STATINE E MORTALITÀ IN PREVENZIONE SECONDARIA

Il “Scandinavian Simvastatin Survival Study” (4S), i cui risultati sono stati pubblicati nel 1994, rappresenta una pietra miliare tra i numerosi trials clinici di prevenzione cardiovascolare secondaria con statine. Lo studio perseguiva l’obiettivo di valutare il beneficio della terapia con simvastatina (20-40 mg/die) in 4444 pazienti cardiopatici con valori molto elevati (secondo le linee-guida di oggi) di colesterolo plasmatico (LDL-C basale medio 187 mg/dl). Dopo 5.4 anni di terapia la mortalità totale si era ridotta del 30% (p<0,001) nei pazienti in simvastatina rispetto al gruppo in placebo, una riduzione quasi interamente dovuta alla diminuzione del 42% (p<0,001) della mortalità coronarica. Dieci anni più tardi, il follow-up a lungo termine dimostrava che i benefici della terapia con simvastatina sulla mortalità totale e cardiovascolare si mantenevano nel tempo.

Lo studio “Heart Protection Study” (HPS) rappresenta la seconda pietra miliare nella valutazione dell’efficacia delle statine nel ridurre la mortalità. Ha incluso più di 20000 pazienti ad alto rischio (con coronaropatia o altra vasculopatia aterosclerotica, o diabetici) trattati con simvastatina (40 mg/die) o placebo e seguiti per una durata media di 5 anni. Nel gruppo trattato con simvastatina, la mortalità totale è diminuita del 13% e la mortalità coronarica del 18%. Un messaggio chiave emerso dallo studio HPS è che la riduzione della mortalità era indipendente dai valori basali di LDL-C.

A riassumere i risultati di 26 trials di intervento con statine, che hanno incluso quasi 170.000 individui, ha provveduto una metanalisi pubblicata su Lancet nel 2010. I risultati evidenziano che maggiore era la riduzione di LDL-C, maggiore era la diminuzione della mortalità totale e coronarica; ad ogni 1 mmol/L (39 mg/dl) di riduzione di LDL-C corrispondeva una diminuzione del 10% della mortalità totale e del 20% della mortalità coronarica.

GLI INIBITORI DELL’ANGIOPOIETIN-LIKE 3 (ANGPTL3)

Da Chiara Pavanello

Studi epidemiologici e di associazione genome-wide hanno individuato correlazioni tra la presenza di varianti loss-of-function dell’angiopoietin-like 3 (ANGPTL3) e ridotte concentrazioni plasmatiche di tutte le lipoproteine [eccetto la lipoproteina(a)]. In questo contesto l’inibizione di ANGPTL3, mimando la condizione determinata geneticamente, rappresenta un affascinante approccio farmacologico dall’elevato potenziale terapeutico. I ricercatori (e le aziende farmaceutiche!) non si sono attardati, testando l’efficacia di anticorpi monoclonali diretti contro ANGPTL3 nei topi. Evinacumab, questo è il nome che è stato dato al prodotto, ha ridotto mediamente del 52% i livelli di colesterolo totale rispetto a placebo così come i trigliceridi dell’84%. L’effetto positivo si è tradotto anche in una riduzione del 39% della dimensione della lesione aterosclerotica senza modificare però il contenuto di macrofagi, collagene e di cellule muscolari lisce della placca. Lo studio clinico di fase I, condotto su 83 volontari moderatamente ipertrigliceridemici ha essenzialmente confermato quanto dimostrato nell’animale: dopo soli 4 giorni dalla prima iniezione evinacumab ha portato a riduzioni significative dei trigliceridi (-76%) e del colesterolo-LDL (-23.2%) e del coleterolo-HDL (-18.4%) dopo 15 giorni [Dewey et al, 2017]. Risultati essenzialmente paragonabili sono stati ottenuti bloccando la sintesi di ANGPTL3 mediante un oligonucleotide antisenso (ANGPTL3-LRX), sia nell’animale sia nei 44 soggetti reclutati per la fase clinica [Graham et al, 2017]. Nello studio, pubblicato contemporaneamente a quello con evinacumab, è stato riportato inoltre un miglioramento della sensibilità all’insulina in topi trattati con l’antisenso, rispetto a placebo.

