PSORIASI E ATEROSCLEROSI CORONARICA

La psoriasi è una malattia infiammatoria cronica della pelle, non infettiva né contagiosa, a carattere cronico e recidivante. La pelle si accumula rapidamente e si ispessisce nelle zone interessate dalle lesioni conferendo un aspetto squamoso bianco-argenteo (figura). Anche se il disturbo può comparire in qualsiasi zona del corpo, in genere si localizza in corrispondenza di gomiti, ginocchia, cuoio capelluto, parte lombare della schiena, palmi delle mani e piante dei piedi, e in regione genitale (figura). La malattia, ad andamento cronico e ricorrente, è variabile nell’estensione dell’interessamento cutaneo; alcuni soggetti sono affetti da un numero molto limitato di piccole chiazze, altri hanno il corpo quasi completamente coperto da lesioni.

La psoriasi è un modello umano ideale per studiare la relazione tra infiammazione cronica e aterosclerosi coronarica in vivo. I ricercatori coordinati da Joseph B. Lerman del National Institutes of Health, Bethesda, USA hanno confrontato la prevalenza di placche coronariche, di placche non calcificate (NCP) e di placche ad alto rischio di rottura (HRP) in pazienti con psoriasi (n=105), pazienti iperlipidemici ammissibili alla terapia statinica (n=100) e volontari sani non affetti da psoriasi (HV) (n 25). Nonostante i pazienti psoriasici fossero di dieci anni più giovani e avessero un minor rischio cardiovascolare, la prevalenza di NCB era maggiore e quella di HRP uguale a quella riscontrata nei pazienti iperlipidemici. Rispetto ai volontari sani, i pazienti psoriasici avevano un maggior numero di placche coronariche, di NCP e di HRP. Inoltre, la regressione della malattia psoriasica indotta dalla terapia si associava a una riduzione delle placche coronariche.

Lo studio conferma che l’infiammazione cronica gioca un ruolo rilevante nello sviluppo di aterosclerosi coronarica e dimostra che il controllo dei siti remoti di infiammazione può tradursi in un ridotto rischio cardiopatia.

Circulation (IF=19.309) 136:263,2017

L’ATTIVITÀ FISICA ALLUNGA LA VITA ANCHE NEL PAZIENTE CARDIOPATICO

L’attività fisica è stata valutata in MET (Equivalenti Metabolici) (vedi articolo del giugno scorso) in più di 15000 pazienti con cardiopatia stabile di 39 Paesi. All’aumentare dell’attività fisica diminuisce la mortalità per tutte le cause; un raddoppio dei MET produce una riduzione della mortalità del 18% (95% CI 0.79-0.85). L’effetto maggiore si osserva nei pazienti sedentari e in quelli a rischio più elevato.

 

J Amer Coll Cardiol (IF=19.896) 70:1689,2017

MANGIARE MEGLIO PER VIVERE PIÙ A LUNGO? BASTANO PICCOLI CAMBIAMENTI

Da tempo su questa pagina si sottolinea come una “sana” alimentazione contribuisca al mantenimento della buona salute e promuova la longevità. L’ennesima conferma viene dal prestigioso New England Journal of Medicine, che pubblica uno studio sull’effetto di variazioni nell’alimentazione e mortalità condotto in 47,994 donne reclutate nel Nurses’ Health Study and 25,745 uomini dell’Health Professionals Follow-up Study. I ricercatori hanno utilizzato tre diversi metodi per monitorare la qualità dell’alimentazione di questi individui e le sue variazioni nell’arco di 12 anni. Dimostrano così che anche un modesto miglioramento della qualità dell’alimentazione (basta sostituire una porzione giornaliera di carne con una di legumi) è sufficiente per ridurre dell’8-17% (a seconda del metodo di valutazione della qualità dell’alimentazione) la mortalità per tutte le cause, e del 7-15% la mortalità per malattie cardiovascolari. Più a lungo si mantiene una buona alimentazione, ricca di cereali integrali, vegetali, frutta e pesce, più aumenta la longevità. Al contrario, un peggioramento nella qualità dell’alimentazione si associa a una più elevata mortalità.

