita di peso nel paziente diabetico influenza positivamente molti fattori di rischio, ma non se ne conoscono gli effetti sui livelli di Lp(a). Per rispondere a questo quesito, ricercatori olandesi hanno misurato i livelli plasmatici di Lp(a) prima e dopo 3-4 mesi di dieta ipocalorica in tre coorti indipendenti. La coorte primaria era costituita da 131 pazienti prevalentemente obesi con diabete tipo 2 (coorte 1), partecipanti allo studio Prevention Of Weight Regain in diabetes type 2 (POWER). Le coorti secondarie consistevano di 30 pazienti obesi e diabetici (coorte 2) e di 37 individui obesi non diabetici (coorte 3). Una quarta coorte di controllo consisteva di 26 individui obesi non diabetici sottoposti a chirurgia bariatrica, ma non a dieta ipocalorica.

Nella coorte primaria, la dieta ipocalorica ha determinato una perdita di peso di 10.2 kg (9.9%) e un miglioramento nei fattori di rischio convenzionali, ma ha aumentato i livelli di Lp(a). Un analogo aumento dei livelli di Lp(a) è stato osservato nelle coorti 2 e 3, in concomitanza con una perdita di peso dell’8.5% e del 6.5%. Combinando i dati di queste tre coorti di pazienti, l’aumento di Lp(a) correlava con la perdita di peso; in altre parole più il soggetto perdeva peso con la dieta ipocalorica, più la sua concentrazione di Lp(a) nel sangue aumentava. Inoltre, l’aumento dell’Lp(a) correlava con la concentrazione basale: tanto maggiore era la concentrazione di Lp(a) prima della dieta, tanto maggiore l’aumento dopo la dieta. Nei soggetti sottoposti a chirurgia bariatrica e non a dieta (coorte 4), che pure dimostravano la maggiore perdita di peso (14%), i livelli di Lp(a) non cambiavano, a suggerire che l’aumento dell’Lp(a) sia imputabile alla dieta e non alla perdita di peso. Le caratteristiche dello studio non permettono di identificare i meccanismi che sottendono l’effetto della dieta ipocalorica sull’Lp(a), ma i risultati fanno suonare un campanello d’allarme sui benefici che una dieta ipocalorica può produrre sul rischio cardiovascolare globale di un individuo, in particolare se esso è diabetico con un elevato livello di Lp(a).

Berk et al, Diabetologia 60:989,2017