Dewey FE et al. Genetic and pharmacologic inactivation of ANGPTL3 and cardiovascular disease. N Engl J Med 2017 May 24. doi: 10.1056/NEJMoa1612790.
Graham MJ et al. Cardiovascular and metabolic effects of ANGPTL3 antisense oligonucleotides. N Engl J Med 2017 May 24. doi: 10.1056/NEJMoa1701329.

STATINE IN PREVENZIONE PRIMARIA ANCHE NEI GRANDI ANZIANI?

È indubbio che il trattamento con statine in adulti ipercolesterolemici con e senza patologie cardiovascolari, e quindi in prevenzione secondaria e primaria, produca enormi benefici in termini di riduzione della morbilità e mortalità cardiovascolare. Ma lo stesso avviene nel grande anziano (età >75 anni)? La domanda non è di scarso rilievo, visto che la popolazione invecchia sempre più e le aspettative di vita si allungano sensibilmente, nella femmina e nel maschio. D’altro canto, la risposta è incerta, soprattutto per mancanza di adeguati dati scientifici in una popolazione di questo tipo.

Una risposta abbastanza chiara viene da un’analisi dei dati dello studio ALLHAT-LLT (Antihypertensive and Lipid-Lowering treatment to prevent Heart Attack Trial – Lipid Lowering Trial), che ha esaminato gli effetti di un trattamento di 6 anni con pravastatina in soggetti anziani senza patologie cardiovascolari, ipertesi con moderata ipercolesterolemia, suddivisi in anziani (età 65-74 anni) e grandi anziani (età ≥ 75 anni). Ebbene, nel grande anziano la statina non produce alcuna riduzione degli eventi cardiovascolari e della mortalità totale, suggerendo che in questa particolare popolazione i benefici vengano compensati dai rischi, e scoraggiando quindi l’uso del farmaco.

JAMA Internal Med (IF=16.538) 177:955, 2017.

LA LIPOPROTEINA(a): COME RIDURLA?

Da Chiara Pavanello

Elevate concentrazioni di Lp(a) (> 50 mg/dL) rappresentano un fattore di rischio cardiovascolare ormai riconosciuto, come abbiamo spiegato la scorsa settimana. Ma quali sono i farmaci in grado di ridurle? Ad oggi non esistono prodotti in commercio con questa indicazione specifica e nessun trial clinico è stato condotto a tal fine. Analisi post hoc di trials clinici con farmaci ipolipidemizzanti già in uso clinico hanno rivelato addirittura un effetto peggiorativo delle statine sulle concentrazioni di Lp(a) (+ 10-20%) [Yeang, J Clin Lipidol 2016], mentre dati positivi sono stati individuati in studi con acido nicotinico (e derivati), mipomersen e gli inibitori di PCSK9. Tra questi solo gli ultimi sono effettivamente in commercio in Europa e sebbene consentano di ottenere riduzioni di Lp(a) intorno al 20%, la prescrivibilità è ridotta e limitata alle ipercolesterolemie genetiche o resistenti [Tsimikas JACC 2017].

Lo studio HERS (Heart and Estrogen/Progestin Replacement Study) ha individuato un effetto benefico della terapia combinata di estrogeni e progestinici nella riduzione della Lp(a) di circa 15-20%, con un maggior beneficio nelle donne in post-menopausa con concentrazioni di Lp(a) nel quartile superiore (55-236 mg/dL) [Shlipak et al JAMA 2000]. In ogni caso generalmente il trattamento con estrogeni non rappresenta un’opzione terapeutica perché aumenta il rischio di trombosi.

Negli ultimi anni però lo sviluppo scientifico e tecnologico ha consentito la messa a punto di farmaci davvero innovativi, da poco entrati in sperimentazione clinica. Si tratta di “oligonucleotidi antisenso” (ASO), che agiscono bloccando la sintesi epatica dell’apo(a), indispensabile per la formazione della lipoproteina (nel dettaglio la prossima settimana). Dati preliminari hanno dimostrato una riduzione superiore all’80%, dipendente dalla dose e dalle concentrazioni plasmatiche basali di Lp(a); inoltre hanno dimostrato la capacità di ridurre la concentrazione di fosfolipidi ossidati sulla lipoproteina stessa: i veri responsabili della sua aterogenicità [Viney et al Lancet 2016].