N Engl J Med (IF=72.406) 377:143,2017

IL RAFANO

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Originario dell’Europa orientale, si è diffuso nell’intero continente dove nel medioevo veniva usato esclusivamente a scopo terapeutico come antibatterico. È una pianta perenne appartenente alla famiglia delle Brassicaceae, chiamata anche barbaforte o cren, ha radice fittonata di colore bianco con polpa soda; caratteristico il suo aroma pungente simile a quello della senape. Usato nella cucina giapponese come salsa Wasabi, in Italia è particolarmente apprezzato il rafano della Basilicata, detto ”lucano”, che è stato dichiarato PAT, cioè Prodotto Agroalimentare Tradizionale. Con tale denominazione si individuano quei prodotti agroalimentari che, in uno specifico territorio, per metodiche di coltivazione, lavorazione e conservazione, seguono le regole tradizionali per un periodo non inferiore ai 25 anni. Il rafano ha un buon contenuto di vitamina C, non a caso nei tempi passati veniva consumato sotto forma di succo contro lo scorbuto. È ricco di composti glucosinati che possono essere idrolizzati a isotiocianati e isocianati, che hanno proprietà antitumorali come, del resto, tutti gli ortaggi appartenenti alle Crucifere. Contiene anche cumarine, fenoli e vitamina B1.

LA RICETTA. Salsa di rafano

Ingredienti: 250 g. di radice di rafano grattugiata, 500 g. di pane grattugiato, 50 ml di aceto di vino bianco, 1 cucchiaio di zucchero, 30 g. di olio extravergine di oliva. Mescolare delicatamente tutti gli ingredienti fino ad ottenere una crema liscia ed omogenea. Conservare in vasetti di vetro coprendo con un filo di olio. Servire con carni o pesci bolliti. Buon appetito!

Kcal (un cucchiaino da caffè per porzione): 13,66. Proteine: 0,335 g. Lipidi: 0,26 g; saturi 0,04 g; insaturi 0,02 g; monoinsaturi 0,15 g. Carboidrati: 2,68 g. Fibra: 0,16 g.

VARIANTI GENETICHE CORRELATE CON I TRIGLICERIDI E CALCIFICAZIONI MITRALICHE

Le calcificazioni dell’anulus mitralico (CAM), identificate con gli esami di diagnostica per immagini cardiaca, sono associate agli eventi cardiovascolari e predispongono allo sviluppo di insufficienza e/o stenosi della valvola mitrale, ma i determinanti genetici di questa patologia non sono noti. Gli autori dello studio che vi proponiamo oggi hanno utilizzato tre diverse tecniche di randomizzazione mendeliana per valutare l’associazione fra 199 polimorfismi genetici correlati con i livelli plasmatici di lipidi (LDL-C, HDL-C e trigliceridi) e CAM in 3 ampie popolazioni reclutate negli studi Framingham Health Study, MESA (Multiethnic European Study of Atherosclerosis) e AGE-RS (Age, Gene/Environment Susceptibility-Reykjavik Study). Per ogni individuo è stato calcolato, in funzione del numero dei polimorfismi di cui era portatore, un valore di rischio genetico (genetic risk score, GRS) associato a ciascuno dei tre parametri lipidici. 1149 dei 5651 partecipanti (20,4%) presentavano CAM.

Nell’analisi globale delle 3 coorti la presenza di CAM era associata con il GRS per i trigliceridi (OR per unità di trigliceridi-GRS: 1.73; 95% CI: 1.24 to 2.41; p = 0.0013)(Figura); non è stata invece riscontrata alcuna associazione con i GRS per LDL-C e HDL-C. Si dimostra quindi che la predisposizione genetica a sviluppare un’ipertrigliceridemia si associa a CAM, un parametro di lesione preclinica della valvola mitralica, che predispone a una disfunzione valvolare clinicamente significativa. Come abbiamo ricordato in altre occasioni gli studi di randomizzazione mendeliano non solo producono associazioni più o meno significative tra i parametri analizzati, ma indicano una relazione di causalità tra di essi. In altre parole, lo studio genetico qui proposto dimostra che l’esposizione a lungo termine a elevati valori di trigliceridemia causa alterazioni precliniche della valvola mitralica. I meccanismi responsabili di tale effetto sono ancora da definire, come è da verificare che una riduzione della trigliceridemia, attraverso la modificazione dello stile di vita o la terapia farmacologica, produca una riduzione delle CAM e della disfunzione valvolare.