Come la storia del colesterolo LDL insegna, una volta individuata la Lp(a) come fattore di rischio cardiovascolare, solo studi clinici con farmaci che siano in grado di ridurla potranno confermare che questo porti effettivamente a un miglioramento della condizione cardiovascolare. Ma per questo dovremo aspettare ancora un po’!

Shlipak MG, Simon JA, Vittinghoff E, et al. Estrogen and progestin, lipoprotein(a), and the risk of recurrent coronary heart disease events after menopause. JAMA 2000, 283:1845–1852.
Tsimikas S. A test in context: Lipoprotein(a): diagnosis, prognosis, controversies, and emerging therapies.J Am Coll Cardiol 2017, 69:692-711.
Viney NJ, van Capelleveen JC, Geary RS et al. Antisense oligonucleotides targeting apolipoprotein(a) in people with raised lipoprotein(a): two randomised, double-blind, placebo-controlled, dose-ranging trials. Lancet 2016, 388:2239-2253.
Yeang C, Hung MY, Byun YS, et al. Effect of therapeutic interventions on oxidized phospholipids on apolipoprotein B100 and lipoprotein(a) J Clin Lipidol 2016, 10:594–603.

L’INTOLLERANZA ALLE STATINE AUMENTA IL RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Il 5-10% dei pazienti trattati con statine riporta reazioni avverse, in genere muscolari, che comportano la sospensione della terapia, una riduzione della dose di statina, o la sostituzione di una statina con un’altra.

Nello studio che vi proponiamo oggi i ricercatori hanno esaminato 105.329 pazienti Medicare (l’assicurazione sanitaria federale degli Stati Uniti) che avevano avviato una terapia con statine, di intensità moderata o elevata, dopo aver subito infarto miocardico tra il 2007 e il 2013. L’1,65% di essi aveva un’intolleranza alle statine, definita secondo vari criteri, quali sostituzione della statina con ezetimibe, riduzione della dose di statina e aggiunta di ezetimibe, cambio di statina, comparsa di reazioni avverse; d’altro canto, 52,8% ha mantenuto un’elevata aderenza alla terapia con statine. Durante il follow-up di 1,9-2,3 anni, si sono verificati 4.450 re-infarti e 6.250 eventi cardiovascolari. I pazienti con intolleranza alle statine hanno dimostrato un rischio di re-infarto e di evento cardiovascolare superiore del 36% e del 43% rispetto ai pazienti con alta aderenza alla terapia. Occorre pertanto prestare molta attenzione ai pazienti che non tollerano una terapia aggressiva con statine, e sviluppare per essi strategie terapeutiche in grado di ridurre il rischio cardiovascolare residuo. I nuovi farmaci inibitori di PCSK9, di cui abbiamo parlato le scorse settimane, possono essere d’aiuto.

J Amer Coll Cardiol 69:1386, 2017

UNA TERAPIA IPOCOLESTEROLEMIZZANTE AGGRESSIVA È PIÙ EFFICACE NEL FAR REGREDIRE L’ATEROSCLEROSI CORONARICA

Lo scopo dello studio che vi proponiamo oggi era di esplorare la relazione tra l’intensità dei trattamenti ipolipemizzanti e i cambiamenti temporali del volume della placca coronarica valutati utilizzando la tomografia coronarica computerizzata (CTA). Sono stati esaminati 467 pazienti che si sono sottoposti a CTA ed esami di laboratorio seriali, con intervalli minimi di 2 anni (mediana 3.2 anni). Tra questi sono stati arruolati 147 pazienti con almeno una placca coronarica. Pazienti con valori di colesterolo LDL inferiori a 70 mg/dl hanno mostrato una significativa attenuazione nella progressione della placca in termini di volume rispetto a quelli con valori maggiori o uguali a 70 mg/dl. L’analisi multivariata ha confermato l’associazione tra livelli di colesterolo LDL maggiori o uguali a 70 mg/dl e la progressione annuale della placca. Un’ulteriore conferma che un rigoroso controllo dei livelli di colesterolo LDL attenua in modo significativo la progressione dell’aterosclerosi coronarica.