J Amer Coll Cardiol (IF=19.896) 69:2941,2017

DETERMINANTI AMBIENTALI DI ATEROSCLEROSI. IL FUMO DI SIGARETTA

Dall’ultrasonografista del Centro, Samuela Castelnuovo

Il fumo di sigaretta rappresenta uno dei più importanti fattori di rischio modificabili dell’aterosclerosi ed è fortemente associato alla malattia coronarica, cerebrovascolare e periferica. L’importanza di questo fattore di rischio emerge non solo dalla sua associazione con le malattie vascolari, ma anche dal fatto che è stato dimostrato esserne un importante agente causale. Il fumo incrementa di circa tre volte il rischio di mortalità per cause anche non cardiovascolari. Le evoluzioni più gravi della malattia si osservano, inoltre, in una percentuale sensibilmente maggiore nei fumatori rispetto ai non fumatori. Il fumo aumenta il rischio di occlusione dei by-pass dopo chirurgia arteriosa ricostruttiva ed è particolarmente dannoso nelle persone che hanno un rischio di patologie cardiovascolari aumentato per altre ragioni. Il Framingham Heart Study ha dimostrato che l’effetto del fumo è dose dipendente. Il rischio di eventi vascolari aumenta, infatti, all’aumentare del numero di sigarette fumate al giorno, degli anni di abitudine al fumo e dell’età in cui il soggetto ha iniziato a fumare. Uomini e donne sono entrambi suscettibili, anche se nelle donne il rischio può essere più elevato.

Il fumo aumenta l’ossidazione delle LDL, riduce i livelli di HDL colesterolo, aumenta il monossido di carbonio ematico (con possibile ipossia endoteliale) e favorisce la vasocostrizione delle arterie già ristrette a causa della patologia aterosclerotica. Aumenta poi la reattività piastrinica (con possibile formazione di un trombo), la concentrazione ematica di fibrinogeno e l’ematocrito (con un conseguente aumento della viscosità ematica) e favorisce lo sviluppo del danno endoteliale. Anche il fumo passivo può aumentare il rischio di malattia coronarica. Nei soggetti non fumatori esposti al fumo ambientale si sviluppa una disfunzione endoteliale sia coronarica che brachiale, e aumenta lo spessore del complesso medio-intimale delle arterie carotidi (C-IMT), un marcatore precoce di aterosclerosi.

La cessazione del fumo porta riduce il rischio cardiovascolare e la mortalità. L’effetto positivo compare rapidamente e cresce all’aumentare del periodo trascorso dalla cessazione del fumo; dopo 3 anni, il rischio si avvicina a quello degli individui che non hanno mai fumato.

In tempi relativamente recenti sono state introdotte sul mercato e rapidamente diffuse le cosiddette sigarette elettroniche. L’associazione tra utilizzo di questi prodotti e rischio cardiovascolare è ancora incerta. Ve ne parlerò presto.

LE STATINE VANNO ASSUNTE LA SERA

La biosintesi del colesterolo segue un ritmo circadiano, raggiungendo la massima intensità nelle ore notturne. Per questo le statine, che come sapete riducono i livelli plasmatici di colesterolo LDL inibendo l’enzima HMG-CoA reduttasi, enzima-chiave nella biosintesi del colesterolo, sono generalmente somministrate la sera. Le statine in commercio hanno diversa durata d’azione (in farmacologia si valuta l’emivita plasmatica, ovvero il tempo di dimezzamento della concentrazione plasmatica; più lunga l’emivita, più lunga la durata d’azione). È possibile che statine a lunga emivita siano ugualmente efficaci quando somministrate la sera o la mattina. La metanalisi che vi proponiamo oggi ha risolto questo dubbio. L’analisi ha incluso i dati di 11 trials clinici controllati, randomizzati e non (1034 pazienti in totale), che confrontavano la somministrazione serale e mattutina di statina, valutando le differenze nelle variazioni dei vari parametri del quadro lipidico. Nell’analisi complessiva è stata osservata una maggiore riduzione dei livelli di LDL colesterolo con la somministrazione serale, mentre non sono state riscontrate differenze per colesterolo totale, HDL e trigliceridi. Nell’analisi per sottogruppi, divisi in base all’emivita della statina somministrata, la riduzione dei livelli di LDL colesterolo è risultata significativamente maggiore in caso di somministrazione serale, sia per le statine a breve emivita (fluvastatina, pravastatina e simvastatina) (differenza media di colesterolo LDL 9.68 mg/dL, CI 95%: 3.32-16.03, P=0.003), che per le statine a lunga emivita (atorvastatina, rosuvastatina, fluvastatina e simvastatina a rilascio prolungato) (differenza media 2.53 mg/dL, CI 95%: 0.41–4.64, P=0.02). Quindi, la statina, qualunque essa sia, è più efficace se assunta la sera.