LE IPERCOLESTEROLEMIE FAMILIARI RECESSIVE

Dal Prof. Stefano Bertolini, Dipartimento di Medicina Interna, Università degli Studi di Genova

L’espressione clinica delle forme di ipercolesterolemia recessiva si realizza quando l’individuo riceve da ciascun genitore un allele mutato di un determinato gene. I due alleli patologici possono essere identici (paziente Omozigote) o differenti (paziente Eterozigote Composto). Il portatore Eterozigote di un allele mutato risulta clinicamente asintomatico.

Tre forme di Ipercolesterolemia Familiare Recessiva, per quanto relativamente rare ed in alcuni caso sotto-diagnosticate, meritano menzione: l’Ipercolesterolemia Recessiva (ARH), la Sitosterolemia e la Deficienza di Lipasi Lisosomiale Acida.

L’Ipercolestereolemia Recessiva ARH si realizza per difetto biallelico del gene LDLRAP1 (localizzato sul braccio corto del cromosoma 1: 1p36-p35) che codifica per una proteina di 308 amino acidi indispensabile per l’internalizzazione del complesso LDLR/LDL nelle cellule polarizzate, in particolare negli epatociti. Clinicamente ARH è caratterizzata da concentrazioni elevate di colesterolo LDL: 557.7±101.2 mg/dl (media±DS), 553.5 mg/dl (mediana), 479.5-595.5 mg/dl (range interquartile), 372-835 mg/dl (min-max), da xantomatosi cutanea e tendinea e da compromissione cardiovascolare che si esprime più tardivamente (dopo la seconda decade) rispetto a quella osservata negli Omozigoti ed Eterozigoti Composti da mutazioni del gene LDLR. Questa patologia risulta diffusa in tutto il bacino del mediterraneo e presenta una eccezionale prevalenza in Sardegna (1:34.000). Il trattamento su basa sulla somministrazione di statine di seconda generazione ad alte dosi associate all’ezetimibe e sulla LDL-aferesi.

La Sitosterolemia si realizza per associazione di un allele difettoso di origine paterna con un allele difettoso di origine materna del gene ABCG5 o del gene ABCG8. Questi due geni sono localizzati in posizione 3’¬5’ – 5’®3’ sul braccio corto del cromosoma 2 (2p21) e codificano per due proteine, Sterolina-1 di 651 amino acidi e Sterolina-2 di 673 amino acidi localizzate sulla membrana luminale degli enterociti dell’intestino tenue prossimale e sulla membrana apicale degli epatociti corrispondente al lume del canalicolo bilare. Le due proteine funzionano in coppia come eterodimero determinando l’escrezione di parte del colesterolo e degli steroli vegetali assorbiti dall’enterocita al lume intestinale e dall’epatocita al canalicolo biliare. Una mutazione biallelica di uno dei due geni, ABCG5 o ABCG8, determina un abnorme assorbimento e accumulo corporeo di steroli vegetali (sitosterolo, campesterolo, stigmasterolo, brassicasterolo, avenosterolo, ergosterolo) e di colesterolo. In condizioni normali circa il 50% del colesterolo presente nel lume intestinale viene assorbito, mentre la quota assorbita di steroli vegetali che vengono introdotti con la dieta (150-450 mg/die) non supera l’8%. Nella Sitosterolemia la quota di steroli vegetali assorbita supera il 60% e le concentrazioni plasmatiche di fitosteroli sono 30-100 volte superiori a quelle normali (v.n.: sitosterolo 0.300±0.117 mg/dl, campesterolo 0.448±0.182 mg/dl, stigmasterolo 0.067±0.060 mg/dl, brassicasterolo 0.028±0.012 mg/dl, avenosterolo 0.021±0.010 mg/dl). Le mutazioni con perdita di funzione del gene ABCG5 sono prevalenti nella popolazione Asiatica (Cinesi, Giapponesi) mentre le mutazioni del gene ABCG8 prevalgono nei Caucasici. La reale prevalenza di questa patologia delle varie popolazioni è comunque attualmente ignota. Si tratta certamente di una patologia rara ma è presumibile che sia anche sotto diagnosticata dato che la diagnosi di certezza richiede il dosaggio plasmatico dei fitosteroli mediante gas cromatografia e spettrometria di massa o l’identificazione di mutazioni causative di ABCG5 o ABCG8. Attualmente in letteratura sono stati riportati più di 130 casi di pazienti affetti da sitosterolemia, in prevalenza soggetti della prima e seconda decade di vita. I casi indice ad oggi geneticamente caratterizzati sono 48 per il gene ABCG5 e 58 per il gene ABCG8, con 33 differenti mutazioni di ABCG5 e 36 di ABCG8 in omozigosi o etererozigosi composta. L’espressione clinica della Sitosterolemia è caratterizzata da: 1) valori plasmatici elevati di steroli totali, in larga prevalenza costituiti da colesterolo (362.9±181.3 mg/dl (media±DS), 307.5 mg/dl (mediana), 222-456 mg/dl (range interquartile), 134-870 mg/dl (min-max) e da notevole incremento dei principali fitosteroli: sitosterolo (31.5±22.6 mg/dl (media±DS), 24.6 mg/dl (mediana), 17.7-42.4 mg/dl (range interquartile), 2-97 mg/dl (min-max) e campesterolo (17.4±16.2 mg/dl (media±DS), 12.6 mg/dl (mediana), 8.4-19.1 mg/dl (range interquartile), 2.3-78.5 mg/dl (min-max); 2) xantomi tendinei e cutanei (piani e tuberosi); 3) alterazioni ematologiche (sferocitosi, anemia emolitica, macrotrombocitopenia); 4) artralgie; 5) prematura aterosclerosi coronaria ed aortica in alcuni pazienti. Degna di nota è la concentrazione particolarmente elevata di steroli totali (quasi elusivamente costituita da colesterolo) che si osserva nei lattanti e nei primi anni di vita (£ 5 anni); tali valori, con una mediana di 640 mg/dl ed un range interquarile di 500-750 mg/dl, possono indurre ad una errata diagnosi di ipercolesterolemia familiare omozigote a carattere dominante o recessivo.
I pazienti con Sitosterolemia sono notevolmente responsivi alla dieta a basso contenuto in grassi saturi e colesterolo associata con riduzione drastica di steroli vegetali (ridotto introito di oli vegetali, margarine, olive, broccoli, cavolini di Bruxelles, cavolfiori, noci, nocciole, mandorle, cioccolato, germe di grano, pistacchi, semi di sesamo e di girasole, avocado, frutti di mare come le vongole, capesante e ostriche che contengono gli steroli vegetali derivanti dalle alghe). Farmaco di elezione da associare alla dieta, in alternativa alle resine sequestranti gli acidi biliari, è l’Ezetimibe che inibendo la proteina NPC1L1 riduce l’assorbimento intestinale del colesterolo e degli steroli vegetali.