J Clin Lipidol (IF=5.812) 11:972,2017

IL PIÙ GRANDE STUDIO SULL’ATTIVITÀ FISICA SPONTANEA NEL MONDO. L’ITALIA AL 13° POSTO SU 46 PAESI

L’Università di Stanford in California ha individuato un nuovo strumento per monitorare in maniera accurata la pandemia di sedentarietà: il cellulare. In questo ambito i cellulari (3 adulti su 4 nei Paesi industrializzati e 1 adulto su 4 in quelli in via di sviluppo ne possiedono uno) rappresentano una risorsa formidabile poiché sono dotati di accelerometri in grado tra l’altro di registrare i passi che compiamo durante il giorno.

Nel più grande studio mai condotto finora sull’attività fisica ‘spontanea’, i cui risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista “Nature”, sono stati analizzati i dati degli utilizzatori di un’app gratuita (Azumio Argus) per il monitoraggio dell’attività fisica: 68 milioni di giorni di registrazioni da 717.527 utilizzatori anonimi (di cui erano disponibili età, genere, altezza, peso registrati sull’app), residenti in 110 Paesi diversi. L’analisi si è poi focalizzata su 46 Paesi, ognuno rappresentato da almeno un migliaio di utenti. Il 90% degli utenti viveva in 32 Paesi industrializzati e il 10% in Paesi in via di sviluppo. La media di passi giornalieri è stata di 4.961. Chi sono i più sedentari? Gli indonesiani, che ogni giorno percorrono 3.513 passi. Al contrario, sono gli abitanti di Hong Kong a potersi fregiare del titolo di popolazione più attiva, con una media di 6.880 passi giornalieri. L’Italia si colloca al 13° posto su 46 Paesi, davanti all’Irlanda e dietro alla Gran Bretagna, con 5.296 passi giornalieri (Figura 1).

I Paesi dove si cammina meno sono anche quelli dove si registra una maggiore differenza tra uomini e donne: le donne sono generalmente più inattive dei maschi. Il divario tra sessi è elevato nei poco attivi Stati Uniti e Arabia Saudita, ed è minore in Svezia e Giappone, dove si cammina di più. Un altro aspetto, meno sorprendente, riguarda poi l’assetto urbanistico delle città: in quelle con maggior numero di aree pedonali si registra più attività fisica a tutte le ore del giorno, nel finesettimana e anche durante la settimana. A muoversi di più sono tanto i giovani che gli più anziani.

Non sorprende, anzi è l’ennesima conferma, che alla riduzione dell’attività fisica corrisponda una maggior prevalenza di obesità (Figura 2). Attraverso simulazioni al computer, gli autori dello studio hanno dimostrato che gli interventi mirati sull’attività fisica possono determinare una riduzione dell’obesità 4 volte maggiore rispetto a interventi non mirati.

Importanti spunti di riflessione derivati da uno studio mille volte più ampio di qualunque altra ricerca mai realizzata finora sull’attività fisica spontanea, che ha utilizzato dati di vita reale e non questionari nei quali il grado di attività fisica viene autoriferito. Una metodologia di lavoro che apre la strada a un nuovo filone di ricerche, da cui potranno scaturire suggerimenti su come facilitare l’attività fisica e misure per invogliare gli individui a svolgerla.