La terza forma di Ipercolesterolemia Recessiva è dovuta alla Deficienza di Lipasi Lisosomiale Acida. Questo enzima (LAL), di 399 amino acidi, viene codificato dal gene LIPA localizzato sul braccio lungo del cromosoma 10 (10q23.2-q23.3) ed espresso virtualmente in ogni cellula, ma sopratutto nelle cellule epatiche, nei fibroblasti, macrofagi e linfociti. A livello intracellulare nei lisosomi l’enzima LAL idrolizza gli esteri del colesterolo ed i trigliceridi delle lipoproteine contenenti apolipoproteina B (in particolare lipoproteine LDL) che entrano nelle cellula epatica mediante specifici recettori. All’idrolisi fa seguito la liberazione di colesterolo libero e di acidi grassi che inibiscono la produzione di nuove lipoproteine, riducono l’espressione di recettori LDL ed attivano la produzione di lipoproteine ad alta densità (HDL). La totale assenza di attività enzimatica LAL è la causa di una gravissima patologia (malattia di Wolman) che porta alla morte entro il primo anno di vita. Nei casi in cui almeno uno degli alleli patologici del gene LIPA permette una attività enzimatica residua, anche se estremamente ridotta al 5-10% della norma nei linfociti e 12-24% nei fibroblasti e negli epatociti, la patologia, denominata malattia da accumulo degli esteri del colesterolo (CESD), è compatibile con la sopravvivenza e si esprime ad una età variabile dalla prima infanzia all’età adulta in relazione alla maggiore o minore gravità delle mutazioni bialleliche di cui il singolo individuo è portatore. Attualmente più di 150 pazienti sono stati descritti in letteratura, con espressione clinica entro la prima decade di vita nel 60% dei casi ed entro la prima e seconda decade nel 78% dei casi. Ad oggi 132 pazienti Omozigoti o Eterozigoti Composti sono stati geneticamente caratterizzati. La mutazione LIPA più frequente (circa il 60% degli alleli mutati) è costituita dalla sostituzione di una adenina per una guanina nell’ultimo nucleotide dell’esone 8 (c.894G>A); tale mutazione, pur inducendo una alterazione di circa il 95% dell’RNA messaggero e conseguentemente della proteina enzimatica, permette la produzione di una piccola quota (~ 5%) di enzima normale. La prevalenza stimata di questa patologia nella popolazione Caucasica è pari a ~1:200.000 individui. Si ritiene tuttavia che tale prevalenza sia sottostimata per l’assenza di una corretta diagnosi in molti casi. La diagnosi certa richiede infatti, in aggiunta al dosaggio dell’attività enzimatica, l’identificazione dei due alleli patologici mediante sequenza del gene LIPA. La carenza dell’enzima LAL comporta una deficiente idrolisi degli esteri del colesterolo e dei trigliceridi con conseguente ridotta disponibilità intracellulare di colesterolo libero ed acidi grassi; ciò determina l’attivazione della sintesi epatica di lipoproteine e la loro secrezione nel plasma; alla aumentata secrezione si associa anche un aumentato influsso di lipoproteine attraverso i recettori LDL la cui espressione non viene ridotta per la carenza di colesterolo libero. La carenza di colesterolo libero intracellulare è anche la causa della ridotta espressione della proteina ABCA1 necessaria per la produzione di HDL nascenti.
La malattia si esprime clinicamente con epatomegalia nel 99% dei casi, associata a splenomegalia nel 75%, dolori addominali ricorrenti, distensione addominale, vomito, diarrea, rallentato accrescimento corporeo, aumento della concentrazione plasmatica delle transaminasi (AST: 77.7±41.3 IU/L; ALT 100.8±49.8 IU/L), iperlipidemia mista con prevalenza dell’ipercolesterolemia e ridotte concentrazioni di colesterolo HDL (colesterolo totale 314.6±66.8 mg/dl, colesterolo LDL 247.8±57.0 mg/dl, colesterolo HDL 31.2±10.2 mg/dl, trigliceridi 196.7±83.4 mg/dl, apoA-I 90.8±17.2 mg/dl, apoB 184.5±44.3 mg/dl) e prematura aterosclerosi conseguente all’iperlipidemia. A livello epatico il massiccio accumulo di esteri del colesterolo, ed in minor misura di trigliceridi, si manifesta con una steatosi in prevalenza micro-vescicolare che evolve verso una fibrosi progressivamente ingravescente ed una cirrosi micro-nodulare. La terapia d’elezione è oggi costituita dalla terapia sostitutiva mediante infusione dell’enzima LAL ricombinante.