Nature (IF=40.137) 547:336,2017

L’ANANAS

Dalla Dietista del Centro, Raffaella Bosisio

Originario del sud America, l’ananas è una pianta appartenente alle Bromeliacee. Portata in Europa da Cristoforo Colombo, la sua coltivazione è stata diffusa in molti paesi. Ne esistono un centinaio di varietà ma le più note sono: Cayenne proveniente dalle Hawaii, Spanish di origine caraibica, Queen coltivata in Africa, Abaxi coltivata esclusivamente per il consumo fresco in America latina. Costituito dall’80% di acqua, l’ananas è ricco di vitamine A, B1, B2, B5, B6, ma in special modo di vitamina C.  I molti zuccheri presenti insieme all’acido citrico conferiscono il gusto particolare. Pur essendo il frutto più ricco di melatonina è caratterizzato soprattutto dalla presenza di bromelina. Questa sostanza è un insieme di enzimi proteolitici contenuti nella polpa e, in maggior misura, nel gambo. Ha azione antinfiammatoria e antitrombotica. Spesso usata dopo traumi sportivi per la sua capacità di ridurre gli edemi, la bromelina viene impiegata anche nel trattamento della cellulite dove, facilitando la diuresi, favorisce la normalizzazione del tessuto cutaneo.

LA RICETTA. Spiedini salmone e ananas
Ingredienti (4 persone): filetto di salmone g. 250, ananas fresco g. 200, succo di limone 30 ml, olio di oliva extravergine 30 ml, un rametto di aneto, qualche grano di pepe rosa, sale qb. Aiutandosi con un leva-torsoli, togliere la buccia dell’ananas e tagliare la polpa in quadratini. Levare la pelle al salmone e realizzare piccoli bocconcini. Infilare in uno spiedino di legno i quadratini di ananas alternati a quelli di salmone. In una tazza unire olio, succo di limone, aneto e pepe e versare questa marinata sugli spiedini. Dopo due ore scaldare una padella e far scottare gli spiedini un minuto per parte. Buon appetito!

Kcal (per porzione): 201,17. Proteine: 11,75 g. Lipidi: 15,00 g; saturi 3,06 g; insaturi 2,57 g; monoinsaturi 8,48 g. Carboidrati: 5,0 g. Fibra: 0,5 g.

ENDOARTERIECTOMIA O STENT PER LA PREVENZIONE DELL’ICTUS?

L’incidenza di ictus cerebrale nella popolazione generale è dello 0.2% all’anno, ma aumenta significativamente in presenza di fattori di rischio cardiovascolari (ipertensione arteriosa, diabete, dislipidemia…). L’ictus rappresenta la seconda causa di morte in Italia (con un’incidenza di 132.9/100000 abitanti ogni anno) e la prima causa di invalidità permanente. Circa l’80% degli ictus ha eziologia ischemica, imputabile alla formazione di placche ateromasiche steno-ostruttive nelle carotidi extracraniche; il restante 20% è causato da un evento emorragico.

L’endoarteriectomia carotidea e l’impianto di uno “stent” (retino) carotideo rappresentano due opzioni chirurgiche per la prevenzione dell’ictus attraverso la riduzione della stenosi carotidea. Nel primo caso (figura sin) la procedura prevede l’isolamento della carotide occlusa, l’incisione dell’arteria nei pressi dell’ateroma, la rimozione dello stesso con lo strato più interno della parte vasale e conseguente ripristino della pervietà carotidea e infine la saturazione dell’incisione. Nel secondo (figura dx) viene inserito nell’albero arterioso, in genere dall’arteria femorale, un catetere munito di palloncino, che viene spinto fino alla sede dell’occlusione; qui il palloncino viene espanso, comprimendo l’ateroma sulla parete vasale; all’interno del vaso viene poi posizionato un retino metallico di forma cilindrica (stent) allo scopo di mantenere la pervietà dell’arteria.

I dati relativi all’efficacia delle due procedure nella prevenzione dell’ictus sono conflittuali. Nel tentativo di risolvere la questione P. Sardar e i suoi colleghi hanno eseguito una metanalisi dei dati di 6526 pazienti reclutati in 5 studi con un follow-up medio di 5,3 anni. L’endpoint primario, costituito dalla combinazione di morte, ictus e infarto miocardico periprocedurali e ictus a lungo termine non differisce in maniera significativa fra le due procedure (OR: 1,22; 95% IC: 0,94-1,59). L’impianto di uno stent carotideo determina un rischio superiore rispetto all’endoarteriectomia di sviluppare un qualunque ictus, periprocedurale e a lungo termine (OR: 1.50; 95% IC: 1.22-1.84), che si associa però a un minor rischio di eventi (morte, infarto, paralisi) periprocedurali. L’incertezza continua.

J Amer Coll Cardiol (IF=19.896) 69:2266,2017