 

INCLISIRAN RIDUCE I LIVELLI DI COLESTEROLO LDL IN PAZIENTI AD ALTO RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Inclisiran è un farmaco sperimentale per il trattamento dell’ipercolesterolemia. Appartiene alla classe di farmaci innovativi altamente selettivi definiti siRNA, di cui vi ho già parlato.

In questo studio di Fase 2 (la seconda fase dello sviluppo clinico di un farmaco prima della sua immissione in commercio), multicentrico, in doppio cieco, controllato con placebo, inclisiran è stato somministrato per iniezione sottocutanea in 501 pazienti ad alto rischio cardiovascolare con elevati livelli di colesterolo LDL. I pazienti sono stati assegnati in modo casuale a ricevere una singola dose di placebo o 200, 300, o 500 mg di inclisiran, o due dosi (ai giorni 1 e 90) di placebo o 100, 200, o 300 mg di inclisiran. La somministrazione di inclisiran ha prodotto riduzioni dose-dipendenti delle concentrazioni di PCSK9 e colesterolo LDL nel sangue. A tre mesi dall’inizio della terapia, la concentrazione di colesterolo LDL è diminuita del 28-42% nei pazienti che avevano ricevuto una singola iniezione, e del 35-52% in quelli trattati con due iniezioni. Eventi avversi gravi sono stati registrati nell’11% dei pazienti trattati con inclisiran e nell’8% dei pazienti che avevano ricevuto placebo.

CONCENTRAZIONI DI COLESTEROLO LDL MOLTO BASSE SONO PERICOLOSE?

È noto a tutti voi che ridurre la concentrazione di colesterolo LDL (il colesterolo “cattivo”) nel sangue diminuisce il rischio di incorrere in eventi cardio- e cerebro-vascolari. Ma c’è pericolo per la salute quando i livelli di colesterolo LDL scendono a valori molto bassi? In questa pubblicazione i ricercatori dello studio IMPROVE-IT forniscono una risposta a questo dubbio.

Nello studio IMPROVE-IT la terapia ipolipemizzante intensiva ​con simvastatina ed ezetimibe in 18.144 pazienti sopravvissuti a una sindrome coronarica acuta ha prodotto una significativa riduzione degli eventi cardiovascolari rispetto alla sola simvastatina. Nella nuova analisi dei risultati dello studio si è valutata la sicurezza e l’efficacia clinica di raggiungere un livello molto basso (< 30 mg/dl) di colesterolo LDL. Tra i 15.281 pazienti inclusi nell’analisi, circa il 6% ha raggiunto un livello di colesterolo LDL inferiore a 30 mg/dl. L’analisi multivariata ha mostrato che al follow-up di 6 anni non vi era alcuna associazione tra livello di colesterolo LDL raggiunto con la terapia ed eventi avversi pre-specificati (eventi avversi di natura muscolare, epatobiliare, eventi neurocognitivi, ictus emorragico, insufficienza cardiaca, cancro e morte non cardiovascolare). Gli eventi cardiovascolari erano significativamente ridotti nei pazienti che hanno raggiunto un livello di colesterolo LDL inferiore a 30 mg/dl rispetto al 26% di pazienti che con la terapia hanno avuto un livello di colesterolo maggiore di 70 mg/dl. Si dimostra così che una terapia aggressiva sul colesterolo LDL migliora i benefici cardiovascolari senza problemi per la salute dei pazienti.

TERAPIA DELL’IPERCOLESTEROLEMIA: EFFICACIA DEGLI INIBITORI DI PCSK9 NELLA PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE

Da Chiara Pavanello

Abbiamo giá visto come l’inibizione di PCSK9, mediante evolocumab e alirocumab consenta di ottenere riduzioni del colesterolo LDL anche superiori al 60%. Quanto questo effettivamente si traduca in una minor incidenza di eventi cardiovascolari è stato però solo parzialmente dimostrato. Gli studi randomizzati e controllati OSLER (con evolocumab) e ODYSSEY LONG-TERM (con alirocumab) avevano calcolato, in una prima analisi esplorativa, una riduzione superiore al 45% rispetto a placebo di tutti gli eventi cardiovascolari dopo un follow-up medio di 65 settimane. Lo studio GLAGOV aveva invece dimostrato l’efficacia di evolocumab nel ridurre dello 0.95% (rispetto ad un peggioramento dello 0.05% con placebo) il volume della placca aterosclerotica, misurata mediante ultrasonografia intravascolare e indicatore surrogato del rischio cardiovascolare.

Finalmente, il 17 marzo sono stati presentati al congresso annuale dell’American College of Cardiology e contemporaneamente pubblicati sul New England Journal of Medicine, i risultati dello studio FOURIER, disegnato per valutare l’efficacia di evolocumab nel ridurre l’incidenza di eventi cardiovascolari in soggetti ad elevato rischio (soggetti giá con infarto del miocardio, ictus ischemico o arteriopatia periferica). Il trial, uno dei più grandi mai condotti, della durata di circa 2 anni, ha incluso più di 27000 pazienti con malattia cardiovascolare. Metá dei soggetti ha assunto l’inibitore di PCSK9, mentre l’altra metá ha assunto placebo. Entrambi in associazione a una terapia ipolipidemizzante standard ottimizzata. L’aggiunta dell’inibitore di PCSK9 ha prodotto una riduzione del 27% del rischio di infarto miocardico e del 21% di ictus, senza però alcun effetto sulla mortalitá totale. L’effetto positivo era già visibile dopo un anno di terapia e indipendente dalla posologia del trattamento e dal valore basale di colesterolo LDL. Dobbiamo invece attendere ancora un anno per conoscere l’effetto sugli endpoint cardiovascolari dei 18000 pazienti inclusi nel trial con alirocumab, l’altro inibitore di PCSK9.